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San Gottardo in Corte

Premessa

Amo, ogni tanto, mettermi nei panni del turista curioso, cioè di colui che, non vivendo la città quotidianamente, non dà tutto per scontato, come il classico milanese (sempre di fretta) perennemente indaffarato, ma viene a conoscerla pian piano, apprezzando con occhio “indagatore”, quanto si vede intorno.

Animati da questo spirito, procedendo a piedi da Cordusio, lungo la via Mercanti verso piazza del Duomo, si ha un po’ la sensazione, pur fra le infinite modifiche e ristrutturazioni apportate nel tempo, di tuffarsi improvvisamente nel passato. A pensarci, a voler dare un’età a queste costruzioni, c’è da restare allibiti: dobbiamo tornare indietro di ben ottocento anni … addirittura tre secoli prima della scoperta dell’America. Eravamo allora agli inizi del Duecento, nell’età comunale.

Certo, conoscendo un minimo di storia, questi palazzi si apprezzano diversamente.
Sulla destra, ad esempio, ci s’imbatte nel Palazzo della Ragione, uno dei più antichi edifici di Milano – simbolo delle frizioni, allora esistenti, fra potere laico ed ecclesiastico – costruito nel Duecento con la sua magnifica loggia, fulcro dell’attività comunale: palazzo questo, voluto a gran voce – per questioni, diremmo oggi, di privacy – dalla nobiltà locale di allora, stufa di dover continuamente subire, nelle proprie decisioni consigliari, le fastidiose ingerenze dell’Arcivescovo. Quest’ultimo, abitando proprio di fianco alla vecchia sede comunale (il Broletto vecchio, cioè l’attuale Palazzo Reale) – ove si usavano tenere le riunioni consigliari – spessissimo interveniva condizionando le decisioni e imponendo la sua interessata volontà.
Sulla sinistra, praticamente dirimpetto al Palazzo della Ragione, troviamo oggi quello dei Giureconsulti, sorto ristrutturando ed ampliando quello originario altrettanto antico, della Credenza di Sant’Ambrogio, voluto dal popolo, per “controllare da vicino” l’operato dei nobili del palazzo di fronte. Tale edificio ingloba l’antica torre civica di Napo Torriani (nobile loro capo), torre campanaria del 1260 circa, usata per segnalare alla cittadinanza eventi d’interesse pubblico, come il buon esito di qualche battaglia, la visita di persone di rango, l’apertura o chiusura delle porte della città, o la segnalazione di incendi in qualche sestiere, o ancora l’effettuazione di esemplari condanne a morte.
Procedendo oltre, passo dopo passo, si palesa gradualmente ai nostri occhi, la splendida vista della grande piazza, con la cattedrale gotica in primis, tanto bella quanto imponente, troneggiante sullo sfondo con le sue esili guglie e la Madonnina che domina su tutto. Duomo che francamente non dimostra i suoi quasi 640 anni dalla fondazione (1386). Alla destra del Duomo poi, il Palazzo Reale, ovverosia il Broletto vecchio, la prima antica sede comunale, mille volte ristrutturato, dietro al quale, spunta fra i tetti, un campanile, quello della chiesa di San Gottardo in Corte, altro gioiellino molto antico (1336) seminascosto, di indubbia bellezza. A sinistra e a destra della piazza infine, i magnifici portici settentrionali con la Galleria Vittorio Emanuele II, e quelli meridionali, di fattura molto più recente (Ottocento), progettati da Giuseppe Mengoni, al pari dell’Arengario (Novecento) che fanno da cornice al tutto.

