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Cattaneo e le «Cinque Giornate»

Premessa

«Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli».

Questa è la storica frase con cui il principe Klemens Venzel von Metternich, diplomatico e politico austriaco (e più tardi anche Cancelliere di Stato), esordì al Congresso di Vienna, tenutosi nel Castello di Schonbrunn dal primo novembre 1814, al 9 giugno 1815. Seguirono, come sappiamo, gli anni bui della cosiddetta Restaurazione, cioè del ripristino del potere dei sovrani assoluti in Europa e del tentativo anacronistico, in seguito alle sconfitte militari di Napoleone, di ritornare all’Ancien Régime (“Antico Regime”) precedente la Rivoluzione francese. Furono anni in cui, qualunque iniziativa d’indipendenza, sfociata in tumulti e rivolte di popolo, venne brutalmente soffocata nel sangue (vedi, in Italia, i moti del 1820-1821 e quelli del 1830-1831).

Ma andiamo ora al 1848, chiamato anche l’anno della “primavera dei popoli”. Fu l’anno dei moti rivoluzionari dei popoli europei contro la repressione dei monarchi assolutisti dell’epoca che, con la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna, dopo la caduta dell’Impero napoleonico, diedero una stretta alle concessioni liberali.

Ndr. – Spesso, nel linguaggio comune, si usa dire “Fare un quarantotto!”, per indicarecreare confusione, scompiglio, disordine”. Beh, l’origine di questa locuzione, è legata proprio agli eventi del 1848! Anno questo che non trova riscontri nemmeno nel Novecento, essendo difficile individuare un anno in cui così tanti popoli d’Europa siano stati in subbuglio totale.

Perché insorse Milano

Ndr. – Per un approfondimento sull’origine e la diffusione di questi moti rivoluzionari, che coinvolsero nel 1848, in brevissimo tempo, tutta l’Italia e l’Europa, si raccomanda di consultare le Note, in fondo a questo articolo.

Le notizie dei risultati conseguiti dai moti costituzionali nel resto d’Italia, fecero salire, a livelli ancora più alti, la tensione in città (allora di solo 150.000 abitanti) già dall’anno precedente peraltro, in agitazione sia per rivendicazioni di maggiore autonomia, più volte richieste agli austriaci, mai concesse, che per provocazioni gratuite della polizia. Nel settembre 1847, ad esempio, i festeggiamenti (ritenuti eccessivi) fatti dai milanesi, per l’ingresso a Milano del nuovo arcivescovo bergamasco Carlo Borromeo Romilli, in sostituzione del precedente cardinale  austriaco Gaisruck, avevano provocato una carica della polizia, con un morto e diversi feriti, in piazza Fontana.

Così, considerato lo stato di tensione, senza voler sconfinare nella illegalità, l’unico modo “civile”, che i lombardi avevano ideato, per tentare di convincere Vienna a concedere loro delle liberalizzazioni, era stato quello di colpirla nelle sue entrate fiscali, particolarmente dove, sfruttando le debolezze della gente, lo Stato era sicuro di realizzare i maggiori profitti: erano i monopoli imperiali del tabacco e del gioco del lotto. E proprio in seguito allo sciopero del fumo fatto dai milanesi nei primissimi giorni di gennaio del 1848, esteso a tutta la Lombardia, si era venuta a creare una insostenibile situazione di provocazione operata dalla polizia nei confronti della cittadinanza che, sfociando poi in tafferugli, aveva pure causato diversi morti ed una cinquantina di feriti. Episodi di violenza gratuita questi, che non fecero che alimentare ulteriormente il clima d’odio dei milanesi nei confronti degli austriaci che, soffocando la libertà del popolo, ne limitava pure il progresso economico.

In conseguenza di ciò, era stato creato un Consiglio Rivoluzionario permanente, composto da oppositori al regime, quali Cesare Correnti, Carlo Tenca, Luciano Manara ed i fratelli Dandolo, pronto a sfruttare ogni minima occasione, per creare motivo di rivendicazioni nei confronti dell’oppressore.

Quel venerdì 17 marzo, si erano diffuse in città due notizie “ghiotte”: l’insurrezione anti-austriaca scoppiata il giorno prima a Venezia (dopo i moti di Palermo, di Napoli ecc.), e pure i disordini studenteschi di Vienna, cuore del potere centrale, a seguito dei quali, in un solo giorno, gli insorti erano riusciti a far dimettere e fuggire il vecchio Cancelliere di Stato Metternich, obbligando, nel contempo, l’imperatore Ferdinando II a concedere loro la Costituzione.

Il Consiglio Rivoluzionario milanese aveva pertanto deciso, organizzando per l’indomani (sabato 18) una pacifica manifestazione di popolo, di approfittare dell’occasione, per rinnovare alle autorità austriache (cioè al viceré e al governatore) la richiesta (fino ad allora sempre negata) di alcune concessioni tese a dare maggiore autonomia a Milano e a tutto il resto della Lombardia. Pertanto, nella notte  fra il 17 e il 18 marzo, aveva stilato e fatto stampare un proclama, in cui richiedendo:

  • l’immediata istituzione di una Reggenza,
  • l’abolizione della polizia politica,
  • l’abolizione della censura sulla stampa,
  • la convocazione di un Consiglio di Governo,
  • la formazione di una Guardia Civica,

si concludeva con questa frase ad effetto: “Il destino dell’Italia è nelle nostre mani: un giorno può decidere la sorte di un secolo. Offriamo la pace, ma non temiamo la guerra”.

Sabato 18 Marzo (1a giornata)

La mattina di quel sabato, una gran folla si era raccolta davanti al Palazzo del Broletto, dove allora aveva ancora sede il Municipio, per chiedere a gran voce al podestà Gabrio Casati (in quel momento dal vice-governatore per consultazioni), di sollecitare alle autorità austriache, il passaggio del governo alla municipalità. In attesa dell’arrivo in Municipio del Casati, la tensione fra la gente cominciò a salire alla notizia che l’unica autorità civile austriaca presente in città, alla quale il podestà avrebbe potuto rivolgersi in quel momento, era un certo conte O’Donnel, facente funzione di vice-governatore, che nessuno conosceva, essendo giunto a Milano da nemmeno una settimana.

