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La Nivola … un ascensore per il paradiso

Premessa

Probabilmente, nella mente di chi lo ha progettato doveva chiamarsi “nube” o “nuvola”, nome attribuito forse per il suo leggero movimento ondeggiante, assai simile a quello dell’incenso che sale nell’aria …. comunque sia  “Nivola” è il suo nome ufficiale ….. nome affibbiato dai milanesi (veri maestri in questo), sicuramente derivato dal loro dialetto per indicare un … particolarissimo ascensore per il paradiso!

Ebbene sì, questa è una delle tante curiosità che riserva Milano a chi viene a visitarla, una vera “chicca”, assolutamente unica, per chi già non la conosca, direi davvero particolare. Se non ne sapete proprio nulla, suggerisco caldamente di non perdervela, visto che il rito si ripete una volta all’anno. Merita davvero! Se a Milano, è sempre più raro, oggi, riuscire a trovare una casa “alta” senza ascensore, è altrettanto raro, se non addirittura unico, trovarne uno all’interno di una chiesa … e per andar dove? a “passeggiare” fra le volte della stessa? Esistono probabilmente oggi in certe chiese, ascensori interni per accedere ad aree riservate, i cosiddetti matronei, ma questo non ha nulla a che vedere con questo particolare ascensore, che oggi festeggia i suoi 450 anni, anno più, anno meno! Indubbiamente questo è uno degli spettacoli più straordinari che si possano vedere in un luogo di culto, una autentica rarità! Dove trovarla? In uno dei luoghi più rinomati della città: ovviamente in Duomo! Ma a che serve? vi chiederete …. la risposta fra poco … Ma procediamo con ordine, facendo una piccola, ma indispensabile digressione.

 Il Duomo di Milano, nella sua lunga storia, ha dato vita, come ci si può bene immaginare, a numerose tradizioni e riti: uno di questi, davvero diverso dagli altri perché assolutamente spettacolare, unico ed affascinante, è strettamente legato ad una delle Reliquie più importanti della cristianità, conservate in questa chiesa. Un rito di devozione e grande impatto visivo ed emotivo, fra i pochissimi della Chiesa cattolica, a conservare queste caratteristiche che, a distanza di quasi cinque secoli, è ancora oggi in grado di incantare fedeli e visitatori.

Probabilmente, ancora oggi, non tutti sanno che in Duomo, si custodisce da oltre mezzo millennio (dal 20 marzo 1461, per la precisione), il Santo Chiodo, una delle reliquie più importanti della cristianità, ovvero uno dei chiodi usati per la crocifissione di Cristo, chiodi che, unitamente alle tre croci (quella del Cristo fra i due ladroni), la tradizione vuole siano stati miracolosamente ritrovati sul Golgota, da Elena, la madre dell’Imperatore Costantino attorno al 326 d.C.. Antecedentemente, risulterebbe che questa preziosa reliquia fosse conservata, fin dal IV secolo, nella basilica estiva di Santa Tecla (a pochi passi dalla Cattedrale attuale). Pare fosse stato Ambrogio in persona, a quei tempi vescovo di Milano, a decidere di custodirla in quella basilica paleocristiana per dare modo ai fedeli, di poter facilmente venerare la preziosa reliquia.

Il Duomo in costruzione

Tornando al 1461, a settantacinque anni dall’inizio della sua costruzione, il nuovo grande Duomo, destinato a rimpiazzare le due basiliche vicine (quella invernale di Santa Maria Maggiore e quella estiva di Santa Tecla), era ancora ben lungi dall’essere completato.

Questo perché i lavori per la nuova Cattedrale, iniziati nel 1386, con l’idea di costruire una tipica chiesa in stile lombardo, furono bloccati dopo un intero anno di lavori per un radicale cambio di progetto. Era stata la visita al cantiere da parte dell’allora Signore Gian Galeazzo Visconti, a scombinare tutti i programmi! Rimasto assolutamente deluso nel constatare che la chiesa, da quanto già intuibile, fosse totalmente diversa da quelle che erano le sue aspettative, aveva fatto bloccare i lavori. Nel dare l’autorizzazione alla sua costruzione, tanto desiderata dal popolo, lui “sperava di far passare l’idea che questo immenso edificio diventasse il mausoleo della famiglia Visconti, e in quanto tale, mal gradiva l’idea di una delle classiche chiese in mattoni, stile lombardo, quando all’estero erano allora in costruzione delle cattedrali di ben altro tenore. Intendeva che il nuovo immenso edificio, fosse il più bello e il più grande fra le cattedrali europee già esistenti o in costruzione, poiché il prestigio di un Casato, all’epoca, si misurava anche da chi era in grado di costruire la Cattedrale più bella e più grande! E i Visconti non dovevano naturalmente essere secondi a nessuno!
Pertanto, la parte absidale già edificata in laterizio, venne abbattuta e dopo una totale revisione dei progetti, ricostruita ex-novo, questa volta in in marmo di Candoglia, materiale indubbiamente molto più pregiato del laterizio. Visto che il preventivo dei costi per la realizzazione della chiesa con questo nuovo materiale sarebbe salito alle stelle, Gian Galeazzo stesso con grande magnanimità donò alla Veneranda Fabbrica del Duomo, le cave di marmo di Candoglia, di proprietà della famiglia.