Comunque, a parte la vista d’insieme, lo sguardo rimane indubbiamente “catturato” principalmente dal Duomo che. imperiosamente, si “ruba” tutta la scena, lasciando tutto il resto in secondo piano.
Certo, risulta per noi oggi, persino difficile immaginare come doveva essere la Milano di ottocento anni fa, con tutte le trasformazioni che ha subito nel corso dei secoli. Tanto per cominciare, la piazza non esisteva proprio, ma, sbucando da via Mercanti, ci s’imbatteva sul sagrato di un’antica basilica paleocristiana di Santa Tecla (o Basilica Maior o estiva). Il Duomo attuale ad esempio, allora non esisteva ancora, al suo posto, una chiesa più piccola, la basilica di Santa Maria Maggiore (o Basilica vetus o invernale), il Palazzo Reale di oggi è nient’altro che il rifacimento del Broletto Vecchio, dimora, nel Duecento, dei signorotti locali: dapprima dei Torriani, ed in seguito dei Visconti. Ricostruito nel 1330 da Azzone Visconti, prese allora il nome di Arengo che, a quell’epoca, aveva due giardini: uno sul davanti, che andò perso nel 1386, con la costruzione del Duomo, l’altro sul retro, che, grosso modo è il cortile interno del palazzo che ancora oggi vediamo. Ristrutturato in seguito da Francesco Sforza, con la dominazione spagnola, divenne la sede dei vari governatori. Fu poi il giovane architetto Giuseppe Piermarini (1735 – 1808), a dare definitivamente, nel 1770, l’aspetto che il Palazzo ha oggi, luogo questo, nei cui splendidi saloni, si organizzano mostre d’arte, visitate da migliaia di persone.

Andiamo invece a curiosare cosa si nasconde dietro l’attuale Palazzo Reale, attirati proprio da quel campanile che occhieggia dietro il suo tetto, dalla cui cima l’Arcangelo San Michele, pare invitarci venire a trovarlo.

San Gottardo in Corte: ecco la chiesa

Voluta da Azzone Visconti (1302 – 1339), signore di Milano come Cappella di Corte, la costruzione di questa chiesa accanto ai palazzi del potere signorile, fu affidata nel 1330, all’architetto cremonese Francesco Pecorari, su quello che era stato un piccolo oratorio dedicato a San Giovanni alle Fonti. La chiesa ed il relativo campanile, furono portati a termine nell’arco di sei anni. Nel 1336 infatti, pare venne chiamato a completarla con decorazioni ed affreschi Giotto (1267 – 1337) in persona, o comunque qualcuno degli allievi della sua scuola.

Come mai dedicata a San Gottardo?

La Chiesa, chiamata “del fonte”, forse perché sostituiva il battistero di S. Giovanni in Fonte abbattuto da Azzone per allargare la piazza, fu inizialmente consacrata alla Beata Vergine Maria, ma un folto stuolo di santi (San Michele arcangelo, i SS. Giovanni Battista ed Evangelista, San Zebedeo, i SS. Giorgio ed Eustachio – protettori di Azzone – e San Gottardo), a lungo, si contesero il privilegio di comparire esplicitamente nel nome da dare al complesso.

NOTA su San Gottardo di Hildesheim.
Vissuto fra il 960 ed il 1036, fu un vescovo benedettino della diocesi di Hildesheim. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica. In Italia il nome tedesco Godard, o Gotheard, venne collegato, con una delle solite interpretazioni o storpiature popolari, alla malattia della “gotta”: infatti il santo veniva invocato per alleviare i dolori di gotta e altre malattie artritiche e reumatiche.
Il significato preciso del nome Gottardo deriva dai termini tedeschi Goth=Dio e Hard=il forte, cioè “il forte di Dio”, “colui che ha la protezione di Dio”
.

Alla fine, fra i vari santi in lizza, la spuntò proprio San Gottardo, forte del “disinteressato” appoggio di Azzone che, manco a dirlo, nonostante la sua giovane età, era già da tempo, afflitto da disturbi di calcoli e di gotta!