Ndr. – Infatti il viceré, l’arciduca Ranieri Giuseppe d’Asburgo-Lorena, massima autorità nel Lombardo-Veneto, furbescamente si era reso latitante. Appreso giovedì 16 (a mezzo dispaccio top-secret urgente recapitato con corriere speciale) del precipitare degli eventi a Vienna, temendo possibili ripercussioni anche a Milano, aveva pensato bene di partire alla chetichella, rifugiandosi temporaneamente a Verona. Anche il governatore, seconda autorità dello Stato, conte Johann Baptist von Spaur, non c’era: era partito per Vienna già il 6 marzo, essendo stato posto in congedo per raggiunti limiti d’età e sostituito provvisoriamente dal trentaseienne vice-governatore irlandese Maximilian Karl Amoral O’ Donnell, nuovo della città.

Naturalmente il vice-governatore (nuovo anche del mestiere) mai si sarebbe immaginato di trovarsi in simile scomoda situazione. Letto il proclama fresco di stampa, diffuso dal Consiglio Rivoluzionario, e chiamato subito il podestà per concordare il da farsi, scrisse a sua volta, un altro proclama in risposta, annunziando che l’Imperatore aveva deciso di concedere maggiore autonomia a tutte le province dell’Impero. Giunta nel frattempo notizia dell’assembramento di popolo al Broletto, O’Donnel manifestò preoccupazione per la piega che stavano prendendo gli eventi, paventando analogo assembramento anche sotto il suo palazzo. Consultatosi col podestà sull’opportunità o meno di far intervenire le truppe, decise alla fine, dietro suggerimento di Casati, di ordinare al generale Radetzky (capo militare di tutte le forze in Lombardia) di tenersi a disposizione per ogni evenienza. Mentre il podestà, lasciato O’Donnel, stava tornando in Municipio, un altro corposo corteo proveniente da San Babila, stava minacciosamente dirigendosi in Corso Monforte, al palazzo del Governo. La folla che ,al Broletto, attendeva Casati, quando lo vide comparire, insistette per accompagnarlo, volente o no, dal vice-governatore (da cui era appena stato), perché lo obbligasse ad accettare le loro istanze (l’istituzione della Guardia Civica).

Purtroppo accadde quanto O’Donnel aveva paventato: un gruppo di esagitati, andato all’assalto del palazzo del Governo e sopraffatte le guardie all’ingresso, aveva appena fatto irruzione all’interno dell’edificio, scovando il vice-governatore in uno sgabuzzino, arrestandolo ed intimandogli di accettare immediatamente le loro richieste. O’Donnel, sotto minaccia, fu costretto ad affacciarsi alla finestra assieme al Casati (nel frattempo ritornato in Corso Monforte) per firmare, davanti alla folla, tre decreti (che seguivano la decisione imperiale di concedere una nuova legge sulla stampa e di convocare le Congregazioni del Lombardo-Veneto e gli Stati dei paesi tedeschi e slavi). In particolare si trattava della destituzione della direzione della polizia, la concessione della formazione della Guardia civica e l’ordine alla polizia stessa di consegnare le armi al Municipio.

Il colpo di cannone a salve dal Castello

Nel frattempo, l’ottantaduenne generale Josef Radetzky, appreso che il vice-governatore era finito agli arresti e che il podestà era ancora ostaggio della folla, trasferitosi precipitosamente al Castello dalla vicina cancelleria di Palazzo Cagnola in via Cusani 5, decise autonomamente d’intervenire, per dirige le operazioni, convocando d’urgenza il suo Stato Maggiore, e facendo sparare dal Castello Sforzesco un colpo di cannone a salve quale segnale di avvertimento alla guarnigione.

Ormai la caccia all’austriaco era già iniziata e si cominciarono a sentir sparare in città alcuni colpi d’arma da fuoco con i primi feriti e inevitabilmente le prime vittime! Anche il Consiglio Municipale, (composto prevalentemente da nobili e borghesi conservatori), vista la situazione, fece un tentativo di riappacificazione lanciando da una parte, l’invito agli insorti a desistere da ogni ulteriore azione inconsulta che avrebbe solo peggiorato una situazione già compromessa, dall’altra, una richiesta al Maresciallo Radetzky affinché, al fine di evitare una strage, temporeggiasse ancora, prima di reagire. Se i milanesi non avessero immediatamente deposto le armi, fu la sua risposta, lui avrebbe dato ordine ai soldati, di bombardare la città con i suoi duecento cannoni! Probabilmente bluffava (e vedremo il perché), ma al momento non si sapeva se avrebbe messo in pratica le minacce. Incuranti dell’ultimatum, per tutta risposta, gli insorti si misero a costruire centinaia di barricate in città, preparandosi ad una difesa ad oltranza.

Acquerello di Felice Donghi del 1848 che mostra una delle barricate erette a Milano durante le Cinque giornate

Quando si rese conto anche lui che la situazione era ormai fuori controllo, il podestà Casati (1798 – 1873) con i suoi fedelissimi, si asserragliò nel Palazzo del Broletto nel tentativo di trovare insieme una via d’uscita non cruenta. Quella stessa sera, Radetsky ordinò l’assalto proprio al Municipio facendo arrestare quanti vi erano all’interno e facendoli rinchiudere tutti nelle segrete del Castello. Restò deluso perché gli sfuggì, giusto in tempo, il pesce più grosso, il podestà, che lui erroneamente riteneva essere uno dei maggiori ispiratori della rivolta.

Quanto ad arresti eccellenti da parte degli insorti, oltre a quello del vice-governatore O’Donnel, ci fu quel giorno, pure quello di Giuditta Meregalli (l’amante milanese di Radetsky).