Si deve tener presente anche che il lavoro era pesantemente rallentato dal fatto che il nuovo Duomo “inglobava in toto” (in una sorta di Matrioska), la vecchia Cattedrale invernale, che veniva demolita un po’ alla volta man mano che i lavori con la nuova, procedevano.

Per ulteriori approfondimenti sulle basiliche, leggi in questo stesso sito,
Piazza del Duomo nei secoli
e Il Duomo di Milano (le sue origini)

Comunque, una volta finita la parte absidale del nuovo immenso edificio e sistemato l’altare maggiore (esattamente nel punto dove c’era quello della vecchia basilica), il fatto che il resto della chiesa fosse ancora in costruzione nell’area già occupata dalla basilica “invernale” di Santa Maria Maggiore, questo non precludeva, una volta consacrato, lo svolgimento di riti e cerimonie in quel luogo. Dai registri della Veneranda Fabbrica, risulterebbe che, all’inizio del 1461, era stata appena completata la costruzione del tiburio della nuova Cattedrale.

Ndr. – Il tiburio è un elemento architettonico che racchiude al suo interno una cupola, proteggendola. Può assumere svariate forme, come quella cilindrica, cubica, parallelepipeda o prismatica, a seconda che la cupola abbia pianta poligonale o circolare. Generalmente è costituito da un tetto a spioventi chiuso in sommità da una lanterna.

Come detto, si era deciso di demolire anche la millenaria basilica estiva (che, a dire il vero, non impattava direttamente con la costruzione della nuova Cattedrale) ma che, arrivando praticamente a ridosso dell’attuale scalinata del Duomo, non avrebbe dato un minimo di sfogo al sagrato del nuovo immenso edificio. Inoltre data la sua vetustà ed i cedimenti che stava iniziando a manifestare, era stata dichiarata pericolante. Pertanto, le Reliquie di san Galdino e del Santo Chiodo conservate in Santa Tecla, vennero traslate in Cattedrale, con una fastosa cerimonia officiata dall’allora Carlo da Forlì, nominato arcivescovo di Milano dal Duca Francesco Sforza (alla morte, nel 1457, dell’arcivescovo Gabriele Sforza, fratello del Duca).

NOTA
Il “furto” del Santo Chiodo da parte dell’arcivescovo, fece andare su tutte le furie i canonici di Santa Tecla che si videro defraudare di quella che ritenevano una loro legittima proprietà.  Questo diede origine ad una lunga contesa tra il Capitolo dei Canonici di Santa Tecla e la Fabbrica del Duomo.

Ove mettere la Reliquia in un Duomo ancora in costruzione?

Visto che il Duomo non era ancora terminato, si deve proprio a quest’arcivescovo la luminosa idea di collocare la preziosa reliquia nel luogo più visibile ma altrettanto inaccessibile della Cattedrale: scelse di piazzarla sopra l’altare maggiore, sull’arco trionfale della chiesa perché la posizione fosse adeguata all’importanza della Reliquia e, particolare non secondario, in posizione tale che fosse praticamente impossibile da rubare. Il posto prescelto quindi fu il catino dell’abside dietro l’altare maggiore, a circa 42 metri d’altezza (equivalente, grosso modo, al quattordicesimo piano di una casa attuale), luogo assolutamente impossibile da raggiungere per chiunque. Mai avrebbe immaginato che da questa sua idea, poco più di un centinaio di anni a seguire, sarebbe nato un rito davvero unico, quello della Nivola per l’Esposizione del Santo Chiodo.

E’ quindi evidente che all’epoca, per arrivare ad un posto così inaccessibile, l’unico sistema era quello di usare un “mezzo di fortuna” consistente in una sorta di cesta, a base rettangolare in legno, che potesse contenere almeno un paio di persone. Agganciata a quattro tiranti, tale cesta, ascensore decisamente primordiale, veniva sollevato manualmente da terra fino a quell’altezza vertiginosa, come fosse un normale montacarichi per pietre e capitelli, mediante l’uso di carrucole e verricelli. Era, nella sua versione originale, quella che sarebbe diventata in seguito, la cosiddetta Nivola (come parte integrante del rito dell’Esposizione del Santo Chiodo).

La devozione nei confronti della Reliquia

Nella Basilica di Santa Tecla

La devozione nei confronti del Santo Chiodo, finché era in Santa Tecla, non era mai tramontata del tutto anche se a volte veniva sollecitata direttamente dall’Arcivescovo. Nell’anno 1444, ad esempio, risulterebbe che il cardinale Enrico Scotto avrebbe concesso particolare indulgenza a quanti avessero contribuito all’illuminazione della reliquia del Santo Chiodo

Nel nuovo Duomo

Diversa la situazione quando, traslata la Reliquia in Duomo, per almeno un secolo fu quasi dimenticata, e per la posizione lontanissima dai fedeli e quindi irraggiungibile, e per l’assenza di “particolari stimoli da parte del Clero” cioè cerimonie religiose che ne promuovessero la sua venerazione.