Azzone Visconti – Signore di Milano del 1329 al 1339

Fra i suoi molti meriti, Azzone Visconti, che sicuramente fu uno dei più “illuminati” fra i signori della sua stirpe, che ressero le sorti della città in quel periodo, ebbe senza dubbio quello di essere vissuto con fama di uomo assolutamente “casto”, cosa davvero incredibile, dati i tempi e soprattutto la proverbiale inclinazione dei Visconti nei confronti del gentil sesso. Infatti, nonostante nel 1330 si fosse unito in matrimonio con Caterina di Savoia-Vaud, da lei non ebbe discendenti, Non per questo la ripudiò. Ebbe solo Luchina, unica figlia naturale, peccato venialissimo, cosa da nulla, se paragonato con lo sterminato stuolo di bastardi che, qualche anno più tardi, il cugino Bernabò avrebbe seminato in giro per mezza Italia (solo 20 figli naturali) evidentemente insoddisfatto dei 17 che gli dette la sua unica povera moglie!). La dice lunga quanto scriveva di lui lo storico Bernardino Corio: “de cà e de là dal Po, tot fioi ad Bernabò”; per non parlare poi delle abitudini, a dir poco singolari, di Matteo I Visconti, primo Signore di Milano – nipote dell’arcivescovo Ottone Visconti – che, ormai prossimo alla settantina, “per non poter supplire al calore naturale, tenea nel letto alcune piccole fanciulle e alcuna fiata di maggiore età …” (Corio).

Albero genealogico dei Visconti (Signori o Duchi di Milano)

In ciò era diligentemente imitato dal suo degno nipote Matteo II, pure lui primo cugino di Azzone, essendo il fratello maggiore di quel campione di Bernabò). il quale “delle più famose giovini di Milano non solamente una alla volta gli bastava, ma più ne tenea nel proprio letto…. performances queste, che, a detta di qualche mala-lingua, dovevano ahimè riuscirgli fatali, non possedendo egli la robusta tempra di suo nonno Matteo I che, a quanto si tramanda, pare fosse capace di spezzare a mani nude, un ferro da cavallo. Di lì a poco infatti, nel 1355, Matteo II sarebbe schiattato, solo trentaseienne, trovando sepoltura proprio nella chiesa di San Gottardo in Corte, (la Cappella Palatina voluta da suo cugino).

Matteo II Visconti (1319 – 1355)

Ndr. – In realtà, indipendentemente dal vizietto che aveva, Matteo II non morì per eccesso di performances col gentil sesso, ma per avvelenamento a casa sua durante una cena in famiglia organizzata a conclusione di una battuta di caccia con gli “amati” fratelli minori Galeazzo II e Bernabò. Secondo il famoso detto, parenti-serpenti, pare che furono proprio loro i mandanti dell’avvelenamento del fratello maggiore, per potersi spartire i territori dell’Oltrepò lombardo e dell’Emilia, sotto la sua giurisdizione.

Altro Visconti ad essere sepolto lì, fu, all’inizio del secolo successivo, il ventitreenne Duca di Milano Giovanni Maria, il primo figlio (degenere) che il grande Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano, aveva avuto con la sua seconda moglie, la cugina Caterina, figlia di Bernabò. Da quando era salito al potere dieci anni prima, regnava sulla città spargendo terrore ovunque andasse. Trovò la morte la mattina del 16 maggio 1412, trafitto dal pugnale di alcuni nobili congiurati (Baggio, Pusterla, Trivulzio, Mantegazza, Aliprandi, Maino, ecc.) che avevano fratelli o parenti stretti da vendicare perché fatti da lui orrendamente uccidere per inezie . Con grande sollievo del popolo, che non accettava la sua crudeltà gratuita e la malvagità innata, fu giustiziato sulla soglia della chiesa di San Gottardo in Corte dove da buon cristiano, si stava recando per assistere ad una funzione. Fine questa, comunque fin troppo pietosa, se paragonata a quella che lui riservava alle sue vittime le quali, di norma, venivano date in pasto ai feroci mastini dello Squarcia Giramo. il famigerato “canettiere” di Corte. Inutile dire che assassinato il giovane duca, analoga fine spettò, il giorno stesso, all’infame “canettiere” che, catturato e massacrato di botte dalla gente inferocita, fu strascinato per le strade della città, e alla fine appeso per la gola (a mo’ di monito per altri, ad un chiodo conficcato nel muro esterno di casa sua.

Giovanni Maria Visconti (1388 – 1412)
La morte di Giovanni Maria Visconti (quadro di Ludovico Pogliaghi)

La chiesa

La chiesa di San Gottardo venne edificata dall’architetto cremonese Francesco Pecorari tra il 1330 ed il 1336, su commissione del signore di Milano Azzone Visconti, come Cappella di Corte accanto ai palazzi del potere signorile (l’odierno Palazzo Reale) da una parte, e vescovile (l’Arcivescovado) dall’altra.