NOTA
Josef Radetsky aveva sposato a Gorizia, nell’aprile del 1798, la contessina Franziska Romana von Strassoldo-Grafenberg, della nobile famiglia italiana Strassoldo. Da lei aveva avuto cinque maschi e tre femmine che però lui non vide crescere, perché sempre impegnato in campagne militari in giro per l’Europa
. Come normale per l’epoca, il suo, non fu matrimonio d’amore, anche se i legami con moglie e la famiglia di lei, rimasero sempre molto stabili.
La moglie aveva rinunciato a seguirlo in giro per l’Europa nelle sue peregrinazioni e aveva preso casa a Vienna con i figli. Nemmeno quando il generale ormai ultra-sessantenne aveva trovato una stabile sistemazione a Milano (a palazzo Cagnola, in via Cusani 5) lei pensò di trasferirsi nel capoluogo lombardo. Così nel 1837, lui già settantunenne s’invaghì di una giovane piacente lavandaia e stiratrice (di 29 anni) di Sesto San Giovanni, tale Giuditta Meregalli. Per oltre vent’anni i due furono amanti, e la donna gli diede pure quattro figli (due femmine e due maschi mai legittimati) che lui, a differenza dei primi otto, ebbe la gioia di veder crescere a Milano. Visto che Giuditta sapeva anche cucinare bene, pare che lui le abbia pure intestato una trattoria, ove lei potesse sbizzarrirsi con i suoi piatti preferiti. Era specializzata in gnocchi di patate e non solo …. A quanto pare, riuscì pure a convincere il generale della superiorità della sua cotoletta alla milanese, sulla Wiener Schnitzel.

Si dice, e la cosa non è da escludere, che fu lei, per l’amore che lui nutriva nei suoi riguardi, ad indurlo a rinunciare all’uso delle potenti artiglierie a sua disposizione contro gli insorti delle Cinque Giornate del 1848.

Domenica 19 Marzo (2a Giornata)

Il Comitato Centrale durante la notte, si era costituito nella Casa Taverna, in Contrada de’ Bigli 9 , intorno al podestà Casati, fuggito fortunosamente alla retata in Municipio. Aveva lanciato appelli agli insorti perché desistessero dal continuare con le violenze. Parole al vento, visto che questi ultimi, incuranti di qualunque suggerimento, continuarono ad irrompere nelle case della gente, svuotando gli appartamenti e gettando il mobilio dalle finestre direttamente in strada, per costruire nuove barricate.  A fine giornata ne avevano allestite ben 1.700, difese anche dalle finestre e dai tetti delle abitazioni, nelle quali, a volte, vennero abbattuti persino i muri interni per creare vie di comunicazione più veloci. Anche le strade furono dissestate e cosparse di ferri e vetri per rendere impossibile l’azione della cavalleria. Saccheggiarono tutti i negozi di armi e pure la galleria di armi antiche (pezzi da collezione) del nobile Ambrogio Uboldo, in via Pantano, pur di procurarsi qualunque oggetto atto ad offendere.

Assalto alla Galleria di armi antiche di Ambrogio Uboldo (1848)

La richiesta d’aiuto a Carlo Alberto

Mentre, di propria iniziativa il conte Enrico Martini, dato il suo rapporto di amicizia col Re di Sardegna, era corso da lui a Torino per chiedergli un suo intervento a fianco degli insorti, per scacciare gli austriaci, anche il Comitato Centrale (costituito in prevalenza da aristocratici di moderato orientamento  conservatore), nonostante il parere contrario di molti democratici fra i presenti, aveva approvato una risoluzione analoga, decidendo d’inviare a Carlo Alberto, tramite il conte Arese, una generica richiesta d’aiuto, sottoscritta da varie personalità milanesi di spicco. Il messaggio diceva: “La città di Milano per compiere la vera vittoria e cacciare per sempre fino al di là delle Alpi il comune nemico d’Italia domanda il soccorso di tutti i popoli e principi italiani e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte.”

Richiesta d’intervento dell’esercito piemontese; tra i firmatari si trova il nome dello scrittore Alessandro Manzoni (terz’ultima firma)

I vari Manara, Clerici, Terzaghi, Dandolo e altri che, presenti alla riunione del Comitato, si opposero alla decisione di chiedere aiuto al Re sabaudo, istituirono, quello stesso pomeriggio, un Consiglio di Guerra in Casa Vidiserti (il palazzo con doppio ingresso sia in Contrada de’ Bigli n. 10 che in via Montenapoleone 21), quale braccio armato del Comitato Centrale. Di fatto poi, nei giorni seguenti, questo Consiglio ne diventò l’antagonista. E ad emergere in questo gruppo, vi fu un uomo che, fino ad allora, era rimasto nell’ombra: Carlo Cattaneo

Chi era Carlo Cattaneo

Nato a Milano il 15 giugno 1801, figlio di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, il piccolo Carlo trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, ospite di parenti paterni. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del prozio Giacomo Antonio, un sacerdote di campagna, il piccolo Carlo si appassionò alla lettura, soprattutto dei classici. Suo padre sperava che lui divenisse prete, ma nonostante fosse bravissimo a scuola, il giovane rifiutò un posto gratuito per entrare in Seminario. Si iscrisse all’Università lavorando come insegnante per mantenersi agli studi. Si laureò brillantemente in legge, ma si rifiutò sempre di fare l’avvocato, dicendo di non essere “tagliato per la lite” e preferendo invece continuare ad insegnare anche per pochi soldi e in condizioni disagiate. Soggetto un po’ particolare, fra gli intellettuali del suo tempo, faceva, come si suole dire, razza a sé.

Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia (Edoardo Matania)

Convinto sostenitore delle richieste di maggiore autonomia del Regno Lombardo-Veneto, dalla corte di Vienna, Cattaneo pensava di puntare su una politica non violenta, per avanzare tali richieste. A chi gli chiedeva se fosse favorevole ad un’annessione al Regno di Sardegna, rispondeva: “Siamo i più ricchi dell’Impero, non vedo perché dovremmo uscirne”.

Non condivideva quasi nessuna delle idee dei suoi coetanei, né tantomeno quelle dei loro ispiratori, quali un Mazzini che voleva un’Italia indipendente, libera e repubblicana, o un Gioberti il cui progetto riformistico moderato facendo leva sugli antichi valori cristiani, optava per una Chiesa riformatrice, per non parlare poi di un d’Azeglio o un Balbo che per conquistare l’indipendenza dell’Italia, erano favorevoli ad una iniziativa sabauda.