Il culto per la Reliquia

Fu invece San Carlo Borromeo, durante il suo episcopato fra il 1564 e il 1584, a rinverdire, fra le altre cose, pure il culto “dimenticato” nei confronti di questa Reliquia, cui lui era personalmente molto devoto, promuovendo una volta all’anno in Cattedrale, l’Esposizione al pubblico del Santo Chiodo, oltre a fare una processione (portandolo in giro per la città) ed riservando per la devozione a questa Reliquia un ciclo di tre giornate (Triduo) di preghiere, per la richiesta di grazie da parte dei fedeli, passate col nome di Rito dellEsposizione del Santo Chiodo.

Tutto cominciò, a dire il vero, quel 1576, l’anno in cui, imperversando la peste a Milano, l’epidemia stava mietendo migliaia di vittime. Fu allora che ebbe l’idea di portare in processione la reliquia, per implorare al Signore, la fine della pestilenza. Fu quindi per sua volontà che sabato 6 ottobre 1576, San Carlo fece prelevare dalla teca, ove era custodito, il Santo Chiodo, portandolo in processione dal Duomo fino alla Chiesa di San Celso. Inserita la reliquia nel mezzo di una semplice croce (di tipo quasi penitenziale), la portò in giro così, sorreggendola lui stesso, pregando e camminando a piedi scalzi, per tutto il percorso. Pare, a detta di alcuni, che questo Santo Chiodo fece realmente il miracolo di far scemare pian piano la virulenza dell’epidemia.

In occasione della beatificazione di Carlo Borromeo, nel 1602, in uno dei quadroni della vita di San Carlo, che vengono esposti in Duomo ai primi di novembre di ogni anno, uno dei Fiammenghini (Gian Battista della Rovere) riprese su tela di 6 X 4,75metri, la scena della processione, riproducendo con esattezza proprio questa antica croce che rimase poi in uso, ancora per una cinquantina d’anni, per l’esposizione del Santo Chiodo.

Carlo Borromeo si reca in processione con il Santo Chiodo, dipinto di Gian Battista della Rovere nel Duomo di Milano. (foto Giovanni dall’Orto)

DOVE E’ FINITA LA CROCE CHE SAN CARLO PORTAVA IN PROCESSIONE?

Quella croce rimase in uso per l’esposizione del Santo Chiodo ai fedeli non solo durante tutto l’episcopato di Carlo Borromeo ma anche durante quello dei suoi successori fino almeno ai tempi del cardinale Federico Borromeo (suo cugino).
Fu poi il cardinale Cesare Monti (subentrato come arcivescovo di Milano, alla morte di Federico Borromeo) che donò questa semplice croce al convento carmelitano di Concesa (a quei tempi Comune autonomo, ora, unica frazione del Comune di Trezzo sull’Adda posta a sud del capoluogo verso Vaprio d’Adda). Fece realizzare una nuova croce, molto più bella, più solenne e sontuosa, di legno dorato (quella che si vede oggi all’interno della Nivola), molto più adatta della precedente per l’esposizione del Santo Chiodo sull’altare maggiore del Duomo, alla venerazione dei fedeli, nei giorni del Triduo.
Così la croce di San Carlo rimase in quel convento carmelitano fino all’epoca napoleonica. Quando, con le leggi di soppressione degli ordini religiosi, il convento venne secolarizzato, i frati carmelitani donarono la croce di San Carlo, alla parrocchia di Trezzo d’Adda, prima che potesse andare dispersa.

Tornando a San Carlo, nei decreti emanati dopo una Sua visita pastorale in Duomo, nel febbraio 1577, prima dell’inaugurazione della processione annuale del 3 maggio (festa liturgica del ritrovamento della Croce), prevedendo di riproporre l’esposizione ai fedeli del Santo Chiodo (che l’anno precedente aveva riscosso così tanto successo), ordinò la costruzione di una macchina secondo i disegni “di un suo architetto”, per prelevare il Santo Chiodo dalla sua teca lassù e portare in basso, alla venerazione dei fedeli. Un’antica descrizione della Nivola è contenuta nel diario del cerimoniere del 1583-84.

Fu quindi Carlo Borromeo, il primo arcivescovo ad inaugurare, nel 1577, il cosiddetto Rito della Nivola, operazione indubbiamente rischiosa e complicata, che, per motivi di sicurezza, non pare fece lui direttamente ma fece fare a qualcuno dei suoi canonici. Consisteva nel portare a terra (dalla sommità dell’abside) la reliquia e nel riporla nuovamente nella sua teca, a fine celebrazione del Triduo del Santo Chiodo. Il problema non era naturalmente l’operazione di prelievo o di riporto della reliquia, ma il “viaggio”! All’epoca non esistevano certo gli ascensori! Bisognava inventarne uno! Questo marchingegno era il primo in assoluto! Non solo, ma sappiamo benissimo quanto fosse “parco” e “spartano” l’arcivescovo nelle spese “superflue”…. non è difficile quindi immaginare quanto raccomandassero l’anima a Dio i poveri canonici da lui “comandati” a prelevare lassù la reliquia e a riportala nella sua teca due giorni dopo!