Ndr. – Le Cappelle di Corte (chiamate anche palatine) erano indipendenti dal vescovo (e proprio l’esenzione dalla giurisdizione ordinaria ecclesiastica distingue la chiesa palatina dalle chiese di patronato laico, molto diffuso un tempo, di “normali” famiglie aristocratiche).

Ai tempi di Azzone, al suo interno, la chiesa doveva presentarsi molto sontuosa. Nella sua cronaca contemporanea, il domenicano milanese Galvano Fiamma fa una dettagliata descrizione di come era l’edificio di culto all’epoca: pareti decorate con affreschi finiti a lapislazzuli e foglia d’oro; sull’altare, un trittico scolpito con storie della Vergine e un prezioso paliotto con gemme incastonate; pavimento e amboni rivestiti in avorio; ovunque paramenti in oro e seta.

Ndr. – Paliotto è il rivestimento che copre la parte anteriore dell’altare, in genere di stoffa preziosa ricamata o di altri materiali pregiati (lastre d’avorio, d’argento, d’oro cesellato, legno o marmo con rilievi)

Tale ricchezza decorativa testimonia la tradizionale vocazione oltremontana di Milano, aperta alle influenze del gotico francese e in particolare alla raffinata produzione artistica della corte avignonese, che i Visconti tendevano ad emulare.
La chiesa di palazzo conservava anche un ricco tesoro (con calici e vasi liturgici di grande pregio), donato nel 1498 da Ludovico il Moro al Duomo, ed oggi, quasi del tutto scomparso.

La demolizione della facciata della chiesa

La chiesa, a dire il vero, pur riuscendo a superare indenne, per quasi quattrocentoquarant’anni, le varie ristrutturazioni che hanno interessato l’attiguo palazzo del Broletto Vecchio, dal 1770, non è purtroppo più quella originale. (Per la cronaca, il Broletto Vecchio era stato utilizzato dapprima come Palazzo Signorile o Ducale ad uso dei Visconti e degli Sforza, poi come Palazzo dei Governatori che si erano succeduti numerosi, durante gli oltre 260 anni di dominazione spagnola ed austriaca prima dell’arrivo di Napoleone e dei francesi). A fare il “lanzichenecco di turno”, ci si mise, nel 1770, il giovane architetto Giuseppe Piermarini che, per ricavare lo spazio necessario alla costruzione di uno scalone d’onore dell’erigendo Palazzo Arciducale (o Reale) commissionatogli dal governatore austriaco di Milano conte Carlo Giuseppe di Firmian, su autorizzazione dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, pensò bene di “sacrificare”, per soddisfare le richieste del governatore, la sobria facciata tardo romanica della chiesa.

La facciata, che presentava un semplice profilo a capanna e tre sole aperture, fu sostanzialmente eliminata, essendo addossata ad altro edificio; l’ingresso della chiesa fu trasferito sul fianco destro (sud) dove furono parzialmente ricomposti il portale e il rosone. Entrare oggi dall’ingresso laterale coglie di sorpresa, non vedendo davanti a sé l’altare ma dovendo spostare lo sguardo sulla destra. La trasformazione avvenne in età neoclassica, a seguito di lavori eseguiti dal Piermarini presso il palazzo ducale, con l’eliminazione definitiva della facciata originale. La costruzione si presenta ad aula unica rettangolare con una singolare abside semiottagonale.

L’interno della chiesa di San Gottardo in Corte

La distruzione di opere insigni

E non è tutto purtroppo! In tale occasione, sempre a causa della demolizione di parte della chiesa, andarono pure distrutti (non si sa se per errore od incuria), alcune insigni opere che arricchivano quella chiesa tra cui, la magnifica arca sepolcrale di Azzone, opera attribuita a Giovanni di Balduccio da Pisa.

