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San Carlo Borromeo, personaggio discusso

Premessa

Personaggio centrale del XVI secolo, Carlo Borromeo è stata una delle figure più eminenti e scomode dell’epoca, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la potenza dell’oblio. Con la mentalità di oggi, ripercorrendo la storia della sua vita, non nascondo che si rimane confusi, per non dire perplessi, pur con le dovute cautele e giustificazioni del caso. Personalmente, mi è venuto spontaneo pormi più di una domanda …… eppure questa è storia vera, assolutamente documentata! Uomo del suo tempo, con le sue convinzioni e le sue superstizioni, venerato dal popolo, è, ancora oggi, ricordato a Milano sia come principale attuatore della “Controriforma”, che per le sue numerose opere di carità verso i poveri e i bisognosi, ed è secondo, per fama, unicamente a Sant’Ambrogio.

El “Sancarlun”

Sulle sponde del Lago Maggiore, la si nota subito: è la colossale statua di San Carlo Borromeo, o “el Sancarlùn”, come lo chiamano affettuosamente i locali ed i milanesi, che domina le acque del lago da un’altura posta alle spalle di Arona. E’ una imponente statua in rame, alta ben 20,68 metri (o 32 metri, se si considera con tutto il suo piedestallo in granito), che, alla fine del XVII secolo, quando venne realizzata, apparve a tutti come una delle meraviglie del mondoIn effetti, rimase per quasi due secoli, la statua più alta del mondo, fino al 1886, quando, a New York, venne inaugurata la Statua della Libertà, alta ben 46 metri, il cui scultore Frédéric-Auguste Bartholdi, pare avesse soggiornato proprio ad Arona, per studiarne la struttura.

Federico Borromeo, cugino di Carlo, divenuto suo successore come Arcivescovo di Milano, volle che in Arona sorgesse questa colossale statua di San Carlo, perché fosse ben visibile dal lago e tramandasse nei secoli la figura del Santo. Il progetto iniziale fu opera del Cerano (Giovanni Battista Crespi (1573 – 1632)). In seguito, fu modificato dagli scultori Siro Zanella di Pavia e Bernardo Falconi di Lugano, che poi lo realizzarono. I lavori iniziarono nel 1630, ma, per vedere completato il capolavoro, si dovette aspettare il 1698.

Si tratta di una statua cava, formata da grandi lastre di rame battuto, che ricoprono uno scheletro in pietra; è possibile per il visitatore salire, tramite una scala interna, sino alla testa del colosso, e, attraverso le fessure degli occhi e delle orecchie, ammirare il panorama circostante.

Ma vediamo meglio di capire chi era Carlo Borromeo, la sua personalità, e perché fu fatto Santo.

I suoi primi anni

Carlo nacque il 2 ottobre 1538 ad Arona (Novara) sul Lago Maggiore, nella Rocca della sua famiglia, dimora demolita nel 1800, per ordine di Napoleone. Era il terzogenito di sette figli di Giberto Borromeo (1511 – 1558), conte di Arona, e di Margherita Medici di Marignano (1510 – 1547), sorella del marchese Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino, (capitano di ventura e poi generale di Carlo V) e del cardinale Gian Angelo (futuro papa Pio IV).

Ndr. – Pare che fra i Medici di Marignano e i Medici di Firenze, non esista alcun rapporto di parentela.

Ritratto di Margherita Medici di Marignano con i figli Federico (1535), Vitaliano (1537) e Carlo (1538) (Palazzo Borromeo, Isola Bella)

Suo padre Giberto apparteneva al ramo padovano di un’antica e ricca famiglia, originaria dei dintorni di Roma, ma quasi subito trasferitasi nel borgo di San Miniato al Tedesco, in provincia di Pisa. Carlo, fin da giovanissimo, dimostrò spiccato interesse per la genealogia familiare. Era molto legato sia alla nobiltà che alle antiche origini paterne. Avendo scoperto che “Buon Romei” venivano chiamati tutti coloro che provenivano da Roma (nonostante non fossero pellegrini), e colpito dal fatto che il cognome Borromeo della sua famiglia, deriverebbe proprio dalla contrazione di questi due vocaboli, era con questi due nomi, che Carlo, in gioventù, amava firmare le proprie missive!

Secondo le consuetudini di allora, non essendo il primogenito in famiglia, il suo destino sarebbe stato inevitabilmente la prelatura. Non deve pertanto stupire se, il 13 ottobre 1547, all’età di soli 9 anni, (sua madre era già morta da qualche mese), venne tonsurato e ricevette la tonaca clericale, per mano del vescovo di Lodi, Giovanni Simonetta. Il mese successivo, il 25 novembre, venne nominato abate commendatario dell’abbazia dei SS. Graziano e Felino di Arona, titolo onorifico questo, che però gli avrebbe fruttato, già alla sua giovanissima età, una rendita consistente, che volle devolvere ai poveri.

Ndr. – Labate commendatario è un ecclesiastico, o, qualche volta, un laico, che tiene un’abbazia “in commendam” (in affidamento). Tale situazione si verifica quando il governo effettivo del monastero è separato dalla titolarità dell’abbazia. In questo caso, all’abate spetta solo il percepimento dei redditi prodotti dal convento, mentre l’autorità sui monaci è esercitata dal priore. L’abate commendatario generalmente non risiede nel monastero, ma in un luogo diverso. Se ecclesiastico, può avervi anche giurisdizione, ma, in ogni caso, non esercita alcuna autorità sulla disciplina monastica interna. [rif. Wikipedia]

I suoi studi

Da quanto detto, ebbe un’adolescenza  certamente aliena da distrazioni mondane. Negli anni successivi, divenne abate commendatario di una dozzina di altre abbazie, una persino a Manfredonia.
Portato per le lettere, i primi anni, si dedicò alle materie umanistiche a Milano e, successivamente, allo studio del diritto a Pavia, sotto la valida guida di Francesco Alciati, (cardinale e giurista imparentato con i Medici), conseguendo lì, il 6 dicembre 1559, appena ventunenne, la laurea in utroque iure.

Ndr.- “Utroque iure“, letteralmente significa “nell’uno e nell’altro diritto” cioè è una formula usata un tempo per indicare sia il diritto civile che quello canonico.

 Sempre a Pavia, fondò nel 1561, una struttura (l’Almo Collegio Borromeo – il collegio di merito più antico d’Italia tuttora in attività) idonea a ricevere gli studenti meritevoli che versavano in precarie condizioni economiche.

Sotto il papato di Pio IV

Indubbiamente la famiglia da parte di padre, ma soprattutto da parte di sua madre, influì enormemente sulla fulminea carriera del giovanissimo Carlo.

La sua ascesa fu soprattutto dovuta allo zio materno, il cardinale Giovanni Angelo Medici di Marignano (fratello di Margherita, la madre di Carlo), che, nel conclave del 25 dicembre 1559, venne eletto al soglio pontificio, col nome di Pio IV.