Come si è già detto, il Santo Chiodo è conservato sopra l’altare maggiore, in un tabernacolo appeso nel catino dell’abside del Duomo (cioè sulla volta della semi-calotta che termina superiormente l’abside) sospeso a circa 42 metri di altezza. Entro una grande croce di rame dorato, vi è una piccola teca di cristallo che custodisce la Reliquia preziosa. Entrando oggi in Cattedrale e alzando lo sguardo sopra l’altare maggiore, non è difficile notare sulla sommità della volta interna del Duomo, questo tabernacolo dorato (segnalato da una lampada rossa sempre accesa) dove appunto è conservato il Santo Chiodo, luogo eminente e inaccessibile se non con quella particolare “macchina”, detta appunto Nivola.

Com’era questa macchina all’origine

Ai tempi di San Carlo, la Nivola inizialmente era una semplicissima piattaforma di legno, ancorata a 4 tiranti manovrati a mano che la issavano in alto, con carrucole e verricelli. Come immaginabile, le norme di sicurezza lasciavano alquanto a desiderare a quei tempi.

E com’e’ la Nivola oggi

La forma della Nivola, nella veste attuale, al pari dell’artistica croce dorata, destinata ad accogliere la teca del Santo Chiodo una volta prelevato dalla sua teca inaccessibile, risalgono al Seicento: oggi non e cambiato assolutamente nulla: in particolare la prima, all’epoca dell’episcopato del cardinale Federico Borromeo, Arcivescovo di Milano dal 1595 al 1631, la seconda, a quello dell’arcivescovo Cesare Monti (1633 – 1650).

La cabina è praticamente una struttura formata da un grande cesto di rame dorato, a pianta ellissoidale, della dimensione di 3m x 2,5, rivestito in tela dipinta e drappeggi, del peso di circa 8 quintali (a vuoto), avvolto da nuvole di cartapesta (da qui è sicuramente derivato il nome Nivola attribuito a tutto il marchingegno) e interamente dipinta a olio con figure di angeli e cherubini in volo tra nubi e cielo. All’interno sono posti due sedili imbottiti frontali atti ad ospitare un massimo di 4 persone.

All’inizio del Settecento venne decorata con quattro statue lignee, anch’esse raffiguranti angeli. I dipinti risalgono al 1612, quando anche gli Annali della Veneranda Fabbrica del Duomo  parlano di accordi presi “con Paolo Camillo Landriani, detto il Duchino, per la dovuta mercede della nube da lui fatta, nella quale si ascende a prendere il S. Chiodo”; e di pagare “L. 500 all’intagliatore Gio. Battista Agnesi per mercede di quattro angioli da esso formati per la nuvola

Fino agli anni ’60 del secolo scorso, il movimento dei questa sorta di ascensore, avveniva mediante uno speciale meccanismo manuale erroneamente attribuito a Leonardo. Leonardo non c’entra nulla essendo morto prima ancora che San Carlo nascesse. Si deve tener conto che il peso da sollevare a pieno carico era dell’ordine di 1,2 tonnellate. In effetti era azionato da una coppia di argani e manovrato manualmente da sedici uomini (otto per argano) che operavano da due celle situate alla sommità della volta absidale, dietro il tabernacolo del Santo Chiodo. Per garantire un minimo di sicurezza a chi lo utilizzava, oltre ad evitare pericolose inclinazioni del mezzo e deprecabili conseguenze per i passeggeri, l’azionamento degli argani per il sollevamento di tale struttura a simili altezze, doveva procedere in modo assolutamente sincronizzato, cosa che, dato il criterio impiegato, non era semplicissima da realizzare. In realtà Il senso d’insicurezza per chi ci saliva era giustificato da una serie di concause inevitabili:

  • La calotta dell’abside è a 45 metri da terra. Ciò significa che, soprattutto vicino al suolo, vi è una naturale oscillazione del mezzo “effetto pendolo di Foucault” (dovuto, come noto, alla rotazione terrestre), problema non risolubile se in assenza, come in in questo caso, delle guide fisse laterali, tipo quelle dei normali ascensori, che ne bloccano l’oscillazione.
  • A complicare ulteriormente le cose, c’è anche il fatto che i quattro tiranti (affrancati ai quattro lati dell’ellissoide) non scendono dall’alto perfettamente a piombo, per cui, superata una certa altezza, la Nivola tende leggermente ad ondeggiare, non tanto da allarmare il pubblico, che da terra, probabilmente, non si accorge di nulla, ma sufficiente da essere distintamente percepito da chi è nell’abitacolo.
Lo schema di sollevamento manuale della Nivola: nelle nicchie (sopra la volta dell’abside) di sinistra e destra, due squadre da otto uomini l’una girando intorno all’argano, avvolgevano la corda in modo da sollevare l’ascensore. Il problema è che le due squadre non si vedevano e la sincronizzazione dei movimenti non era garantita! Cioè la Nivola poteva salire o scendere non restando perfettamente orizzontale

Non sono mancati gli incidenti

Le cronache dell’epoca riferiscono che il 3 maggio 1648, giorno in cui il cinquantaquattrenne cardinale Cesare Monti (1594 -1650), contravvenendo all’abitudine di lasciare quel compito ai suoi delegati, ha “voluto provare personalmente l’ebbrezza di salire sulla Nivola, osando” avventurarsi lassù con alcuni canonici per il prelievo del Santo Chiodo, pare che mentre era vicino al raggiungimento della sommità, il meccanismo si sia inceppato e lui ed i suoi collaboratori siano rimasti bloccati lì in sospeso, per il tempo necessario alla individuazione e riparazione del guasto. Non dev’essere stata per loro certamente un’esperienza piacevole nella consapevolezza dell’impossibilità per chiunque di poterli salvare, nella probabile ipotesi che non ci fosse soluzione risolubile in tempi ragionevoli, ai problemi tecnici incontrati.