Arca di Azzone Visconti (Giovanni di Balduccio da Pisa)

Il fortunoso recupero dell’arca

Non fosse stato per la fortuita presenza di un appassionato patrizio milanese, tale Trivulzio che casualmente passando davanti al cantiere a due passi dal Duomo, notò degli operai che si accingevano a decapitare una statua per riutilizzarla come colonna. Colpito dalle eleganti fattezze della scultura, intuendo potesse fare parte del monumento visconteo andato distrutto, bloccò quello scempio e per pochi soldi, si fece consegnare la statua. Poi, frugando pazientemente fra le macerie ove quella statua era stata raccolta, riuscì a ricomporre quasi tutto, pezzo per pezzo. il puzzle del sepolcro di Azzone. Pare che successivamente sia stato ceduto prima al conte Anguissola e poi da questi, riconsegnato ai Trivulzio, che nel 1927 lo restituirono nuovamente alla chiesa.

Il sepolcro è ornato da un bassorilievo che ritrae l’Investitura di Azzone Visconti a vicario imperiale da parte di Ludovico IV di Wittelsbach detto “il Bavaro” (imperatore del Sacro Romano Impero dal 1328 al 1347). Sul coperchio vi è la statua di Azzone defunto. L’aspetto attuale della tomba è dovuto a una sua ricomposizione in chiave moderna nella quale non tutti i pezzi originali sono stati recuperati.

Entrando in chiesa, notiamo la navata, preceduta da un vestibolo su colonne ioniche. Proprio su quest’ultimo è possibile oggi ammirare un affresco (in precedenza era posto alla base del campanile) di scuola giottesca.

Il grande affresco della Crocifissione attribuito a Giotto o ad allievi della sua scuola
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Il grande affresco con la Crocifissione, collocato sulla parete di fondo della chiesa, costituisce, in assenza di testimonianze dirette, della presenza di Giotto a Milano, un documento preziosissimo dell’attività dei suoi seguaci più stretti. 

Con i secoli a venire, il palazzo subì altri numerosi restauri e cambiamenti: ogni nuova dominazione straniera portò infatti dei cambiamenti. Da ricordare, tra i tanti lavori eseguiti, il prolungamento dell’edificio fino a via Larga con la magnifica ala delle Rimesse, demolita nel 1923. Con la seconda guerra mondiale, l’intero palazzo subì notevoli danni, resi ancora più devastanti dall’incuria che ne seguì. Nascosto proprio dietro palazzo Reale, vediamo spuntare il campanile della chiesa di San Gottardo in Corte.

Il campanile delle ore

Uno degli aspetti più interessanti di questa chiesa è certamente il suo campanile, il più particolare e sicuramente uno dei più belli di Milano.

La torre campanaria ottagonale, poggiante su un basamento quadrato, ha mantenuto, nel corso dei secoli, la sua struttura originale. Si tratta di un magnifico esempio di campanile gotico lombardo, dove l’effetto decorativo è affidato al contrasto cromatico tra il rosso del cotto ed il bianco degli elementi architettonici in marmo. Le otto facciate sono tutte a mattoni rossi a vista fino alla cima, ornate da sottili ed elegantissime colonne in marmo; sul basamento è applicata una targa con la seguente scritta in latino : “Magister Franciscus de Pecoraris de Cremona fecit hoc opus” (Il Maestro Francesco dei Pecorari di Cremona fece quest’opera).

San Gottardo in Corte
Dettaglio del campanile di San Gottardo in Corte

L’Arcangelo San Michele domina dalla cima del campanile tutta la zona circostante e guardando Piazza del Duomo sembra quasi voler invitare i tanti turisti che quotidianamente l’affollano, a voler volgere lattenzione anche verso di lui: facendolo, sarebbero certamente ripagati da un gioiello che Milano, ancora una volta, riesce a nascondere anche a se stessa.

Arcangelo San Michele

Già da diversi secoli, dunque, Milano accoglie un’identità che la riconosce come capace di anticipare i tempi, rendendosi protagonista di progresso e d’avanguardia. È noto infatti come, soprattutto per i milanesi nella loro frenesia, il tempo sia denaro: la funzione pratica quindi di un simile monumento, non poté dunque che rivelarsi fondamentale per la popolazione. L’importanza e l’impatto sui cittadini del primo orologio pubblico fu tale da far sì che la strada fiancheggiante la chiesa di San Gottardo in Corte, venisse rinominata Contrada delle Ore. Così già dalla prima metà del XIV secolo, la quotidianità dei milanesi iniziò ad essere scandita dai familiari rintocchi di questo campanile.