Cattaneo la vedeva diversamente da tutti: a cominciare dalla tanto vagheggiata indipendenza.
Quale senso aveva, diceva lui, scacciare l’Austria dalla Lombardia, per farvi venire un Piemonte non democratico, più arretrato dell’Austria stessa? L’indipendenza per lui non era un traguardo. Sarebbe venuta da sé, quando gli italiani avessero preso coscienza di essere tali. L’Italia non si può fare se prima non si fanno gli italiani, elevando il loro livello culturale sociale e morale. Era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di Stati italiani ,sullo stile della Svizzera. Definì il federalismo come la “teoria della libertà” in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Cattaneo scrisse al riguardo: “Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”.

Fu un anticipatore del positivismo. Rifiutava quasi tutto della letteratura contemporanea caratterizzato a suo modo di vedere, da un eccesso di artificiosità o da una vistosa ricerca dell’effetto. L’unico che apprezzava era Galileo: gli piaceva il suo modo di scrivere, ne ammirava l’asciuttezza e la concretezza. Il suo stile era analogo. In qualunque campo si esprimeva con la massima semplicità, senza orpelli di sorta.

Ndr. – Il positivismo fonda la conoscenza sui fatti reali e trae certezza esclusivamente dall’osservazione propria delle scienze sperimentali.

Ma oltre che nelle idee, la sua originalità stava nel carattere semplice, frugale, nemico di ogni ostentazione ed esibizionismo. Cosa questa che si rispecchiava anche nel suo fisico atletico che fece girare la testa ad una ragazzina nobile anglo-irlandese Anna Pyne Woodcock, che nel 1835, divenne sua moglie, discendente, da parte di madre, di John Milton uno dei letterati britannici più celebri, apprezzati e influenti dell’epoca successiva a quella shakespeariana.

Come venne a sapere che il governo di Vienna, per imposizione popolare, aveva appena concesso la libertà di stampa, Cattaneo decise di iniziare l’indomani stesso, la pubblicazione di un giornale, col titolo significativo “Il Cisalpino“. Ne stese pure l’articolo inaugurale, che poi non venne mai pubblicato perché gli avvenimenti presero, quei giorni, una piega diversa. Ma l’articolo era ugualmente molto sintomatico perché, riflettendo il suo pensiero, si poteva riassumere in questa frase: “Armi e libertà per tutte le nazioni dell’impero, ognuno entro i suoi confini, e i soldati italiani al servizio degli italiani”.

Non era affatto un appello alla guerra contro l’Austria rigenerata dalla recente rivoluzione, né tanto meno, un appello alla dissoluzione della monarchia asburgica, né al distacco da essa, e neppure al programma di una unità politica italiana. Voleva essere invece un appello alla trasformazione dell’Austria in uno Stato federale, con istituzioni liberali.

Quando già il giorno prima (18 marzo) i suoi amici l’avevano sollecitato a unirsi a loro, Cattaneo sulle prime, aveva tergiversato. Non amando essere il primo attore, preferiva la veste del suggeritore: nella attuale situazione poi, temeva fortemente (senza un esercito alle spalle) nell’insuccesso dell’operazione. Con quali armi infatti, si sarebbe potuto contrastare la potenza di fuoco degli austriaci? Sarebbe stata una carneficina inutile.

Ma gli avvenimenti presero la mano anche al Cattaneo: lui stesso, parlando con altri, degli amici che lo avevano contattato il giorno prima, aveva detto di loro “homme de paix… j’avais supplié mes jeunes amis de n’en rien faire, mais de commencer par tirer parti de la liberté de la presse et des autres concessions qu’on venait de nous octroyer” (da uomo di pace … avevo supplicato i miei giovani amici a non fare nulla, ma di cominciare ad approfittare della libertà di stampa e delle altre autorizzazioni che ci erano state appena concesse).

A pelle, il podestà Gabrio Casati non gli piaceva proprio, doveva essere filo-austriaco, a suo avviso. Voleva fare la rivoluzione d’accordo con l’Imperatore: il giorno poi, che si sarebbe accorto che la cosa era impossibile, “vi farà mitragliare tutti” Carlo era solito profetizzare ai suoi amici.

Il podestà Gabrio Casati (1798 – 1873)

A fargli cambiare idea, fu l’inatteso comportamento della gioventù sulle barricate, il loro entusiasmo, la loro determinazione, tutti giovani che si battevano da leoni, l’odio viscerale nei confronti del nemico. Nonostante fossero quasi a mani nude e avessero praticamente dalla loro, solo l’arma del coraggio, stavano snidando le forze di occupazione, da dove si erano asserragliate, respingendole via via, oltre la Fossa interna dei Navigli, verso le zone più periferiche della città. La sua iniziale convinzione che non si potesse sostenere una rivoluzione senza un esercito alle spalle, trovava una clamorosamente smentita dai fatti, cosa questa, che lo fece sicuramente riflettere su un suo possibile coinvolgimento. E visto con sorpresa, che l’insurrezione popolare, non solo stava resistendo, ma anzi aveva pure probabilità di vittoria, si ricredette. Si rese conto che la prima necessità, per sperare in un esito positivo, era quella di una guida unitaria all’insurrezione, cosa che ancora mancava.

Lunedì 20 Marzo (3a Giornata)

Il mattino del 20, dimentico del suo giornale “il Cisalpino” (che non vide mai la luce), Cattaneo si trasferì, inatteso ospite, nel quartier generale del Comitato Centrale a Casa Taverna e fu subito ascoltato come se la sua parola, fosse quella di un capo, evidente segno della stima che tutti riponevano in lui. Essendo il più risoluto di tutti, lo misero subito a capo del Consiglio di guerra, istituito il giorno prima.