NOTA
Il predecessore di Pio IV, papa Paolo IV (1555-1559 Gian Pietro Carafa), aveva favorito in molti modi i propri familiari, i Carafa, concedendo loro privilegi e benefici.
Pio IV, appena eletto, fece guerra al nepotismo, aprendo un’inchiesta sui parenti del predecessore. Molti furono sollevati dal proprio incarico, alcune carriere vennero bloccate. Il 30 gennaio 1560, Carlo Carafa (allora cardinale), fu rimosso dall’incarico e il papa lo fece in seguito perseguire, condannandolo a morte, per gli abusi di potere che esercitò durante il precedente pontificato.

Nonostante la guerra al nepotismo da lui stesso promossa, anche Pio IV, non fu esente da numerosi favoritismi alla propria famiglia. A sua parziale giustificazione, fu determinante la situazione familiare di Carlo Borromeo, rimasto, da poco, orfano di entrambi i genitori: naturale quindi che lo zio pontefice, sentisse il dovere morale di aiutare il più possibile, i suoi due nipoti maschi: Federico e Carlo. [Ndr. – Vitaliano era già morto nel 1542, all’età di soli 5 anni]

Giovanni Angelo Medici (1499 – 1565) diventato Papa Pio IV (1559 – 1565)

Carlo, nipote prediletto

Pioggia di cariche ed onorificenze

Nel Concistoro del 31 gennaio 1560, ad appena un mese dalla sua elezione a papa, Pio IV nominò il ventiduenne nipote Carlo, cardinale diacono (dandogli la berretta cardinalizia e il titolo dei Santi Vito e Modesto). [Ndr. – Il giovane non era ancora nemmeno prete]. Questi, appena laureato, era stato chiamato a Roma dallo zio (assieme al fratello maggiore Federico) per festeggiare la sua elezione al soglio pontificio. Pare che, nel contesto della Curia romana, il suo compito iniziale consistesse nel riferire  al  Papa,  le  suppliche pervenute e  nello  trasmettere  ai prelati i  pareri  del  pontefice.

Gli affidò pure pare quello stesso giorno, (e qui mi si lasci il beneficio del dubbio visto che non tutte le fonti concordano sulla data) , la Presidenza della Consulta, cosa davvero incredibile per l’importanza del ruolo, dicastero questo, che il precedente pontefice, Paolo IV, aveva istituito per provvedere a tutta l’amministrazione civile degli Stati pontifici: toccò così a Carlo Borromeo, l’onore di aprire la lunga serie dei Segretari di Stato, nella storia del governo della Chiesa.

In data 8 febbraio, (cioè la settimana successiva) lo zio Papa, lo nominò pure amministratore perpetuo dell’arcidiocesi di Milano, con l’obbligo però di rimanere a Roma e di gestire la lontana diocesi, per mezzo di vicarî (i vescovi ausiliari Sebastiano Donati (1561) e Gerolamo Ferragata (1562)).

Il 26 Aprile dello stesso anno poi, Pio IV lo nominò governatore per un biennio, delle legazioni pontificie di Bologna, della Romagna, e delle Marche d’Ancona.

Dandogli tutti questi incarichi, il Papa fece di lui, uno dei suoi più stretti collaboratori.

Ma i titoli non erano ancora finiti … sempre lo stesso anno, lo zio lo nominò protettore della Corona del Portogallo, dei Paesi Bassi, dei Cantoni cattolici della Svizzera, dell’ordine gerosolimitano di Malta (oggi conosciuto come SMOM – Sovrano Militare Ordine di Malta) e di parecchi ordini religiosi, fra cui i francescani ed i carmelitani.

Essendo tutte queste cariche ed onorificenze e redditizie, il patrimonio di Carlo diventò considerevole in brevissimo tempo. Oltre alle abbazie, di cui continuava a mantenere la funzione di abate commendatario, divenne pure arciprete della basilica S. Maria Maggiore in Roma, e gran penitenziere (cioè colui che, nelle cattedrali, imponeva ai peccatori, penitenze pubbliche). Per gestire tutte queste cariche, a soli 22 anni, aveva già alle sue dipendenze uno staff di qualcosa come150 persone (che voleva tutte vestite rigorosamente di velluto nero). Quanto a lui, il suo compito era quello di trattare con i diplomatici accreditati presso la S. Sede e di regolare gli affari correnti con lettere, istruzioni, ordinanze vergate dal suo segretario, Tolomeo Gallio (1527 – 1607), il futuro cardinale di Como (colui che avrebbe fatto edificare Villa d’Este a Cernobbio).

Federico

Nello stesso tempo, Papa Pio IV pensò a sistemare pure l’altro nipote, Federico (1535 – 1562), fratello maggiore di Carlo.

Essendo il primogenito, Federico aveva avuto un’educazione cavalleresca, come si conveniva alle tradizioni della famiglia, fra le più importanti a Milano, quanto a possedimenti feudali e aderenze politiche. Appena diciottenne, lo zio Gian Giacomo Medici marchese di Marignano, comandante dell’esercito mediceo, se lo prese con sé, facendolo partecipare alla guerra di Siena del 1553 – 1555, per insegnargli il mestiere. Ma l’apprendistato del ragazzo, alla scuola del prestigioso condottiero, non fu soddisfacente, essendo il giovane, a giudizio unanime dei testimoni del tempo, molto più amante della bella vita, che incline ad affrontare col necessario impegno e rigore, la vita militare.

Non potendo offrirgli cariche ecclesiastiche, a Pio IV non restò che nominarlo generale di Santa Romana Chiesa (generale dell’esercito pontificio), dandogli pure i redditizi titoli onorifici di duca di Camerino (nelle Marche) e di principe di Oria (nel Salento). 

Era questa, la classica strategia familiare, che voleva ogni suo membro, collocato in un posto chiave del potere. Pure Carlo Borromeo, in seguito, sarebbe rimasto fedele a questi vincoli di sangue, sfruttando la propria posizione, per difendere gli interessi della famiglia: avrebbe infatti fatto sposare a dei principi, le tre sorelle (Camilla, a Cesare Gonzaga, Geronima, a Fabrizio Gesualdo e Anna, a Fabrizio Colonna), ampliando a mezza Italia, l’influenza dei Borromeo; pare inoltre che, con un prestito  di 25.000 scudi, ottenuto dal duca di Toscana, avrebbe assicurato una dote alla nipote Margherita Gonzaga, e pure sistemato alcuni cugini.

Queste forme di evidente nepotismo da parte del Papa, alimentarono naturalmente malcelati malumori in seno a quanti, nella gerarchia ecclesiastica, ambivano a quelle posizioni: nomine che, fatte ad un inesperto come Carlo, non potevano che procurargli imbarazzo, ponendolo in cattiva luce, nell’ambiente della Curia romana. Ma nel Cinquecento queste erano le usanze, che oggi diremmo “da clan”, e non restava che assoggettarvisi. Sarebbe poi spettato a Carlo, nel corso degli anni, il compito di dimostrare ai suoi denigratori che le scelte sul suo conto, operate dallo zio, erano state ben riposte.