Il frate domenicano Galvano Fiamma (1283 – 1344), minuzioso cronachista meneghino, cappellano dell’Arcivescovo Giovanni Visconti , ci testimonia che fu proprio nel1336, che i milanesi estasiati, sentirono per la prima volta scandire automaticamente le ore dal campanone del nuovo campanile della chiesa di San Gottardo in Corte, denominata anche San Gottardo a Palazzo, per essere stata collocata, in funzione di Cappella Palatina, di fianco all’Arengo.

Una precisazione

Il primo orologio pubblico in Italia, e sicuramente uno dei primissimi, se non addirittura il primo al mondo, fu in realtà quello comparso a Milano, sul campanile della basilica di Sant’Eustorgio, agli inizi del XIV secolo (1297-1309).

Incisione di Marc’ Antonio Dal Re, S. Eustorgio P. Padri Dominicani, Milano 1745
Basilica di Sant’Eustorgio, oggi – sul retro, la torre campanaria con l’orologio
Primo piano del campanile della Basilica di Sant’Eustorgio (con il quadrante dell’orologio)

Tuttavia, è l’orologio del campanile di San Gottardo in Corte, che viene indicato come il primo orologio pubblico di Milano, pur essendo posteriore di ventisette anni, rispetto a quello di Sant’Eustorgio. Viene spontaneo chiedersi per quale motivo si dia credito ad un errore così evidente.
Si tratta, in realtà, di due orologi di tipo diverso: quello di Sant’Eustorgio (il più vecchio) prevede un quadrante con lancette di tipo tradizionale, quello di San Gottardo in Corte, (più recente), non ha invece alcun quadrante ed è quindi invisibile. Le ore di quest’ultimo orologio, si potevano “sentire”, grazie ad un meccanismo considerato, ai tempi, davvero futuristico, in quanto segnalava lo scorrere delle ore, mediante i rintocchi di un battacchio sullunico campanone “fisso“, di cui quel campanile è dotato (un rintocco indicava lo scadere della prima ora, due rintocchi, quello della seconda, e così via …).

Secondo la tradizione contadina, allora vigeva l’ora italica, adottata in Italia fino quasi alla fine del Settecento: il nuovo giorno (cioè il cambio di data) iniziava un’ora dopo il tramonto. L’idea non era sbagliata, in un’ottica cristiana … prima ci sono le tenebre e poi la luce, per cui il ciclo era notte/giorno seguendo correttamente l’andamento solare. Si partiva pertanto, con un rintocco di campana allo scoccare della prima ora dopo il tramonto, per finire con i ventiquattro rintocchi dell’ultima ora della giornata, al tramonto successivo. Il suono di una campana poteva tranquillamente considerarsi molto più confortevole e di compagnia essendo possibile udirlo anche a notevole distanza, senza necessità di essere costretti ad andare fino a Sant’Eustorgio per vedere quale ora fosse. Bastava contare i rintocchi, per sapere che ora fosse, cosa questa molto utile soprattutto ai contadini che, sottraendo a 24 il numero dei rintocchi uditi, erano così in grado di conoscere con esattezza quante ore mancassero al tramonto. Sono cose che oggi ci paiono ovvie, ma allora non lo erano affatto. Per quanto riguarda il campanile di Sant’Eustorgio, pare che, all’epoca, l’ora si potesse vedere sul quadrante ma non udire (col rintocco delle campane).
Che l’orologio di San Gottardo in Corte fosse considerato dai milanesi, il primo orologio pubblico a tutti gli effetti (e non l’altro), dipendeva probabilmente dal fatto che la delicatezza del meccanismo inventato per la rotazione delle lancette sul quadrante, fosse il vero tallone d’Achille dell’orologio di Sant’Eustorgio, poiché le vibrazioni causate dal concerto di sei campane,, di cui era dotato quel campanile, lo avrebbero messo(e non l’altro’fuori uso in poco tempo, rendendolo inaffidabile.