Palazzo Taverna, costruito nei secoli XVI-XVII, in via Bigli a Milano. Foto di Giovanni Dall’Orto
Il comitato insurrezionale in casa Taverna durante le Cinque giornate – (Museo del Risorgimento – Milano)

Il Consiglio di guerra

Dal tenore dei primi comunicati emessi dal Consiglio a firma Cattaneo (messaggi portati a mano sulle barricate dai Martinitt (i ragazzi dell’orfanotrofio), gli insorti si resero conto che la rivolta aveva trovato un capo. Nel messaggio qui sotto, ad esempio, si invitano i cittadini a conquistare almeno una delle porte per consentire il libero ingresso dei viveri per la popolazione assediata.

Documento del Consiglio di guerra del 20 marzo 1848 in cui si invitano i milanesi a conquistare una porta, firmato da Cattaneo e Cernuschi

I Martinitt, consegnati i dispacci ai destinatari, tornavano a Casa Vidiserti, sede del Consiglio di guerra recando le ultime notizie dal fronte

La cattura del conte Bolsa

Dalle barricate, quella mattina, arrivò ad esempio la segnalazione della cattura in un nascondiglio, di un altro personaggio eccellente: l’odiatissimo conte Bolsa, feroce e sadico aguzzino della polizia politica austriaca (colui che, nel 1821, volle portare personalmente il patriota Conte Federico Confalonieri a marcire per anni allo Spielberg). A coloro che lo avevano catturato, in attesa di ordini, Cattaneo mandò a dire: “Se lo ammazzate fate cosa giusta. Se lo risparmiate fate cosa santa“. Lo risparmiarono! Sempre grazie a lui, a differenza di quanto faceva il nemico, furono trattati umanamente anche gli altri ufficiali austriaci catturati dagli insorti.

Viste le ingenti perdite fra le truppe nel contrasto ai sovversivi, il Maresciallo Radetzky diede ordine a tutti i distaccamenti sparsi per Milano, di trincerarsi nel Castello e di mantenere la posizione e il controllo della cinta muraria intorno alla città. Questo consentì, quel giorno, al conte Luigi Torelli (aiutato da Scipione Bagaggia) di approfittare della ritirata delle truppe dalle vie più centrali e dal Palazzo Reale che prima presidiavano, per salire in cima al Duomo e porre simbolicamente il tricolore italiano sulla guglia della Madonnina.

Targa in memoria di Luigi Torelli, all’incrocio fra via Boschetti e Corso Venezia, a Milano

Richiesta di armistizio da parte austriaca

Verso mezzogiorno, si presentò al Consiglio di guerra un Maggiore croato, inviato da Radetsky per proporre un armistizio di quindici giorni. Cattaneo, subodorando che la richiesta aveva il solo scopo di lasciar tempo al nemico di riorganizzarsi e chiedere a Vienna nuovi rinforzi, rifiutò la proposta. Gabrio Casati, che invece era propenso ad accettare l’iniziativa, pretese di chiedere, prima di dar una risposta definitiva al Maggiore, la convocazione urgente degli altri componenti del Comitato, per conoscere il loro parere. La discussione finì in tafferuglio e, fra le due opposte posizioni, finì col prevalere la tesi del Cattaneo: l’armistizio venne respinto.
La notizia, comunicata subito agli insorti, raggiunse in un lampo tutte le millesettecento barricate della città. L’entusiasmo arrivò al punto che i rivoluzionari invece di continuare a difendersi, passarono all’offensiva nel tentativo di espugnare le postazioni nemiche a protezione di Porta Comasina, in modo da potervi fare entrare le colonne di volontari che stavano giungendo dalla Valtellina, a dare loro man forte.

Vistasi rifiutata la tregua, Radetsky minacciò nuovamente di voler passare all’offensiva con i cannoni.

Martedì 21 Marzo (4a Giornata)

Offerta di breve tregua da parte austriaca

Quella mattina, fu una delegazione di consoli stranieri a tentare di rabbonire il vecchio generale. Quasi increduli, riuscirono ad ottenere da lui una tregua di tre giorni, proposta che andarono immediatamente a riferire al Consiglio di guerra. Al “si” di Casati, seguì il “no” risoluto del Cattaneo. Era questa, la seconda lacerante incomprensione fra i due principali litiganti: ma non era ancora finita!

Anche se successivamente, per motivi elettorali, si tenterà di ridimensionare il ruolo politico di Cattaneo, furono proprio questi due suoi rifiuti al podestà, che lo presentarono come il vero capo, anche politico, della rivolta e, in definitiva, colui che riuscì a portare a compimento la vittoriosa l’insurrezione popolare.

La resistenza

Gli insorti, in effetti, non erano solo a Milano, prigionieri del nemico (perché bloccati entro le mura della città), ma ce n’erano tantissimi anche fuori, in tutto il contado e nelle città vicine, per cui, anche il nemico assediante, era, a sua volta assediato. Il compito degli insorti esterni era essenzialmente quello di ostacolare l’arrivo dei rifornimenti alle truppe dell’esercito bastardo (così chiamato perché le truppe austriache erano un miscuglio di soldati di dieci diverse nazionalità). Naturalmente col passare dei giorni, gli insorti ricuperavano le armi dei nemici uccisi e potevano contrastare meglio le loro cariche. Come comunicare con gli insorti delle campagne circostanti? Non esistendo radio o telefono, ci s’ingegnava diversamente. Per inviare messaggi in tutta sicurezza oltre le mura, la resistenza usava piccoli palloni aerostatici!

Barricata eretta per bloccare una strada e i rivoltosi in armi a suo presidio (stampa d’epoca)

Il dispaccio di Carlo Alberto

Al Comitato, quel pomeriggio si presentò il conte Enrico Martini, appena rientrato fortunosamente da Torino, dopo l’incontro di propria iniziativa con Carlo Alberto. Recava con sé un dispaccio che dichiarava il Re pronto ad intervenire in aiuto agli insorti, a patto che la municipalità gli facesse pervenire una esplicita richiesta di soccorso (intesa a tacitare l’allarme che il suo intervento in Lombardia, avrebbe generato fra gli altri regnanti europei). Per dare maggior peso ed autorità alla richiesta, sarebbe stato inoltre necessario che la municipalità si costituisse in Governo Provvisorio, cosa che ancora non era stata fatta.