Un’altra volta, dicono il 18 maggio (ma non è chiaro di quale anno si tratti, probabilmente lo stesso 1648), pare che la Nivola sia addirittura crollata. Risulterebbe abilmente sottaciuto il “trascurabile dettaglio” sull’eventuale presenza di qualche tecnico a bordo .. Meglio non sapere!

La cabina ha subito comunque, nel corso degli anni, diversi restauri.

Trazione elettromeccanica

Dal 1984, completato il restauro del tiburio della Cattedrale (dopo che nel 1969 era stato sul punto di collassare) si è proceduto pure ad ammodernare il sistema di sollevamento della Nivola, rimasta strutturalmente ancora quella ai tempi dei disegni fatti dall’architetto Giovan Battista Crespi detto il Cerano (1573 –  1632).

Dall’azionamento manuale, con la trazione delle funi, si è passati a quello elettromeccanico, che si traduce oggi semplicemente nel pigiare un pulsante, che mette in moto un unico argano, sistema questo indubbiamente molto più sicuro ed affidabile. Vi è un unico argano che provvede al sollevamento combinato delle quattro funi ed un movimento di salita o discesa molto lento ma costante. A vederlo salire, lo stupito fedele ha l’impressione di vedere levarsi una tenue voluta d’incenso. 

Il tempo impiegato dal mezzo per salire o scendere è di poco meno di 6 minuti per coprire i 42 metri. (circa 13cm/sec)

L’interno della Nivola, oggi
La suggestiva fase di salita della Nivola

Mons. Marco Navoni, dottore della Biblioteca Ambrosiana e canonico del Duomo e di Sant’Ambrogio, riferendosi alla Nivola, racconta «Potremmo dire che, fino a quando i meccanismi per sollevare la Nivola furono a trazione umana con argani, verricelli e corde, vi salivano i canonici; quando vennero meccanizzati e le sicurezze aumentarono, si cimentarono gli arcivescovi». Fu così almeno fino al 1982, quando a prelevare il Sacro Chiodo fu il capocantiere dell’opera di restauro statico della cattedrale. Un recupero fortunoso, svoltosi per motivi di sicurezza nel pieno dei lavori che si erano resi necessari in Duomo dopo che nel 1969, come già detto, il tiburio era stato sul punto di collassare.

Tabernacolo a 42 metri, ove è custodita la reliquia del Santo Chiodo
Dalla Nivola (a quota 42 metri), questa è la veduta dell’interno della Cattedrale

Quando si celebra il rito della Nivola

Il Rito della Nivola, abbinato all’Esposizione del Santo Chiodo, si celebra una sola volta all’anno.

Secondo il vecchio calendario liturgico (1577-1961)

Secondo il vecchio calendario liturgico, dal 1577 in poi, per volontà di San Carlo Borromeo, questo rito, si è sempre celebrato a partire dal 3 Maggio di ogni anno (data questa in cui la Chiesa ricorda il ritrovamento della Santa Croce) fino al 5 maggio, a conclusione dei tre giorni di preghiere (Triduo del Santo Chiodo). In questi tre giorni la preziosa reliquia rimane esposta alla venerazione del pubblico sull’altare maggiore.

Erano quindi il 3 ed il 5 maggio, le due giornate clou, quelle che, allora come oggi, attiravano in chiesa il maggior numero di fedeli e soprattutto di curiosi, grazie all’incredibile spettacolo, davvero unico, offerto dall’utilizzo di quello strano marchingegno al quale i canonici (che non soffrissero di vertigini e di mal di mare), “erano costretti” a prendere (affidando l’anima a Dio), per prelevare la preziosa Reliquia dal suo tabernacolo sotto la volta dell’abside, e poi, due giorni dopo, per riposizionarla nuovamente in quella sua teca, così incredibilmente inaccessibile.

Secondo l’attuale ordinamento liturgico (1962 – oggi)

Oggi viceversa, secondo il nuovo ordinamento liturgico del Concilio Vaticano II (anni 1962 – 1965), le cose sono cambiate totalmente: la festa del 3 Maggio (del ritrovamento della Croce) è stata soppressa. Dopo un lungo periodo di stop dovuto agli urgenti lavori di consolidamento del tiburio (una serie di impalcature erette per i restauri rendevano impossibile raggiungere la volta), l’Esposizione del Santo Chiodo, con il rito della Nivola, sono stati ripristinati attraverso la loro collocazione nei tre giorni (sabato, domenica e lunedì) più vicini alla data del 14 Settembre, festa dellEsaltazione della Santa Croce.

Chi volesse godersi lo spettacolo della salita e discesa della Nivola, il prossimo anno (2023) il rito del prelievo del Santo Chiodo dal suo tabernacolo dovrebbe avvenire, salvo imprevisti, il sabato 16 settembre e la sua ricollocazione in sede il lunedì successivo, 18 settembre. Comunque qualche giorno prima della celebrazione, date ed orari sono consultabili nella bacheca del Duomo o nel sito internet ufficiale (www.duomomilano.it).