Tuttavia, anche l’orologio senza quadrante voluto da Azzone Visconti, per quanto il meccanismo potesse essere futuristico, aveva un “piccolo” difetto: non teneva conto delle problematiche connesse all’ora italica, che, come già detto, prevedeva l’inizio del nuovo giorno, un’ora dopo il tramonto (naturalmente variabile a seconda delle stagioni). Cambiando quindi di continuo l’inizio del nuovo giorno, perché l’ora continuasse ad essere esatta, era necessario un costante intervento manuale di aggiustamento.

Per approfondimenti su come si misuravano le ore nel Trecento, cliccare sul seguente link :
Come si misurava il tempo

Ci si può immaginare, la sensazione provata dai milanesi di seicento anni fa nell’udire per la prima volta i rintocchi della campana il cui scopo, ancora prima di scandire le ore, era quello, nobilissimo, di ricordare a tutti quanto fosse necessario rendere “unico” ogni momento che viviamo. Solo così sarà impossibile dimenticare come ogni ora possa essere quella giusta per rendere Milano la città unica che tutt’oggi è.

Non ci si pensa, ma nell’alto Medioevo la misurazione del tempo era una cosa decisamente complicata, fin da quella della durata della giornata, che per noi oggi è banale. I primi orologi meccanici, come si è visto, sono comparsi appena alla fine del basso medioevo. Nel periodo della società feudale quindi, le giornate erano scandite dai rintocchi delle campane, che però non segnavano le ore del giorno ma le funzioni religiose che si svolgevano nelle singole chiese.
Per descrivere quanto fosse complicato il tutto, lo storico francese Mark Block ha sapientemente ricostruito nel suo celebre libro “La società feudale” alcuni episodi che fanno sorridere. Ne riporto uno che mi sembra davvero carino.

Aneddoto

A Mons, due nobiluomini, andati in giudizio per perorare le loro ragioni, avevano deciso di risolvere la loro contesa con un duello, alla presenza dei giudici. Il giorno convenuto però, uno solo dei due si presentò al luogo dell’appuntamento. Passata l’ora nona, come stabiliva il regolamento, il contendente presente pretese gli fosse riconosciuta la vittoria. Nulla da obiettare su questo punto, ma prima di convalidare la vittoria i giudici dovevano accertare che l’ora nona fosse effettivamente passata. Non esistendo allora orologi, i giudici decisero di consultare i monaci, la cui routine quotidiana, fatta di preghiere scandite nell’arco della giornata, li rendeva più avvezzi di altri, a sapere quale ora del giorno fosse. Avendo da loro ricevuto l’assenso per considerare l ’ora nona effettivamente passata, i giudici decretarono la vittoria del contendente presente.

Il dover convocare una commissione di giudici per poter stabilire che ora sia, è addirittura aberrante per noi oggi. Eppure era così fino a quando qualcuno non ha inventato un mezzo univoco per misurare il tempo che, come sappiamo, è una convenzione, un accordo tra individui che permette l’organizzazione delle attività sociali e la definizione della cronologia di queste ultime. rispetto ad un punto di riferimento temporale.

E’ comprensibile quindi, quanto la popolazione potesse rimanere affascinata e colpita quando nel 1336 a Milano fu costruito proprio sul campanile di S. Gottardo, il primo orologio pubblico d’Italia che, come visto segnava acusticamente lo scorrere delle ore nell’arco della giornata.

L’avvenimento era stato così importante che non solo quel campanile venne chiamato Campanile delle Ore, ma addirittura l’intera strada di quel quartiere fu chiamata “contrada delle ore”!

L’aneddoto sul ‘Bombarda’

Due fattacci accaddero quel fatidico 28 giugno 1521, a distanza di dodici ore l’uno dall’altro. Il primo a mezzogiorno quando la statua di San Michele arcangelo perse letteralmente la testa … e il secondo a mezzanotte quando Milano perse una delle sue torri più belle!⁣

Come sia potuto succedere tutto questo in un solo giorno, effettivamente non è dato a sapere con certezza: può darsi – e la cosa è molto probabile – sia stato l’effetto di alcuni fulmini caduti accidentalmente su Milano, durante una serie di violenti temporali d’inizio estate (Ndr. – il parafulmine sarebbe stato inventato da Benjamin Franklin appena nel 1752). Come invece amano ricordare i milanesi, pare sia stato frutto di un’idea balzana del governatore francese di turno, per tentare di risolvere la sua insonnia e le conseguenti emicranie.