Da questo momento, Carlo, si può dire, appartenga alla Storia, e la sua vita può dividersi in due periodi: il primo, di solo 5 anni, romano-tridentino, il secondo, di 19 anni (fino alla sua morte), tutto milanese.

Periodo romano-tridentino (1560 – 1565)

Questo periodo, a fianco dello zio, fu caratterizzato inizialmente dalle sue nomine e poi dalla riapertura dei lavori del Concilio di Trento di cui Carlo, facendosi promotore dell’evento nella sua veste di Segretario di Stato, ebbe un ruolo chiave, sia in fase di ripartenza, che in quella di prosecuzione e di epilogo dello stesso.

Furono numerosi i suoi interventi di tipo amministrativo, organizzativo e diplomatico, soprattutto in fase di apertura della terza sessione del Concilio, dato l’iniziale scarso interesse del clero invitato a partecipare all’evento. .Ebbe il suo bel daffare con le Nunziature Apostoliche, nel suggerire loro le tecniche da usare per convincere, con le buone o con le cattive, i vescovi più restii a trasferirsi a Trento, per presenziare ai lavori.

Contemporaneamente però, si trovò all’improvviso a dover affrontare un periodo di profonda crisi personale, seguito poi da un processo di maturazione spirituale.

La morte del fratello

I lavori stavano procedendo per il meglio, quando, la sera del 18 novembre 1562, a sessione del Concilio di Trento in corso, gli giunse notizia che, per una banale influenza, era improvvisamente venuto a mancare suo fratello Federico (27 anni), cui era molto legato. Naturalmente ne rimase sconvolto. Il fratello, fra l’altro, lasciava vedova, la giovanissima moglie, sposata appena due anni prima. Era stato proprio Carlo a concludere, ai primissimi di maggio, il contratto di matrimonio del fratello, con la diciottenne Virginia della Rovere (1544 – 1571), figlia di Guidobaldo, duca d’Urbino. Il loro matrimonio era stato celebrato pochi giorni dopo, a Pesaro, il 9 maggio 1560.

La grande crisi personale

L’improvvisa morte di Federico, unico valido sostegno del suo casato, mise Carlo di fronte a nuove responsabilità nei confronti della propria famiglia (le 4 sorelle ancora ragazzine, cui, fino ad allora, aveva badato il fratello maggiore). Si trovò quindi di fronte ad un bivio: o abbandonare l’ufficio ecclesiastico, per assumere lui il ruolo di capo famiglia (prendendo quindi la carriera militare, e creandosi una famiglia), oppure restare al suo posto, al servizio della Chiesa.

Scelta difficile per chiunque … a maggior ragione per lui, data la posizione che rivestiva: un lungo periodo di travaglio interiore, che gli fece trascorrere diverse notti insonni. Grazie allo zio, era diventato molto ricco; ora era rimasto l’unico maschio della famiglia, l’unico erede dei beni paterni; se avesse voluto, si sarebbe anche potuto sposare (non avendo ancora preso i voti); la vedova di suo fratello non aveva ancora figli, né già nati, né in arrivo. Chiunque, al posto suo, ventiquattrenne, abbandonata la tonaca, avrebbe optato per il matrimonio con la giovane e bella cognata ventenne. Insistenze in tal senso e l’invito ed avere dei figli per non estinguere la dinastia familiare, gli pervenivano quotidianamente, da parte di parenti ed amici, ignari che fosse misogino. Lo zio Papa, per il quale stava lavorando come segretario di fiducia, pare, avesse tentato quei giorni di convincerlo ad abbandonare la tonaca e a prendere il posto del fratello maggiore, sostituendolo nella carriera delle armi.

La sua meditata e difficile decisione

Alla fine, optò per restare dov’era, ma con un cambio radicale sia delle abitudini che del suo stile e tenore di vita. Scelta questa, non certo facile per un giovane di soli 24 anni, che metteva comunque in luce un carattere ed una forza di volontà, davvero incredibili.

Tentato inizialmente di lasciare gli incarichi assunti, alla fine li mantenne, per poterne distribuire i proventi ai poveri e ai bisognosi. Dall’oggi al domani, dimezzò i suoi collaboratori, riducendo drasticamente le spese correnti. Quanto al suo stile di vita, fece un’autentica “conversione”: non più il lusso cui, da sempre, era stato abituato, ma l’ascetica povertà, la ricerca dell’essenziale, le privazioni, le mortificazioni, i digiuni a pane e acqua (almeno un giorno alla settimana), il rigore e la severità su se stesso (nel tentativo di raggiungere un ideale di perfezione), la meditazione, il raccoglimento nelle lunghe ore di preghiera: da questo momento in avanti, queste sarebbero state le sue nuove regole di vita. Vari testimoni affermano che fu effettivamente così!

A chi conoscendolo, ebbe modo di rivederlo qualche tempo dopo la “conversione”, sembrò fosse diventato un’altra persona.
In una relazione mandata a Venezia nel marzo del 1565, cioè tre anni dopo, l’ambasciatore Giacomo Soranzo scrisse di cose viste con i suoi occhi: “Il cardinale Borromeo di 27 anni è di non molto buona complessione, essendosi macerato per gli studi, i digiuni, le vigilie e altre astinenze… La vita sua è innocentissima e castissima. Dice messa ogni festa, digiuna spessissimo, e in tutte le cose vive con tanta religione… che si può con ragione dire, ch’egli solo faccia più profitto nella Corte di Roma, che tutti i decreti del Concilio insieme; essendo cosa molto rare volte veduta, che un nipote di Papa e a lui carissimo, in una età tanto giovane, in una Corte piena di tante comodità, abbia superato se stesso, la carne e il mondo”

Digiuno di san Carlo Borromeo (opera di Daniele Crespi)

Carriera ecclesiastica fulminante

E’ innegabile che, dal momento della sua decisione di restare nella Chiesa, la risalita della scala gerarchica ecclesiastica fu, per lui, davvero fulminea, roba da guinness dei primati! Fra il 1563 e il 1564, nell’arco di soli 10 mesi, da semplice diacono, si trovò ad essere già arcivescovo di una diocesi come quella di Milano (che, come territorio amministrato, era la più grande d’Italia, con oltre 6000 preti e 1.000.000 di fedeli).

Ordinato prete il 17 luglio 1563 (per mano del cardinale Federico Cesi, nella basilica romana di Santa Maria Maggiore), si fece consacrare vescovo il 7 dicembre del medesimo anno (il giorno di Sant’Ambrogio – dal cardinale Giovanni Serbelloni nella Cappella Sistina), ed infine fu nominato arcivescovo il 12 maggio 1564 (dallo zio Papa, dopo che l’ex arcivescovo di Milano Ippolita II d’Este, aveva rinunciato alle sue pretese su quella sede).