Il ciclo delle tele sul Sacro Chiodo

A completare il fascino artistico delle celebrazioni, fino a pochi anni fa, veniva esposto all’ammirazione dei fedeli e dei numerosissimi visitatori, il grande  ciclo di tele sul Sacro Chiodo realizzate da diversi artisti nel corso del XVIII secolo. Raffigurano episodi delle storie del ritrovamento della Croce e delle vicende del Chiodo: si tratta di dipinti di 3,20 x 2.70 metri risalenti al 1700. Negli ultimi anni i quadri non sono stati più esposti al pubblico: oggi, sono comunque visibili solo con visita guidata organizzata dalla Veneranda Fabbrica del Duomo.

Qui di seguito, per chi fosse interessato, riporto l’elenco delle originali 22 grandi tele del ciclo (oggi ne sono rimaste solo 15, in quanto 7 sono andate disperse nel corso degli ultimi secoli) tele che, al pari di quelle più grandi del ciclo di San Carlo, fino a pochi anni fa, venivano esposte fra i piloni delle navate.

  • 1. A Costantino appare la croce col motto “In hoc signo vinces”, di Pietro Paolo Pessina (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 2. Costantino al concilio di Nicea raccomanda a san Macario di cercare la croce, di anonimo lombardo (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 3. Sant’Elena è avvertita in sogno da un angelo, di Pietro Maggi, offerto dalla corporazione dei mercanti di Lione (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 4Costantino provvede sant’Elena dell’occorrente per il viaggio in Terra Santa, del Bellotto, offerto dalla corporazione degli offellari [pasticceri] (disperso).
  • 5. Sant’Elena, giunta a Gerusalemme, è ricevuta dal vescovo san Macario, di Antonio Lucini (Duomo, sagrestia delle messe).
  • 6San Macario e sant’Elena sono ispirati circa la ubicazione del luogo dove si trova la croce, di ignoto, offerto dalla corporazione degli osti (disperso).
  • 7Sant’Elena fa distruggere la statua di Venere eretta sul Calvario, di T. Formenti detto Formentino (disperso).
  • 8. Sant’Elena alla presenza di san Macario fa scavare nel terreno e ritrova le tre croci, di G. Battista Barbesti, offerto dalla corporazione dei calzolai (Milano, chiesa di S. Maria in Camposanto).
  • 9. Il miracolo del morto risuscitato dal contatto con la vera croce, di Andrea Lanzani, offerto dalla Camera dei mercanti di seta (chiesa di S. Maria in Camposanto).
  • 10. La guarigione istantanea di un’inferma al contatto con una delle tre croci, offerto dalla corporazione dei filatori, di anonimo lombardo (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
    11. Sant’Elena e san Macario venerano la croce e i sacri chiodi, di certo Sampietro (S. Maria in Camposanto).
  • 12Il ritrovamento del Santo Sepolcro e dei Sacri Chiodi, di Carlo Preda (disperso).
  • 13. Sant’Elena, sorpresa da tempesta nell’Adriatico, immerge in mare uno dei sacri chiodi, di Francesco Fabbrica, offerto dalla corporazione dei cordai (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 14Sant’Elena indica a san Macario quale parte di croce desidera venga destinata all’erigenda basilica del Santo Sepolcro, del Ferroni (disperso).
  • 15. Un fabbro trasforma il Chiodo in un freno, che viene benedetto da un sacerdote, di Pietro Maggi, offerto dalla corporazione dei fabbri (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 16. L’imperatore Giustino, tormentato nel sonno dai demoni, ne è liberato dalla presenza del Chiodo, di Andrea (o Ferdinando?) Porta (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 17. Elena offre a Costantino il freno e il diadema ricavati dai sacri chiodi, di Tommaso Formentino, offerto dalla corporazione degli orefici (Duomo, soppalco della sagrestia meri­dionale).
  • 18. Costantino, che reca la croce rivestito degli abiti imperiali, è fermato da angeli finché non li abbia deposti, di Carlo Preda, offerto dalla corporazione dei droghieri (in S. Maria in Camposanto).
  • 19. Eraclio costringe Siroe a restituire la croce, di Pietro Antonio Magatti, offerto dalla corporazione dei merciai (Duomo, sagrestia delle messe).
  • 20. Siroe re di Persia restituisce la croce ad alcuni schiavi, del Formentino, offerto dalla stessa corporazione (Duomo, soppalco della sagrestia meridionale).
  • 21. Lo stesso episodio, elaborato in forma diversa da Antonio Maria Ruggeri (disperso).
  • 22. San Carlo reca il processione il Santo Chiodo durante la peste, del Pessina, offerto dalla corporazione dei cervellari (disperso).

[ rif. – l ciclo del Santo Chiodo – ArteVarese.com]

Tutte queste tele furono eseguite anteriormente al 1739: Alcuni dipinti erano già pronti nel 1708, e per la prima volta vennero in quell’anno esposti in Duomo. Così nel settembre del 2011, il cerimoniere dava notizia della grande novità dell’apparato in cattedrale: “In domo quest’anno si è fatto un apparato sontuosissimo con l’esposizione di alcuni quadri preziosi donati dalle università [le corporazioni] di Milano, quale apparato si andrà accrescendo per l’avvenire a gloria del Signore.”