Come detto, eravamo nel 1521, cioè in un periodo di notevole instabilità politica per Milano. In città si vivevano giorni difficili. Da quando, ventuno anni prima, il duca Ludovico il Moro, aveva avuto la malaugurata idea di sfidare il re di Francia, nonché quella, ancora peggiore, di avvalersi di un contingente di truppe svizzere rivelatesi infedeli che lo avevano addirittura venduto al nemico favorendo la sua cattura da parte dei francesi nella battaglia di Novara. La situazione era talmente confusa che i milanesi non sapevano più a chi obbedire: un giorno si insediavano in città i francesi e comandavano loro, il giorno seguente ecco che veniva messo al potere Massimiliano, il figlio di Ludovico il Moro, insediato dagli svizzeri come un loro fantoccio – visto che doveva fare quello che loro chiedevano, figurando Milano una sorta di protettorato svizzero – per poi cedere dopo pochi giorni, nuovamente il posto ai transalpini. Insomma, una situazione davvero complicata! Nel 1521, Milano era sotto dominio francese. Il suo governatore era tale Odet di Foix conte di Lautrec, soggetto un po’ fuori di testa, incapace di governare, ma soldato valoroso e brutale.

Odet di Foix conte di Lautrec

Essendo governatore, abitava al Broletto vecchio: poiché la sua camera da letto era vicino al campanile, aveva grosse difficoltà a prendere sonno particolarmente nelle giornate ventose, a causa dello stridore e del continuo cigolio prodotto dalla rotazione dello stendardo che l’Arcangelo Michele reggeva con la mano e che, posizionato sulla cima del Campanile della Chiesa di san Gottardo in Corte, indicava la direzione del vento, funzionando da banderuola.

⁣Il Bombarda era un artigliere svizzero catturato dall’esercito francese in una delle ultime battaglie, ed era ancora rinchiuso  insieme alla moglie, una vivandiera di nome Assunta, nelle segrete del Castello Sforzesco. Aveva fama di riuscire, con una bombarda, a centrare un obiettivo a centinaia di metri di distanza.

Una bombarda del XVI secolo

Venuto a conoscenza della cosa, il governatore fece convocare i due prigionieri a Palazzo, e si dichiarò disposto a conceder loro la libertà, se l’artigliere fosse riuscito con una cannonata sparata dalla torre del Castello, a centrare lo stendardo e quindi la statua, causa della sua insonnia. Il Bombarda non si lasciò scappare l’occasione e predisposto un cannone sulla torre del Filarete sparò un colpo da quella Torre, centrando la testa della statua di San Michele Arcangelo, e il suo stendardo. posto in cima al campanile della chiesa di San Gottardo.

Accortosi che il colpo era effettivamente riuscito, il governatore felice, decise di festeggiate l’avvenimento dando quella stessa sera una grande festa a palazzo. Ma a quella festa il governatore non invitò il Bombarda che effettivamente lasciò libero (ma solo di girare entro le mura del Castello), bensì Assunta, la bella giovane moglie dell’artigliere, che aveva avuto già modo di adocchiare quando aveva convocato a palazzo entrambi i prigionieri, per proporre loro le sue richieste. La vendetta del Bombarda a simile affronto, non si fece attendere. Sceso nei sotterranei della Torre principale del Castello (quella costruita circa 70 anni prima dal Filarete, tanto per intenderci) che intelligentemente i francesi avevano deciso di usare come deposito di esplosivi e munizioni, la minò e. a mezzanotte in punto, la fece saltare. 

Cosi, in un solo giorno, il Bombarda fece perdere la testa ad un arcangelo…. e saltare una delle più belle e grandi torri di Milano creando un’autentica carneficina con centinaia di vittime fra i soldati rimasti sotto le macerie.

Per approfondimenti sull’inchiesta relativa all’esplosione , cliccare sul seguente link :
La Torre del Filarete

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Il Castello