Ancora una volta, Casati e gli altri moderati, furono pronti a dire “si” all’intervento sabaudo, trovando sulla loro strada. il muro invalicabile del veto del Cattaneo e dei suoi amici, votati invece a dire “no”. Fu questa, la rottura definitiva fra i due principali litiganti che, evidentemente, vedevano la stessa cosa da due punti di vista diametralmente opposti. Cattaneo tacciato di esibizionismo dagli avversari, imperterrito, con la sua logica stringente, motivò quel “no“: “in questo momento siamo padroni del nostro destino. Perché alienarlo, affidandolo senza alcuna garanzia, nelle mani di un Principe che, già un’altra volta, tradì il popolo milanese e lo abbandonò alla vendetta austriaca? Prima finiamola col nemico, poi vedremo con chi ci si debba intendere” .

Cattaneo rifiutò pure la proposta di una votazione dei cittadini per invocare l’intervento di Carlo Alberto, e alle insistenze del conte Enrico Martini, emissario del Re sabaudo, perché Milano insorta si sottomettesse a lui per ricevere aiuto, lui si oppose con la famosa lettera: …“Noi battiamo giorno e notte le campane per chiamare aiuto, se il Piemonte accorre generosamente, avrà la gratitudine dei generosi d’ogni opinione. La parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica, e riunirci in un unico volere”.
Le giustificazioni erano tali che anche se Cattaneo ed i suoi seguaci non rappresentavano la maggioranza, era comunque difficile riuscire a smontare, con argomentazioni altrettanto valide, la loro opposizione più che giustificata.

Mercoledì 22 Marzo (5a Giornata)

La decisione austriaca di ritirarsi

Mentre ancora il Castello Sforzesco e le mura spagnole erano in mano austriaca, e così pure tutte le porte, gli insorti controllavano pressocché totalmente le strade sia dentro che fuori dalla città; perciò Radetzky, rimasto a corto di viveri e di rifornimenti da Vienna (per le azioni diversive degli insorti delle campagne decise, suo malgrado, decise di abbandonare la città, sperando di riuscire, con la sua guarnigione decimata (aveva avuto perdite ingentissime almeno 4.000 morti fra i suoi 12.000 soldati), a raggiungere almeno il Quadrilatero. Scrisse a Vienna sconsolato: “Questa è la più terribile decisione della mia vita. Non posso tenere più a lungo Milano. Tutto il Paese è in rivolta…” Era vero! Anche se non formalmente insorte, pure le città vicine stavano aiutando i ribelli.

Ndr. – Il numero di soldati della guarnigione di Milano, alle dipendenze del feldmaresciallo, è incerto. Alcune fonti parlano di 10.000 uomini, altre di 12.000, altre ancora, di 20.000.

Il Quadrilatero fu, tra il 1815 e il 1866, un sistema difensivo costruito dall’Impero austriaco nel Lombardo-Veneto, che si dispiegava su un quadrilatero i cui vertici erano le fortezze di Peschiera del GardaMantova,  Legnago e Verona, comprese fra il Mincio, il Po, l’Adige e dal 1850 circa, la Ferdinandea (la ferrovia Milano-Venezia, tramite la quale erano garantiti i rifornimenti). Difficilmente aggirabile, ostacolava i movimenti di truppe nemiche nella Pianura Padana.

La conquista di Porta Tosa

Nell’arco della giornata gli insorti, mai domi, tentarono dapprima la conquista di Porta Comasina, ma furono respinti. poi fu la volta di Porta Ticinese, anche lì senza successo. Più fortuna ebbe un terzo assalto, guidato da Luciano Manara, questa volta a Porta Tosa, l’attuale Piazza Cinque Giornate (per questo motivo chiamata, in seguito, Porta Vittoria). La porta fu conquistata a notte fonda sotto i bagliori degli incendi che divampavano nelle case adiacenti. La conquista di questa Porta segnò la vittoria della rivolta e la ritirata delle forze di occupazione dalla città.

La ritirata degli austriaci dal dazio di Porta Tosa (oggi piazza Cinque Giornate) la notte del 22 marzo 1848 Tempera su carta di Carlo Bossoli

Il Governo Provvisorio

Visto come si erano messe le cose, per i moderati, l’unico modo per aggirare l’opposizione all’intervento di Carlo Alberto, era quello di istituire a Milano un Governo Provvisorio al quale il Consiglio di Guerra avrebbe dovuto sottostare. Era questo l’unico modo per superare i veti posti dal Cattaneo.

Errore politico di Cattaneo

Intuendo la trappola tesa dagli oppositori, gli amici di Cattaneo lo invitarono caldamente a candidarsi come presidente del nuovo Governo Provvisorio. Ma lui, fedele alla propria vocazione di suggeritore, rifiutò la candidatura cedendola invece a Pompeo Litta. Grave errore politico! Non avendo Litta il prestigio di Cattaneo, fu battuto da Gabrio Casati il quale, essendo già stato pure podestà, aveva certamente le carte in regola per svolgere le mansioni di presidente del Governo Provvisorio. Rassegnò le dimissioni del Consiglio di guerra quella stessa mattina, proponendo però la fusione dello stesso con il Comitato di difesa; a seguito del parere favorevole di Casati venne costituto il Comitato di guerra.

Era questa la grande rivincita politica del Casati sul Cattaneo, una vittoria decisamente determinante per le pesanti conseguenze che si sarebbero manifestate di lì, a poco. Ciò voleva dire che la rivoluzione “rinunciava a fare da sé”, affidando il proprio destino nelle mani di Carlo Alberto. Probabilmente questa, al punto in cui si era arrivati, sarebbe stata comunque l’unica soluzione plausibile, che però Cattaneo, fedele al suo ideale, non voleva nemmeno prendere in considerazione. Era infatti evidente a tutti che la ritirata strategica degli austriaci entro il quadrilatero, sarebbe stata una vittoria di Pirro per gli insorti milanesi, se non adeguatamente supportati da un esercito. Per Radetsky era un solo modo per prendere tempo, e riorganizzarsi, ricevendo da Vienna nuovi armamenti e rinforzi, per poi potersi riprendere nuovamente la piazza perduta. Sarebbe stata in grado la rivoluzione, di sostenere l’attacco in forze di un esercito, a detta dei contemporanei, fra i più forti del mondo? Sicuramente no! La sola arma del coraggio e le barricate non sarebbero state certamente sufficienti a contrastare l’avanzata di un esercito con una potenza di fuoco senza pari!