Dovè la Nivola durante l’anno, quando a riposo?

 Al termine della cerimonia, vengono smontate le suppellettili più ingombranti della “cesta”, come gli angeli ed i cherubini, i ceri, i tendaggi, le mantovane ed arredo vari. Il cesto di rame viene poi avvolto in teli e collocato a dimora sopra una porta laterale del Duomo. Entrando all’interno del Duomo lungo il corso dell’anno e volgendo lo sguardo in alto nella prima campata destra della Cattedrale, non si può fare a meno di notare una tela di juta appesa sul soffitto e chiedersi quali enigmi essa avvolga. Quel “sacco” contiene proprio la Nivola che lì rimane “parcheggiata“, in attesa del successivo riutilizzo!

La Reliquia del Santo Chiodo

La tradizione vuole che sia una delle reliquie  tra le più preziose del mondo cristiano, uno dei chiodi della Croce di Cristo. A dire il vero, assomiglia ben poco ad un comune “chiodo”: e in effetti vi è chi lo chiama anche il “Sacro Morso“. Si tratta infatti di un ferro, lungo più di una ventina di centimetri, del peso (dicono) di circa 700 grammi, alla cui estremità non si trova la classica testa, bensì un anello, a sua volta agganciato a un anello più grande. E’ formato da altri due elementi: un ferro ricurvo a forma di ‘U’ con due anelli alle estremità e una sorta di grosso fil di ferro attorcigliato.

Leggende e tradizioni popolari sono concordi nell’affermare che indipendentemente da come il Santo Chiodo sia giunto a Milano, è finito in qualche modo in mano al vescovo Ambrogio. Vi è chi opta per un regalo che Ambrogio ricevette direttamente dell’amico imperatore Teodosio, e chi viceversa sostiene che la reliquia andata incredibilmente smarrita, sia stata ritrovata, per puro caso, proprio da Sant’Ambrogio a Milano, nella bottega di un maniscalco.

La reliquia del Santo Chiodo

Perché Milano e non Roma?

Naturalmente, tornando indietro nel tempo di così tanti anni, risulta difficile se non addirittura impossibile trovare qualcosa di certo (cioè di documentato). Gli studiosi in materia si sono cimentati nell’esprimere varie ipotesi, alcune anche fantasiose: vi è chi propende col dire che sarebbe stato donato alla chiesa milanese da alcuni crociati tornati dalla Terrasanta; secondo altri, sarebbe giunto a Milano addirittura con le spoglie dei Re Magi. Secondo altri ancora, ed è questa l’ipotesi che trova maggiori consensi (anche da successive conferme), sarebbe stata Elena, la madre dell’imperatore Costantino, a donare al figlio almeno due dei chiodi che avrebbe fatto forgiare, di ritorno dal suo viaggio a Gerusalemme intorno al 326 d.C. All’epoca, comunque, Milano era la capitale dell’Impero Romano d’Occidente e quindi Costantino viveva a Milano. Vi è la testimonianza di Sant’Ambrogio ad avvalorare questa ipotesi.

Quando l’imperatore Teodosio morì nel suo palazzo imperiale milanese a inizio febbraio del 395 d.C. vennero naturalmente organizzati i funerali in pompa magna e Ambrogio, allora vescovo, essendo anche suo amico, volle fargli il 25 febbraio, giorno del suo funerale, l’orazione funebre nella Cattedrale invernale di Santa Maria Maggiore. Durante tale orazione per la prima volta fece accenno  alla Reliquia del Santo Chiodo della Croce di Cristo, e al ritrovamento dei chiodi con cui è stato crocefisso Gesù Cristo spiegando che i Santi Chiodi, al pari della Croce, erano stati rinvenuti da Elena, madre dell’imperatore Costantino, quando, nel 326, in veste di archeologa ante litteram, si era recata in Terrasanta, proprio per ricercare tangibili tracce della passione di Cristo.

NOTA
Prassi dell’epoca era la consuetudine di “moltiplicare” le reliquie con l’unione di una bassa parte autentica, forgiare un manufatto pressoché simile, a mo’ di facsimile, la vera reliquia. In taluni casi, anche semplicemente per puro contatto, questa pratica è assai antica nella Chiesa. 

Secondo la tradizione, infatti, Elena lasciò la croce di Cristo a Gerusalemme, portando invece con sé i quattro chiodi con cui era stato crocifisso [Ndr. – perché quattro chiodi e non tre, non è del tutto chiaro].
Durante il viaggio di ritorno in Italia però, l’imbarcazione su cui si trovava, incappò in una violenta burrasca e, in Adriatico, per placarne la furia, la madre dell’imperatore decise di sacrificare uno dei chiodi gettandolo in mare [Ndr. – o forse soltanto toccò le acque con uno del chiodi]. A quanto pare, il vento comunque si placò immediatamente, le onde si abbassarono e l’imbarcazione poté proseguire la sua navigazione verso la costa, senza ulteriori intralci.