Federico Zuccari, San Carlo Borromeo consacrato cardinale, Pavia, Almo Collegio Borromeo

 I lavori per il Concilio

IL CONCILIO DI TRENTO IN ESTREMA SINTESI
Fu convocato per trovare un argine al dilagare in Europa della riforma protestante  (la dottrina di Martin Lutero).  Durò in tutto ben 18 anni, dal 1545 al 1563, ma si svolse in tre momenti separati, con due lunghe sospensioni. In tutto questo periodo, a Roma si succedettero ben cinque papi (Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV e Pio IV). Alla fine, fornì alla Chiesa, con la cosiddetta “controriforma” (insieme di regole e di affermazioni a sostegno della dottrina cattolica), lo strumento per rispondere alle contestazioni sia del calvinismo che del luteranesimo.

Carlo Borromeo, pur giovanissimo, usò tutta la propria influenza come Segretario di Stato pontificio,  per portare a termine la terza e ultima fase del Concilio al quale non solo prese parte attiva, ma fu figura dominante nelle sue ultime sessioni del 1562-1563, i cui decreti finali vennero confermati dal pontefice nel concistoro del 26 gennaio 1564. In un suo brillante intervento, in chiusura di Concilio, Carlo aveva perorato la causa cristiana nell’interpretazione del significato da dare alla messa, che, ad ogni sua celebrazione, intende riproporre il vero e proprio sacrificio di Cristo, confutando la visione protestante secondo la quale, l’Eucarestia avrebbe soltanto il fine di commemorare l‘Ultima Cena.

Il periodo milanese (1565 – 1584)

L’ANTEFATTO STORICO
La situazione morale nella diocesi milanese era andata progressivamente peggiorando negli ultimi ottant’anni, principalmente a causa dell’assenza di una guida spirituale. A dire il vero, i vescovi erano stati nominati dai vari papi, ma, per motivi vari, non erano mai stati presenti, se non in via del tutto sporadica. A partire dal 1484 ( il Ducato era sotto la reggenza di Ludovico il Moro) si erano succeduti ben 8 fra arcivescovi e cardinali (spesso intrallazzi di famiglia).

  • 1484 – 1488  : Giovanni Arcimboldi , cardinale, arcivescovo “sempre assente”, al servizio del papato
  • 1489 – 1497  : Guidantonio Arcimboldi , arcivescovo “spesso assente”, al servizio del papato
  • 1497 – 1519  : Ippolita I d’Este, cardinale, arcivescovo “raramente residente”, rinunciò al favore del nipote Ippolita II d’Este
  • 1519 – 1550  : Ippolita II d’Este, cardinale, arcivescovo “mai residente”, tre volte “dimesso con diritto di appello”
  • 1550 – 1555  : Giovanni Angelo Arcimboldi, l’unico presente
  • 1556 – 1558  : Filippo Archinto, arcivescovo (osteggiato dal clero, prese residenza a Bergamo)
  • 1559 – 1560  : Giovanni Angelo Medici, cardinale e papa Pio IV saltuariamente presente”
  • 1560 – 1564 : Carlo Borromeo, cardinale diacono “sempre assente”, al servizio del papato

La lunga assenza di un “padrone di casa” all’Arcivescovado, aveva accentuato il lassismo dei costumi, a cominciare dalla nobiltà, estendendosi poi gradualmente, a tutti gli strati della società civile, clero compreso.

L’insediamento a Milano

Nonostante la nomina di Carlo Borromeo ad arcivescovo di Milano risalisse al 12 maggio 1564, sia per precedenti impegni assunti fuori sede in qualità di Segretario di Stato, sia per restare accanto allo zio che, ormai sessantaseienne e in precarie condizioni fisiche, preferiva tenerlo vicino a sé, Carlo non riuscì a venire a Milano, prima del settembre 1565, prendendo poi residenza stabile, appena agli inizi del 1566, al ritorno dal conclave convocato a Roma, in seguito alla morte dello zio (il 9 dicembre 1565). In quell’anno e mezzo di assenza da Milano, fu sostituito dal suo bravissimo Vicario generale, Niccolò Ormaneto.

Quando, a inizio 1566, poi prese stabilmente possesso dell’arcidiocesi meneghina, la presenza di Carlo passò tutt’altro che inosservata in città. Soggetto decisamente dispotico, fu il primo dei grandi attuatori della controriforma cattolica, decidendo di usare l’arcidiocesi di Milano come “test” (banco di prova per l’Italia e il mondo intero) per sperimentare sul campo, l’attuazione delle direttive del Concilio appena concluso.

Ndr. – Quando si presentò a Milano nel ruolo di Arcivescovo, Carlo aveva solo 27 anni. Quindi, alla obiettiva difficoltà di far “digerire” le nuove rigide norme del Concilio, ad una società totalmente impreparata a questo genere di cose, bisogna aggiungere quella legata all’età di chi doveva farle rispettare. Essendo infatti gli aristocratici, i nobili e le autorità civili cui erano diretti i suoi strali, anagraficamente, quasi tutti più anziani di lui, nessuno di loro era disposto ad accettare passivamente rampogne o lezioni di moralità soprattutto se impartite da un ventisettenne autoritario come lui. Questo generò spesso motivo di conflitto su diversi temi sia con i vari governatori, che con le altre cariche istituzionali dello Stato.

In questo suo disegno di riforma, fu inizialmente coadiuvato da Niccolò Ormaneto. Quest’ultimo restò al suo fianco, fino al 1570,quando, nominato da papa Pio V, vescovo di Padova, fu costretto a trasferirsi nella diocesi della città di sant’Antonio.

Giro di vite contro l’amoralità dilagante

Fin dalle sue prime visite pastorali nella diocesi, il Borromeo rimase sconcertato per il disordine e il degrado morale e materiale in cui versava la Chiesa milanese nel suo complesso, e per l’eccessiva licenziosità delle autorità locali (troppe feste e baldorie che, a suo dire, nobiltà ed aristocrazia si concedevano).

Ndr. – Parlava a ragion veduta, visto che le finestre dell’Arcivescovado davano proprio sul cortile del Palazzo del Governatore (attuale Palazzo Reale) dove di solito si facevano le feste della nobiltà.

Seguendo i metodi indicati dal Concilio per l’organizzazione della sua diocesi, si dedicò attivamente alla stesura di norme importanti per il rinnovamento dei costumi ecclesiastici, al rafforzamento della moralità dei sacerdoti e alla loro preparazione religiosa (fondando i primi seminari unicamente per ecclesiastici). Curò la revisione della vita parrocchiale, obbligando i parroci a risiedere sul posto e a tenere aggiornati i registri delle nascite, matrimoni e morte dei parrocchiani. Riordinò gli ordini religiosi maschili e femminili, ripristinando la clausura, laddove prevista e non più rispettata. Emanò una serie di ordinanze atte ad obbligare clero e fedeli ad una maggior disciplina, silenzio e raccoglimento in chiesa, particolarmente durante le funzioni; a bandire qualunque tipo di traffico o festa all’interno dei luoghi di culto (avendo scoperto che in chiesa persino si ballava); a stabilire maggior rigore morale nel clero, con un deciso richiamo alla scrupolosa osservanza del celibato per preti e parroci (molti di questi, erano infatti sposati); a separare con staccionate fisse, nei luoghi di culto, gli uomini dalle donne, onde evitare peccaminose distrazioni e possibili tresche …. Rigore morale questo, spesso osteggiato da quanti (anche fra il clero) si sentivano direttamente “toccati” dai suoi provvedimenti restrittivi: resistenze che, a volte, sfociarono in aperte ostilità.