Naturalmente, appena costituito il Governo Provvisorio, il Casati si guardò bene dallo svelare agli insorti le sue reali intenzioni. Il suo primo proclama (quello del 22 marzo) diceva così: “Finché dura la lotta, non è opportuno mettere in campo opinioni sui futuri destini politici di questa nostra carissima patria. Noi siamo chiamati per ora a conquistarne l’indipendenza e i buoni cittadini di null’altro devono adesso occuparsi, che di combattere; a causa vinta, i nostri destini saranno discussi e fissati dalla Nazione”.
Naturalmente nessun accenno né alla Monarchia, né tanto meno al Piemonte. Casati, da consumato politico qual era, sapeva benissimo che parlare ora di Carlo Alberto, già poco amato dalla gente, sarebbe stato assolutamente controproducente per la causa. Intanto però, sotto banco, aveva già affidato al conte Martini, perché gliela recapitasse subito, la lettera che il Re di Sardegna aveva richiesto, per poter intervenire a Milano con le sue truppe, in soccorso agli insorti.

Pare che Martini abbia tentato due volte di uscire da Milano senza successo venendo anzi catturato dagli insorti che controllavano le porte della città. Finalmente al terzo tentativo, riuscì a far pervenire la missiva all’interessato.

Il dopo …

Oltre alla richiesta di aiuto rivolta a Carlo Alberto (che, già il 23 marzo, aveva deciso di entrare in guerra) anche diversi atti amministrativi e decisioni politiche prese freneticamente nei giorni successivi dal Governo Provvisorio, che aveva ora occupato la sede a Palazzo Marino, suscitarono non poche polemiche, malcontento e sfiducia da parte della popolazione. Il sogno di “repubblica” tanto vagheggiato dal Mazzini si stava spegnendo definitivamente e l’annessione a breve termine della Lombardia al Piemonte, stava per diventare realtà.

All’inizio di maggio infatti, dopo alcune sedute cariche di tensione, il Governo Provvisorio decretò un plebiscito per la fusione della Lombardia con il Regno di Sardegna.

Con questa decisione, il Governo veniva meno all’impegno preso col suo primo proclama durante l’insurrezione milanese, in cui diceva di rimandare la questione “a causa vinta” e abbandonava anche l’idea di far decidere da parte di una Assemblea lombarda, le sorti della Lombardia. I repubblicani e i democratici presero immediatamente posizione contro tale decisione, pubblicando un manifesto il 13 maggio, firmato tra gli altri, da Mazzini, Cernuschi, Tenca e Visconti Venosta in cui si accusava il governo di aver mancato ai suoi impegni e di aver rotto la concordia stabilita nei giorni dell’insurrezione.

Comunque l’8 giugno furono resi noti i risultati del plebiscito: la stragrande maggioranza degli elettori aveva votato per l’annessione. Il 10 giugno Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal podestà di Milano Gabrio Casati, che recava l’esito trionfale del Plebiscito, che sanciva l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna.

Il resto della storia è cosa nota. L’iniziativa, come sappiamo, fu presa da Carlo Alberto che varcò in armi il Ticino. Però il suo intervento, anziché rivelarsi risolutivo, sembrò pensato proprio per agevolare gli austriaci e per consegnare alla storia la figura del Re di Sardegna come un sovrano inetto e incapace di decidere. Sotto pressione dei rispettivi sudditi, anche Leopoldo II di Toscana, Ferdinando II di Borbone e perfino il papa Pio IX furono costretti a partecipare alla lotta. Era l’inizio della Prima guerra  d’indipendenza  nazionale. Ma i sovrani italiani guardavano con sospetto alle ambizioni espansionistiche del Savoia. Inoltre lo Stato pontificio si trovava nella scomoda posizione di essere in guerra contro l’Impero Asburgico, altro Stato cattolico. Così Pio IX, pensò bene di ritirarsi in tempo, seguito immediatamente da Leopoldo II e Ferdinando II.
Carlo Alberto rimasto solo, non riuscì a reggere l’urto del ritorno degli austriaci guidati da  Radetzky. Da lì cominciò una veloce, ma ordinata, ritirata verso l’Adda e Milano, dove si svolse, il 4 agosto la battaglia di Milano, al termine della quale, Carlo Alberto fu costretto a chiedere agli Austriaci un armistizio. Il 6 agosto, Radetsky rientrò vittorioso a Milano, riprendendo dopo quattro mesi, la città perduta.
L’anno successivo (1849), Carlo Alberto sarebbe tornato a sfidare nuovamente l’Impero Austro-Ungarico, ma anche questa volta, l’esercito sabaudo sarebbe stato duramente sconfitto a Novara e il re, a questo punto, costretto ad abdicare, in favore del figlio Vittorio Emanuele II.

Per i milanesi che avevano creduto alla riconquistata indipendenza, non rimase che l’amara, grandissima delusione! Cinque giornate d’insurrezione, per “assaporare” quattro mesi di libertà” dal giogo straniero. Un conto salato, pagato col sangue di troppi patrioti. (Le spoglie di quanti tumulate nella cripta sotto il monumento di Giuseppe Grandi in Piazza Cinque Giornate, sono in tutto 352, ma in effetti le stime parlano di un numero di vittime di molto superiore a quello ufficiale: 600 italiani e almeno 4500 austriaci.

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Note

Pillole di storia: l’antefatto in Italia e in Europa

I moti del 1848 iniziati proprio in Italia, allora divisa in tanti piccoli Stati, e dilagati in Europa, avevano obiettivi comuni: una maggiore rappresentanza dei cittadini nella politica, attraverso istituzioni rappresentative e carte costituzionali, oltre alle richieste di maggiore autonomia, di libertà di stampa e di associazione. Quest’ultima istanza in particolare, si legava alle problematiche dei lavoratori salariati e degli operai, presenti in particolare nelle città industriali e nelle periferie dei maggiori centri urbani.