Rientrata a casa, a Roma, Elena decise quindi di far forgiare da due, dei tre chiodi rimasti, un morso di cavallo ed un elmo da donare al figlio Costantino, perché in tal modo, Dio lo proteggesse durante le battaglie. Morto Costantino, entrambe le reliquie a lui donate dalla madre, furono poi tramandate ai discendenti dell’imperatore, fino ad arrivare alla fine a Teodosio. Poi, inspiegabilmente, le due reliquie scomparvero, ed è qui che nasce la leggenda:

Si narra che, non si sa come, la reliquia finì con altri ferri, nella bottega di un fabbro: questi, senza sapere cosa fosse, ce l’aveva proprio incandescente sull’incudine e cercava di piegarla con un martello, proprio mentre davanti la sua bottega stava passando in quel momento il vescovo Ambrogio. Per quanti colpi il maniscalco picchiasse sul metallo, non riusciva neppure a scalfirlo. Ambrogio stette per un po’ ad osservare il lavoro affannoso del pover uomo. Riposizionato il ferro nel braciere per l’ennesima volta, scaldato fino a diventare incandescente e riportato sull’incudine, nonostante il maniscalco lo battesse con tutta la forza che aveva, provocando una pioggia di scintille, il metallo non si deformava minimamente. Il fabbro, sudato e imprecante, si arrese gettando a terra il martello. Ambrogio allora si avvicinò all’uomo e gli chiese il permesso, una vota raffreddato, di poter esaminare l’oggetto: era un grosso chiodo ritorto, lungo poco più di una spanna. Ambrogio (probabilmente ispirato da Dio), improvvisamente impallidì. Si trattava di uno dei quattro chiodi usati per crocifiggere Gesù: si inginocchiò ad adorarlo e presolo con sé, si preoccupò di trovargli una degna sede.

Delle vicende del Santo Chiodo dopo Sant’Ambrogio, non si sa più nulla, per la totale assenza di documenti. Lo storico Morigia raccoglie la tradizione al riguardo, su documenti e relazioni andati completamente purtroppo perduti, ed afferma che uno dei Santi Chiodi è a Milano fin dai tempi di Ambrogio, il quale lo ebbe in dono da Teodosio e lo collocò nella Cattedrale estiva di Santa Tecla (dedicata in origine al Santissimo Salvatore). Certamente i primi elementi della tradizione, riportata dallo storico, non sarebbero supportati da documenti, la presenza “ab antiquo” del Santo Chiodo nella Basilica di Santa Tecla è invece massicciamente comprovata. La più antica testimonianza scritta del Santo Chiodo è risalente all’anno 1389, ed è contenuta nel Registro di Previsione che raccoglie gli atti degli anni che vanno dall’anno 1389 al 1397. 

Rispetto a quanto affermato da Elena, relativamente alla forgiatura dei chiodi per Costantino, Ambrogio narra la vicenda concordando con lei sul morso di cavallo ma non parla dell’elmo, che sostituisce invece con un diadema (fascia o cerchio d’oro usati nell’antichità da uomini e donne per legare i capelli e per ornamento), descrivendolo come fatto di oro e di gemme, tenute insieme all’interno dal cerchio di ferro ottenuto col chiodo.

Da questa lettura ebbero origine due importanti tradizioni: quella del Santo Chiodo custodito oggi nel Duomo di Milano e quella della Corona Ferrea custodita nel Duomo di Monza, quale corona-simbolo degli imperatori romani cristiani.

La corona ferrea nel Duomo di Monza

Conclusione

Per completare il discorso sulla Nivola ed il Santo Chiodo paiono interessanti queste due osservazione di mons. Navoni:

«mentre si deve al cardinale Giovanni Battista Montini (dal 1954 arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI) l’usanza che sia lo stesso arcivescovo a salire sulla Nivola per recuperare il Santo Chiodo,

il vero momento di rilancio del culto al Santo Chiodo, va (nei tempi recenti) sicuramente ascritto al cardinale Carlo Maria Martini (arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002)».
«Nel 1984 cadeva il quarto centenario della morte di san Carlo e l’arcivescovo Martini volle marcare tale ricorrenza rinnovando la devozione al Santo Chiodo a livello diocesano e cittadino.
Da Trezzo fu portata in Duomo la croce originale di san Carlo e il Santo Chiodo peregrinò per tutta la Diocesi, ritornando così all’attenzione dei fedeli ambrosiani, molti dei quali – proprio come prima di san Carlo – forse ne ignoravano l’esistenza».

Con il cardinale Angelo Scola, (Arcivescovo di Milano dal 2011 al 2017, e attualmente Arcivescovo emerito di Milano)  la ricorrenza ha poi assunto anche una forma nuova, più al passo con i tempi: quella dell’incontro, la peregrinazione del Santo Chiodo, in alcuni dei luoghi-simbolo di Milano, allo scopo di far sentire la presenza della Chiesa nei luoghi di dolore, per essere vicino a chi soffre, sia per evidenziare problemi che travagliano certe frange della nostra società. Dal Policlinico alla Clinica Mangiagalli, luoghi di sofferenza ma anche di nuove sfide, cui è chiamata la sanità pubblica (non ultimo l’aborto); dal grattacielo Unicredit in piazza Gae Aulenti, simbolo della finanza, alla parrocchia di San Giuseppe dei Morenti, nella periferia nordorientale di Milano, per l’incontro con gli emarginati ed i migranti  confrontandosi con i loro problemi e le loro necessità; fino alla Triennale, in un incontro col mondo della del mondo della cultura.

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