Per la sua opera riformatrice, si servì anche dell’aiuto degli ordini religiosi (gesuiti, teatini, barnabiti), fondando più tardi (nel 1578), la Congregazione degli Oblati di Sant’Ambrogio.

Fu indubbiamente un gran lavoratore, se si considera che nei diciannove anni che restò a Milano, indisse sei Concili provinciali e ben undici Sinodi diocesani oltre a compiere, per tre volte, il giro dell’intera Diocesi e consacrare più di 100 chiese, tra nuove e ricostruite.

Ritratto di san Carlo BorromeoGiovanni Ambrogio Figino (1548-1608)
Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Era un soggetto piuttosto “difficilino” se nemmeno le chiese esistenti (come edilizia) gli andavano bene, non essendo, a suo dire, conformi alle regole del Concilio … Arrivò persino a scrivere di suo pugno, con incredibile pedanteria, due interi libri Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, d’istruzioni dettagliatissime su come, d’ora in avanti, avrebbero dovuto essere costruiti i nuovi luoghi di culto quanto a ubicazione, forma, muri esterni, facciata, atrio, sagrato, tetto, pavimento, porte, finestre, pulpito, confessionali, tabernacolo, altari, amboni …. e come dovessero essere le relative suppellettili cioè lampade acquasantiere, statue, calici, candelieri …

La sua intransigenza, spesso lo portava a non rendersi conto dei limiti del proprio ruolo. La sua pretesa che l’esercizio illimitato della giurisdizione vescovile sia sul clero che sui laici fosse il presupposto per una efficiente attività pastorale, fu motivo di vivaci scontri con le locali autorità spagnole. La sua convinzione, ad esempio, di avere il diritto di far rinchiudere nelle prigioni dell’Arcivescovado non soltanto preti e suore, ma pure i laici condannati dai tribunali del vescovo, sollevò naturalmente proteste a non finire, da parte delle autorità civili.

IL CASO DEL BARGELLO ARCIVESCOVILE
Si chiamava con questo nome, nel Medioevo, l’ufficiale che capitanava le forze di polizia dell’Arcivescovo.
Era il luglio del 1567: il Borromeo, aveva ricevuto la denuncia di un tale di Gallarate che gli chiedeva giustizia perché un certo Castiglione, evidentemente invaghito di sua moglie, l’aveva rapita e abusato di lei. Il bargello dell’Arcivescovo ordinò subito ai suoi, di fare arrestare il Castiglione. A questo punto intervenne pure il Capitano di Giustizia dell’autorità civile, il quale ordinò ai suoi bravi l’arresto del bargello del Borromeo, per abuso di potere (non essendo di sua competenza, l’arresto di un laico). Si mobilitarono naturalmente le alte sfere nella speranza di risolvere il caso per il meglio. Alle schermaglie sempre più accese nel tentativo di richiamare il Borromeo a non superare le proprie competenze … l’Arcivescovo reagì propinando una serie di scomuniche: la prima, al Capitano di Giustizia, reo per aver fatto imprigionare il suo bargello, le altre, a tutto il Senato di Milano, perché giudicato responsabile di aver ordinato la punizione con tre tratti di corda, di un suo ufficiale che, aveva fatto arrestare un concubinario di Gallarate, dietro suo ordine. Ricorsi a Roma, da entrambe le parti, mentre la vicenda si trascinò per mesi e mesi …

Le sue convinzioni

La sua “conversione” lo portò ad avere una concezione ascetica della vita, che lo spinse ad affermare che “la malattia è un dono di Dio”. Non aveva limiti: obbligava tutti, in periodo quaresimale, a fare estenuanti digiuni, dimostrando disprezzo per la vita terrena e privilegiando la morte, come mezzo per l’incontro con Dio. A causa di questi eccessi, perse la salute lui stesso (morendo infatti a soli 46 anni), e pure la sorella prediletta, Anna (morta a soli 32 anni proprio al termine dei digiuni quaresimali).

Carlo Borromeo (dipinto di Orazio Borgianni (1574-1616))

Il suo rapporto con le donne

La donna, per Carlo, si sa, era il simbolo del peccato. Era rimasto traumatizzato la prima volta che aveva visto l’immagine della “Leobissa”, (moglie del Barbarossa), effigiata dai milanesi, per scherno, nuda nella pietra e in atto di radersi il pube, come usavano le prostitute. Nel vederla così, incombente e a gambe larghe, dall’arco di Porta Tosa, Carlo si era sentito annichilito al punto da non voler pìù trattare con una donna: «il Castissimo, in tutta la sua vita non volendo parlar mai con donna alcuna, anche se gli fosse stretta parente» (raccontava di lui, padre Grattarola). Naturalmente fece rimuovere subito quell’osceno bassorilievo, che, essendo lì da secoli sotto gli occhi di tutti, con la sua familiare immobile presenza, aveva evidentemente turbato la vista solo a lui.

la Leobissa di porta Tosa (attualmente al Castello Sforzesco)

Nell’esercizio della sua attività pastorale, Carlo fu costretto ad incontrare molte donne, ma trattò con loro sempre con la massima prudenza, sia per evitare insinuazioni, sia perché, avendo fatto voto di castità, voleva fugare persino le poco probabili tentazioni (essendo misogino). Pertanto, quando doveva parlare con una donna, Borromeo faceva sempre in modo che fossero presenti testimoni, preferibilmente ecclesiastici, e che il colloquio avvenisse, «in loco più publico che poteva […] et non si tratteneva se non quel manco tempo che poteva, trattando se non di quelle cose che erano necessarie» (come ricordava il suo segretario Gerolamo Castano).

L’ossessione per le streghe

A Lecco, nel 1569, in una delle sue visite pastorali, fece arrestare otto donne, «accusate di aver fatto morire fanciulli e bestiame, di aver calpestato il crocifisso e l’immagine della Madonna, di aver rubato ostie consacrate e di aver fatto molti altri fatti strani» e di aver «commesso ogni sorta di lussuria, con quei loro demoni incubi». Per lui, il processo era da considerarsi un’inutile perdita di tempo, poiché, sotto tortura, quelle donne avrebbero confessato qualunque nefandezza. Carlo Borromeo, volle a tutti i costi mandarle al rogo per stregoneria, essendo state giudicate (sotto tortura) ree confesse. Ma il Papa Pio V a Roma, non meno terribile di lui, riuscì a fermarlo. Fatto esaminare il caso di Lecco dal Sant’Uffizio, il processo sommario imbastito dal Borromeo, venne invalidato, soprattutto per l’assenza del corpo del reato. La sentenza fu annullata e le otto donne (per loro fortuna), liberate.