REGNO DELLE DUE SICILIE
Fu Palermo, la prima città a dare fuoco alle polveri, in quel fatidico e incredibile1848.
Il Congresso di Vienna aveva deciso nel 1815, di unificare nel Regno delle due Sicilie sotto i Borboni, due Regni sempre stati distinti: quello di Sicilia e quello di Napoli. La classe dirigente siciliana, insofferente a dover sottostare alla monarchia assoluta borbonica, il 12 gennaio 1848, fece scoppiare a Palermo un’insurrezione nei confronti degli odiati Borboni. Per tacitarli, il lungimirante re Ferdinando II concesse la Costituzione ai siciliani. L’insofferenza nei confronti dei Borboni era tale che la Costituzione (cioè l’insieme delle norme che definiscono i diritti ed i doveri dei cittadini) non bastava loro: il 23 gennaio, un comitato siciliano dichiarava decaduta la monarchia borbonica in tutta la Sicilia. Inconsapevolmente Palermo aveva così innescato la miccia che, a macchia d’olio, avrebbe incendiato tutta Europa. E’ impressionante la successione degli eventi nell’arco di due soli mesi.

Il 27 gennaio, insorse Napoli chiedendo la Costituzione che verrà concessa sempre da re Ferdinando II, l’11 febbraio.

GRANDUCATO DI TOSCANA
L’11 febbraio, Leopoldo II d’Asburgo-Lorena concesse la Costituzione, senza attendere la sollevazione popolare.

Parallelamente alla rivoluzione borghese innescata da aristocratici, intellettuali, artigiani e studenti per l’ottenimento di garanzie costituzionali, maggiore liberalismo, o per l’indipendenza, la nascita, con la prima industrializzazione, di nuove classi sociali operaie, portò ad iniziare seppure in forma ancora embrionale, la rivoluzione proletaria.

INGHILTERRA
Il 21 febbraio, a Londra venne pubblicato il manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels

REGNO DI FRANCIA
Il 22 febbraio, Parigi insorse facendo cadere la monarchia e chiedendo il suffragio universale. La monarchia di luglio (quella instaurata da Luigi Filippo d’Orleans nel 1830) era ormai alle corde, scandali e accuse di malgoverno erano all’ordine del giorno. La capitale francese scese in piazza e, per le strade, si eressero di nuovo le barricate. Il re, senza lottare, abdicò due giorni dopo: la Francia era tornata ad essere nuovamente una repubblica, affidata a Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III), nipote di Napoleone Bonaparte.

REGNO DI SARDEGNA
Il 4 marzo, Carlo Alberto concesse, in Piemonte, lo Statuto Albertino, rimasto poi esecutivo in Italia fino all’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana il 1° gennaio 1948.

IMPERO ASBURGICO
Le rivoluzioni del 1848 nell’Impero governato da Vienna, avevano, quasi tutte, un carattere prettamente nazionalista: lo Stato sovranazionale comprendeva tedeschi, ungheresi, sloveni, polacchi, cechi, slovacchi,  ruteni (slavi orientali, dell’attuale Ucraina e Bielorussia), rumeni, croati, italiani e serbi; tutti popoli questi, che tentarono, nel corso della rivoluzione, di ottenere autonomia, indipendenza se non addirittura egemonia su altre nazionalità. Oltre alle correnti nazionaliste, anche quelle liberali e socialiste si opposero al conservatorismo  di lunga data dell’Impero austriaco.
Le varie nazionalità presenti, “volevano” (quando fosse stato possibile)
, acquisire la piena indipendenza dall’Impero messo in piedi dagli Asburgo; questo sentimento era onnipresente soprattutto in Ungheria, percorsa da un acceso sentimento nazionalistico, e in Italia, dove gli austriaci erano visti come invasori.

Il 13 marzo insorse Vienna in occasione della riunione della Dieta bassa austriaca, una folla di studenti universitari protestarono chiedendo un governo più liberale, la cacciata di Metternich dalla Cancelleria imperiale e una costituzione. Questi si accalcarono intorno alla statua equestre di Giuseppe II e da lì circondarono l’Hofburg, il Palazzo imperiale, ponendolo sotto un vero e proprio assedio. Le truppe chiamate a sgomberare la folla vennero accolte da lanci di oggetti e aprirono il fuoco sui manifestanti, che costruirono barricate, per continuare la lotta. Parte dell’esercito, specialmente la guardia civile borghese, si rifiutò di seguire gli ordini, e il 15 marzo l’imperatore fu costretto ad accettare le dimissioni di Metternich, che fu sostituito nel ruolo di cancelliere dal più liberale Franz Anton von Kolowrat-Liebsteinsky, precedentemente ministro dell’Interno. [rif. – Wikipedia]

Il 15 marzo insorse pure Budapest per autonomia o indipendenza all’interno dell’impero asburgico.

STATO PONTIFICIO
Il 14 marzo, anche l’ultimo sovrano d’Italia, il papa Pio IX, concesse la costituzione ai suoi.

REGNO LOMBARDO-VENETO
Il crollo improvviso del regime assolutista di Metternich diventò il detonatore di una deflagrazione generale, che consumò, nel giro di pochi giorni, la possibilità di gettare un ponte qualsiasi tra il governo costituzionale di Vienna e le aspirazioni dei patrioti italiani.

Il 16 Marzo, s’inscenò a Venezia una spontanea insurrezione per la concessione di una carta costituzionale, arrivando successivamente (il 22 Marzo) addirittura a proclamare l’indipendenza della Repubblica di San Marco.

Il 18 Marzo, insorse Milano

REGNO DI GERMANIA
Il 18 Marzo, insorse pure Berlino, a causa di problemi sociali e delle restrizioni della libertà politica. Vi furono centinaia di morti perché il re mandò l’esercito a sedare la rivolta.

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