È naturale che, ad un uomo siffatto, con carattere così forte, con posizioni così intransigenti, con convinzioni così radicate, tali da sentirsi quasi “onnipotente”, si opponessero ostinate resistenze di ogni sorta. Incontrò molta opposizione alle sue riforme, al punto che il governatore dello Stato e molti senatori rivolsero denunce contro di lui ai tribunali di Roma e Madrid.

La rivolta degli ecclesiastici

Che quell’anno (1569), la misura fosse ormai colma, lo si percepisce da due episodi eclatanti che coinvolsero l’Arcivescovo, nell’arco di nemmeno due mesi. Il clero corrotto, principale oggetto della sua attenzione, manifestò evidenti segni d’insofferenza nei suoi confronti, arrivando al punto di ribellarsi.

1° episodio: 30 agosto 1569 – CONTROVERSIA CON I CANONICI DI MADONNA DELLA SCALA.
La chiesa di Madonna della Scala (edificio demolito nel 1776, per consentire la costruzione, al suo posto, del Teatro alla Scala) fu teatro, il 30 agosto 1569, di una vivace forma di contestazione fatta dai Canonici all’indirizzo dell’Arcivescovo, venuto lì quel giorno, in visita pastorale, alla loro basilica. Essi si opposero al suo ingresso in chiesa, addirittura con le spade, azione questa, a dir poco, eclatante, indice più che evidente del malumore nei suoi confronti, serpeggiante fra il clero.
Carlo ovviamente non la prese molto bene: scomunicò i Canonici, venendo a sua volta, da loro scomunicato. Il papa Pio V annullò, in seguito, quest’ultima scomunica.

2° episodio: 26 ottobre 1569 – L’ATTENTATO AD OPERA DEGLI UMILIATI
Tutto nacque in seguito alla richiesta a Carlo Borromeo, da parte di papa Pio V, di riformare il potente Ordine religioso degli “Umiliati”, le cui idee si erano distanziate dalla Chiesa cattolica, approssimandosi verso posizioni protestanti e calviniste.

Ndr. – L’Ordine degli “Umiliati” fu promosso nel 1201 da papa Innocenzo III, quale associazione religiosa di laici non coniugati e di chierici provenienti da ogni ceto sociale. Membri di un movimento religioso affine al valdese, si proponevano di vivere secondo i dettami della Chiesa primitiva, senza possedere nulla personalmente, traendo i mezzi di sussistenza dal proprio lavoro e costituendo comunità di uomini e di donne che vivevano insieme in continenza. Appartenevano per la maggior parte al ceto operaio, che si autogestiva occupandosi principalmente della lavorazione della lana, vendendo i manufatti prodotti e fondando ricche e floride manifatture tessili.

Nonostante il loro rigoroso statuto bandisse il lusso e certe spese voluttuarie, la Congregazione, in assenza di controlli, cominciò, man mano, a sorvolare sulla stretta osservanza dello stesso e la situazione finì con lo sfuggire di mano, scivolando gradualmente, verso l’anarchia più totale. Quando, nel Cinquecento, gli “Umiliati” vennero addirittura sospettati di calvinismo, i contrasti con Carlo Borromeo, si fecero più accesi. Il richiamo, al Capitolo dell’Ordine, ad una maggiore osservanza dello statuto e al ritorno a un tenore di vita più discreto e modesto, non fece che acuire ulteriormente le frizioni fra la Congregazione ed il cardinale.
Quattro monaci dell’Ordine, più intemperanti degli altri, ordirono un complotto contro di lui. Uno fra questi, tale Gerolamo Donati, detto “il Farina”, si prestò, dietro lauto compenso, a fare lui da giustiziere all’arcivescovo.
Così la notte del 26 ottobre, mischiandosi fra i parenti (che si univano in preghiera nella Cappella ove Carlo, a tarda sera, usava raccogliersi in meditazione) il Donati riuscì ad eludere la sorveglianza delle guardie all’ingresso dell’Arcivescovado. Introdottosi furtivamente nella Cappella dietro agli altri, riuscì ad arrivare di spalle, a pochi passi dalla sua vittima. Estratto l’archibugio nascosto tra le vesti, e puntata l’arma alla schiena del cardinale, probabilmente preso dall’agitazione e dall’emozione, mancò incredibilmente il bersaglio sicuro, sfiorandolo solo di striscio. Nel trambusto che ne seguì, il Donati riuscì a scappare, dileguandosi nell’oscurità delle strade del centro, ma fu preso ugualmente qualche giorno dopo, assieme a tutti i suoi complici. Dopo dieci mesi di carcere, nell’agosto 1570, vennero tutti giustiziati, Lorenzo Campagna e Geronimo Legnano decapitati, Clemente Marisio e il “Farina”, impiccati. Carlo non mosse un dito per evitare quello squallido massacro sulla pubblica piazza e fare il generoso gesto di perdonarli. In conseguenza di questo attentato, nel febbraio del 1571, l’Ordine degli “Umiliati” venne sciolto dal papa Pio V ed i suoi beni, furono messi a totale disposizione dell’arcivescovo.

L’attentato a Carlo Borromeo

La carestia del 1570

Fu nel momento del bisogno, durante la pesante carestia del 1570, dovuta allo scarsissimo raccolto dell’anno precedente, che si rivelò l’altro lato della personalità dell’arcivescovo: la grande generosità, la totale disponibilità, la sua bontà d’animo. La penuria di farina, e quindi l’aumento del prezzo del pane e di altri viveri di prima necessità, si fece particolarmente sentire fra la popolazione meno abbiente, che si riversò dalle campagne in città, in cerca d’aiuto, per non morire d’inedia.

Dando raro esempio di carità cristiana, totalmente a proprie spese, Carlo prestò soccorso, per diversi mesi, ai più bisognosi, facendo distribuire viveri a quanti soffrivano la fame. Le cronache riferiscono che per tutta la durata della carestia (e la cosa fu lunga), più di tremila persone al giorno si alternavano sotto i portici del cortile del palazzo arcivescovile, in attesa di un tozzo di pane o di un piatto caldo, che non veniva negato a nessuno.

Passati gli anni difficili della carestia, riprese in pieno la sua attività pastorale, e riaffiorarono le divergenze con le autorità locali. Doveva avere un carattere certo non facile Carlo Borromeo, se si lamentavano tutti per il suo rigore. Indubbiamente peccava un po’ di presunzione e di “onnipotenza” se, convinto com’era, secondo la sua visione medioevale, che la Chiesa fosse al di sopra dello Stato, s’aspettava che i rappresentanti di quest’ultimo dovessero obbedire alle disposizioni sue, prima che a quelle de di Spagna Carlo V. Era inevitabile che, con questi presupposti, le frizioni con i governatori spagnoli, fossero all’ordine del giorno.

Tensioni con i governatori di Milano.

CASO REQUENSES
Nel 1573, non ebbe remore a scomunicare il governatore di Milano, Luis de Zuniga y Requesens, vincitore a Lepanto, grande di Spagna, reo di aver osato  adoperarsi contro gli abusi e gli strapoteri degli ecclesiastici. La vertenza, finì naturalmente a Roma, ma non venne mai risolta, anche perché il Requesens, nell’attesa di una soluzione ebbe un incarico più alto, e si trasferì nei Paesi Bassi.

CASO GUZMAN (AYAMONTE)
Più clamoroso ancora, il conflitto con il governatore don Antonio de Guzman, marchese d’Ayamonte, subentrato nell’incarico al Requenses nel momento in cui Milano era in fermento per i vivacissimi contrasti giurisdizionali tra l’arcivescovo Carlo Borromeo e le autorità civili. Essendo rigido assertore dei diritti regi, Guzman assunse subito un atteggiamento di resistenza ad ogni atto dell’arcivescovo che sembrasse ledere la giurisdizione civile. I primi anni di governatorato passarono relativamente tranquilli, poi, inevitabile, l’incidente. Ad una pastorale del Borromeo in data 22 febbraio 1579, contro le feste e i tornei carnevaleschi, il Guzman rispose mandando soldati in piazza a “disturbare” con tornei e squilli di tromba, le celebrazioni della Quaresima in Duomo. Aveva fatto diffondere opuscoli e appendere ai muri stampati con violente critiche all’arcivescovo, per le sue esagerate pretese, i suoi atteggiamenti che molti lo odiavano, la sua propensione a fomentare ribellioni e disordini. La scomunica del Borromeo arrivò puntuale, per Guzman e tutti gli altri autori della “bravata”. Per le continue lettere di protesta che giungevano a Roma, anche in quegli ambienti il Borromeo stava diventando un personaggio “scomodo”, ed erano sempre più forti le riserve per i suoi metodi. Il governatore Guzman sollecitò apertamente il Papa Gregorio XIII, affinché il Borromeo venisse promosso, cioè praticamente rimosso da Milano! Persino da Madrid arrivarono al Papa sollecitazioni in tal senso. Anche il consiglio dei decurioni di Milano deliberò di far pervenire al Papa un messaggio contro il Borromeo affinché non si permettesse “che il popolo di Milano senza suo demerito, sia trattato con leggi più aspre degli altri cristiani”.

La peste (1576-1577)

Fu in occasione della peste del 1576, cioè nuovamente nel momento del bisogno, che riemerse lo spessore della sua personalità di pastore e del suo altruismo che “dona la vita per i suoi amici”. Il contagio si verificò, proprio quell’anno (1576), dopo che Carlo Borromeo aveva ottenuto l’estensione a Milano del giubileo romano dell’anno precedente. Grande fu l’affluenza a Milano dei fedeli provenienti dalle località circostanti, ma il giubileo milanese durò solo poche settimane: il 17 aprile il governatore spagnolo Antonio de Guzmán, preoccupato per i casi di peste verificatisi a Venezia e Mantova, limitò prima i pellegrinaggi in città vietandoli poi definitivamente quando, a luglio, si registrarono i primi episodi anche a Milano e l’11 agosto la pestilenza divenne conclamata. Furono anni durissimi quelli, per la metropoli lombarda e pesantissimo, pure il tributo di vite umane colpite dal morbo. Venne chiamata la “peste di San Carlo”.
Come detto, le prime avvisaglie del contagio si erano manifestate, a Milano, nell’agosto del 1576. A fine settembre, in città, erano già più di 6000, i morti di peste. Carlo Borromeo, in giro per una delle sue solite visite pastorali, era rientrato subito alle prime notizie del dilagare del contagio; il governatore spagnolo e il gran cancelliere invece, erano già scappati (con la scusa di poter meglio coordinare da lontano le operazioni di gestione della peste e di aiuto alla popolazione), trovando rifugio in località più sicure. L’arcivescovo invece, aveva deciso di rimanere, per dare personalmente, una mano ai bisognosi di assistenza. Conscio del rischio cui andava incontro, aveva fatto testamento, nominando erede universale dei suoi beni personali, la Ca’ Granda (l’Ospedale Maggiore di Milano).

Risultando il Lazzaretto, per quanto grande, insufficiente ad ospitare tutti gli appestati, avevano deciso la costruzione di duecento capanne al di fuori di ciascuna delle porta della città. In ottobre avevano ordinato una quarantena: case serrate, tutte le botteghe e gli opifici chiusi. Circa ottantamila persone rimaste senza lavoro. Chiuse anche le chiese. L’arcivescovo fece costruire altari all’aperto in varie piazze e crocicchi della città, in modo che i fedeli potessero pregare e assistere alle funzioni, affacciati alle finestre delle case. Visto che anche i sacerdoti erano spariti, Carlo mise in piedi un’opera di assistenza, ottenendo la collaborazione di tanti fedeli che, incuranti del rischio, si prestarono a dare una mano e soccorrere gli appestati. Lui stesso, sfidando il contagio, instancabile al punto da meritarsi addirittura un rimprovero per troppo zelo dal Papa Gregorio XIII, usciva ogni giorno a visitare i malati sia nelle capanne fuori porta, che nel Lazzaretto, per dar loro una parola di conforto e per provvedere ai possibili aiuti. La carità, le sue dimostrazioni di affetto e la dedizione agli appestati in quel frangente, gli valsero una popolarità incredibile e l’aureola di Santo. Fece costruire in quell’occasione, perché ognuno potesse seguire dal suo letto le funzioni, una chiesetta aperta da tutti i lati, al centro del Lazzaretto (la chiesa di san Carlo, ancora oggi esistente) nonché, in via Torino in centro città, il tempio votivo di San Sebastiano. Fu sempre in quel frangente, che generosamente, elargì ai poveri, tutti i 40 mila ducati, ricavati dalla vendita, due anni prima, del principato d’Oria, feudo ereditato dal fratello.

La chiesa ambrosiana

Fedele alla tradizione, Carlo Borromeo mantenne invariato l’antico rito liturgico della chiesa ambrosiana, pur non riuscendo ad introdurlo ovunque nella diocesi a causa della tenace resistenza dovuta agli antichi usi locali, (vedi Monza). Altrettanto accadde quindi per il Breviario (contenente l’intero ufficio divino, secondo il rito della chiesa latina), e per il Messale (contenente tutte le informazioni – testi, orazioni, canti, gli stessi gesti e le rubriche – necessarie all’officiante per la celebrazione della Messa), che conservarono invariata la tradizione liturgica ambrosiana.


I suoi rapporti con i Cantoni cattolici svizzeri

Essendogli stato attribuito già nel 1560, su richiesta dei Cantoni cattolici della Confederazione Svizzera, il titolo onorifico di Protector Helvetiae, si sentì in dovere di riservare loro una speciale attenzione. Particolarmente ai baliaggi italiani degli Svizzeri, che, soggetti alla giurisdizione ecclesiastica di Milano, lui andò a visitare più volte, nel corso del suo episcopato.

Ndr. – Baliaggio è il territorio (magari comune a più Cantoni), sottoposto alla giurisdizione di un balivo (funzionario investito di vari tipi di autorità o giurisdizione)

Le numerose visite pastorali e diplomatiche che fece in questi luoghi, gli permisero anche lì, di porre le basi per un’ampia riforma spirituale. Sia per migliorare l’istruzione e la disciplina del clero, sia per arginare la pericolosa diffusione del protestantesimo, nel 1579, Carlo chiese alla Curia romana, l’istituzione di una nunziatura permanente presso la Confederazione Elvetica. A causa delle resistenze della Curia romana nei suoi confronti, non ebbe la soddisfazione di vedere realizzata in vita, questa sua richiesta, che fu attuata solo nel 1586, tre anni dopo la sua morte. Auspicò inoltre la creazione in Svizzera di un collegio di gesuiti e di un seminario. A Milano invece, sempre nel 1579, fondò il Collegio Elvetico (oggi palazzo dell’Archivio di Stato in via Senato 10), destinato alla formazione del clero svizzero e dotato di 50 borse di studio per i più meritevoli. Nel 1584, poco prima di morire, patrocinò ad Ascona (Svizzera), la fondazione del collegio Papio.

Persecuzione dei dissidenti religiosi

La Dieta di Ilanz del 1524 e del 1526 aveva proclamato la libertà di culto nella Repubblica delle Tre Leghe (Cantone di Grigioni). La parte meridionale di quel Cantone era sotto la giurisdizione della diocesi milanese. Carlo Borromeo, incurante della libertà di culto proclamato dalla Dieta sessant’anni prima, venne a visitare la valle Mesolcina, per convertire gli “infedeli” che avevano avuto il coraggio di seguire i dettami del protestantesimo. La convinzione poi, che fra loro esistessero donne che, dopo aver rinnegato la fede e aver stretto un patto con il diavolo, praticassero magia oscura, divenne all’epoca estremamente diffusa. La sua, oltre ad essere persecuzione contro il protestantesimo, fu una vera“caccia alle streghe” (la sua ossessione) soprattutto nelle Valli a ridosso della vicina Svizzera, Valtellina compresa. Furono 162, le persone arrestate per stregoneria in quella regione. Fra costoro, a Roveredo (nella Val Mesocco), furono 12, le donne arse vive a testa in giù (rogo purificatore), per essersi rifiutate, a differenza degli altri, di abiurare la nuova fede. Di fronte alla condanna al rogo delle sventurate, lui non mosse un dito per tentare di salvarle, restando, anzi, inflessibile nelle sue decisioni. Ma lui non si sentiva colpevole .. perché “Ecclesia non novit sanguinem” (la Chiesa non sparge sangue), per cui l’esecuzione della condanna veniva demandata alla “corte secolare” (cioè al potere laico del luogo). A conferma di questa mostruosità, così scrisse lui stesso, al cardinale Paleotti a Bellinzona, il 9 dicembre 1583), “soddisfatto” per la pulizia fatta: «Si è atteso anco a purgare la valle dalle streghe la quale era quasi tutta infestata di questa peste con perdizione di molte anime, tra le quali molte si sono ricevute misericordiosamente a penitenza colla abiurazione, alcune date alla corte secolare come impenitenti con pubblica executione della giustizia». In questo passo vi è l’ammissione di aver torturato e fatto giustiziare delle persone per il semplice fatto di vivere secondo le usanze del proprio luogo!

Il suo ultimo viaggio

A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute era rapidamente peggiorata. Quel venerdì 2 novembre 1584, l’arcivescovo Carlo Borromeo, di ritorno a Milano da un pellegrinaggio alla Sacra Sindone di Torino, aveva voluto fare una digressione per tornare a visitare il Sacro Monte di Varallo nell’alto Piemonte, uno dei luoghi preferiti dove amava trascorrere in raccoglimento i suoi rari momenti di riposo.

Lasciata anche Varallo, arrivato sulle sponde del Lago Maggiore, e superate le rapide del Ticino, aveva raggiunto Tornavento a bordo di una mezzana. Trasbordato lì, con tutto il suo seguito, sul “barchett di Boffalora“, una barca più veloce, mentre stava scendendo il Naviglio Grande, l’arcivescovo era stato colto da un violento attacco febbrile. Per prestargli soccorso, la barca si fermò due volte lungo i 50 km del percorso: la prima, a Cassinetta di Lugagnano (dove una statua di San Carlo sta a ricordare quella fermata, allo stalliere del ponte) e la seconda, il giorno seguente (3 novembre) a Corsico, in località Guardia di Sotto, [dove c’è oggi un’edicola votiva]. Arrivò finalmente nel tardo pomeriggio al laghetto di sant’Eustorgio a Milano. Trasportato in lettiga (a mano) fino all’arcivescovado, vi arrivò poco dopo il tramonto, giusto in tempo per farsi montare un piccolo altare e spirare, qualche ora più tardi, serenamente nel suo letto, all’età di soli 46 anni, con gli occhi fissi su un Cristo orante, che si conserva oggi alla Pinacoteca Ambrosiana.

Ndr. – Perché, nel calendario cristiano, si celebra san Carlo il giorno 4 e non il 3 novembre?
 Carlo Borromeo morì il giorno precedente alla ricorrenza attuale: l’anniversario della sua morte cade infatti il 3 novembre. Si deve tuttavia tener presente che, fino alla fine del Settecento, era in vigore in Italia la cosiddetta “ora italica” che identificava, secondo una vecchia tradizione contadina, l’inizio del nuovo giorno (cioè quello che noi oggi facciamo partire dalla mezzanotte), mezz’ora dopo il tramonto del sole. Visto che ai primi di novembre il sole a Milano tramonta attorno alle ore 17.10, e lui sarebbe deceduto verso le 20.30, cioè più di tre ore dopo il tramonto del sole, si è stabilito di ricordarlo il giorno 4 e non il 3 novembre.

Il suo corpo venne deposto nello “scurolo” (cripta) del duomo di Milano, dove ancora oggi riposa, mentre il suo cuore è conservato a Roma nella chiesa dei lombardi (basilica minore dei santi Ambrogio e Carlo al Corso) , dietro l’altare.

La tomba di Carlo Borromeo nella “scurolo” del Duomo

Cosa non può, il denaro!

Nel 1602, a diciotto anni dalla morte, Carlo Borromeo fu fatto “Beato” da Papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini). La causa di beatificazione avvenne dietro versamento di 10.000 ducati d’oro da parte della sua famiglia. Poter annoverare un “Santo” nell’albero genealogico dei Borromeo, avrebbe sicuramente dato lustro al casato.
Il 1º novembre 1610, a soli 25 anni dalla sua morte, Carlo Borromeo fu proclamato “Santo” da Papa Paolo V (Camillo Borghese).

Tutti gli ultimi papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco nel marzo del 2017, nelle loro visite pastorali a Milano, si sono inginocchiati in preghiera, davanti alla tomba del Santo.

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