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Tre nomi, tre storie milanesi

Premessa

Fra le tante inchieste fatte fino ad oggi, ricercando su internet, capita, di tanto in tanto, d’imbattersi in qualcosa di totalmente diverso che, per assonanza, o chissà per quale altro strana ragione, viene catturato dai motori di ricerca e presentato, quasi avesse un minimo di attinenza con il soggetto o l’oggetto in esame. Ovviamente, il 95% delle volte, non ne ha alcuna, e serve unicamente a distogliere l’attenzione da quanto si sta cercando. Non è sempre comunque tempo perso, perché se si ha un minimo di curiosità , c’è sempre quel 5% restante, che, a volte, ripaga della fiducia accordatagli, regalando storie inattese e sconosciute. Trattandosi di notiziole particolari e difficilmente raccontabili in diverso contesto, ho pensato di riunire in un unico articolo, tre di queste scoperte referentesi a denominazioni (la prima facente riferimento ad una piazzetta del centro città, e le altre due, relative a due quartieri di Milano corrispondenti a due altrettante fermate della metropolitana; casi distinti, assolutamente slegati l’uno dall’altro, che per motivi diversi, mentre stavo cercando tutt’altro, hanno attirato la mia attenzione.

Il primo, in particolare, è un caso di odonomastica davvero curioso ed inatteso.

Ndr. – L’odonomastica (dal greco ὁδός (hodós) ‘via’, ‘strada’, e onomastikòs, ‘atto a denominare’) è l’insieme dei nomi delle strade, piazze, e più in genere, di tutte le aree di circolazione di un centro abitato e il suo studio storico-linguistico. [ rif. Wikipedia ]

In un precedente articolo, ho già accennato agli strani nomi attribuiti ad alcune strade del centro città. Altrettanto fuori dall’usuale, sono pure certi accostamenti di nomi: uno per tutti, una piazzetta chiamata oggi Santi Pietro e Lino. Per chi non l’avesse presente, si trova in pieno centro: risalendo la via Meravigli, da Piazza Cordusio, risulta essere la prima piazzetta sulla destra, subito dopo l’incrocio con via Manfredo Camperio.

Piazza Santi Pietro e Lino

Perché parlo di questa piazzetta? Ricordo che la prima volta che l’ho vista, la targa mi aveva colpito proprio per i nomi che vi erano incisi: chiaramente, l’abitudine di associare Pietro a Paolo, faceva sì che l’abbinamento di Pietro con Lino, mi suonasse decisamente stonato! Non essendo mai stato molto ferrato in materia di santi, …. ricordo che allora mi chiedevo …. ma questo ‘Lino‘ chi e’? Onestamente non lo avevo mai sentito come nome di santo! Dopo qualche ricerca sull’enciclopedia (allora non esisteva ancora internet), avevo poi scoperto (mia ignoranza abissale), che ‘Lino‘ è stato nientemeno che il primo successore di Pietro e quindi il 2º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica tra il 67 ed il 76/79 d.C., primo papa italiano ed europeo! Ripeto, erano queste, considerazioni spontanee (indubbiamente da provinciale), che riaffioravano tutte le volte che lo sguardo si posava sulla targa di una via o di una piazza, dettagli questi, ai quali sicuramente i veri milanesi non fanno minimamente caso!

La targa ‘Piazza Santi Pietro e Lino‘ che vediamo oggi in questa foto, fino al secolo scorso, era leggermente diversa, proposta come Piazza San Pietro e Lino. Come si può notare infatti, dando un’occhiata attenta, ad una vecchia mappa della zona, più sotto riportata, si troverà proprio questa dizione. Diciamo subito che questa, seppur minima differenza fra le due versioni, è bastata ad indurmi ad indagare meglio sulla cosa. Non avevo torto! i miei sospetti erano fondati …. E cosa non è saltato fuori …. lascio a voi ogni commento! Ammetto che anche per me l’evoluzione nei secoli dell’odonimo dell’attuale piazzetta Santi Pietro e Lino. è stata una scoperta del tutto inattesa, per certi versi divertente, per altri anche interessante.

Come detto sopra, Lino è stato in effetti il secondo papa nella storia della chiesa cattolica, salito al soglio pontificio subito dopo la morte di Pietro il 29 giugno 69 d.C.. La piazzetta quindi oggi, è quindi dedicata in pratica, ai primi due Papi della Cristianità.
Ma, tornando indietro nei secoli, pare che il nome di questa piazzetta fosse molto diverso e anche quando, in fasi successive si avvicinò all’attuale, curiosamente venne interpretato dal popolo in modo alquanto differente. Ma vediamo di procedere con un minimo di ordine:

NOTA
La denominazione delle strade e delle piazze della città, come si sa, è relativamente recente. Fu merito dell’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa d’Austria, due anni dopo la morte della madre (1780), l’aver deciso di attribuire un nome alle vie ed una numerazione progressiva a tutte le case della città (numerazione teresiana), nell’intento di trovare la soluzione efficace al contrasto all’evasione fiscale e di avere un miglior controllo di ordine pubblico, sulla popolazione residente.
Precedentemente quindi al 1782, non esistendo la possibilità d’identificare univocamente una certa abitazione, era necessario fornire dei riferimenti il più possibile prossimi all’indirizzo desiderato indicando ad esempio canali, ponti, chiese, torri, palazzi signorili o qualunque altro elemento distintivo che permettesse con sufficiente approssimazione, di raggiungere il luogo richiesto.

Età comunale

Ai tempi dell’età comunale, quindi nel XII e XIII secolo, epoca questa per noi ormai remota, non avendo le strade esistenti un loro nome, così come nemmeno gli slarghi o le piazze, per fare riferimento ad un certo luogo, di norma, gli si associava, se presente in quel posto, il nome dell’edificio pubblico ritenuto più importante, oppure quello della famiglia più blasonata, che abitava nei pressi.
Nel nostro caso, il nome di questo slargo, che esisteva già allora come tale, pare fosse originariamente Piazzetta di Ca’ Galenti (o Ca’ Galeni), ove il Ca’, come facilmente intuibile, è un antico (ma non troppo), troncamento della parola Casa (ad esempio Ca’ Granda, Ca’ Brutta, Ca’ di Ciapp , Ca’ di Facc etc, nomi questi, che, a Milano, ancora oggi risultano perfettamente attuali).

Concettualmente, dire Piazzetta di Ca’ Galenti, equivaleva a indicare la “piazzetta prospicente la casa dei Galenti“. Quindi, Galenti, era il nome di una potente famiglia di allora, molto conosciuta in città, il cui palazzo si affacciava proprio su quello slargo. A quei tempi, tale modo di nominare le piazze era accettabile, visto che la città era poco più di una grossa borgata, ove ci si conosceva praticamente tutti.
Sarebbe potuta mancare una chiesa in quella piazzetta? Assolutamente no! Tutto il quartiere ‘odorava di santità‘ essendo effettivamente una successione ininterrotta di conventi e monasteri; quanto a chiese poi, ce n’era una ogni 50 metri! In quella piazzetta c’era un oratorio fin dall’VIII secolo, dedicato a San Pietro, la cui facciata dava sulla contrada dei Meravigli, (vedi nella mappa, è la prima strada quasi orizzontale in alto sulla destra). L’oratorio, visto di fronte, prestava il fianco destro proprio alla medesima piazzetta (più o meno in corrispondenza dell’odierno palazzo moderno, al pianoterra del quale, fino a pochi mesi fa, vi era una delle filiali della Banca del Monte (oggi trasferita in Piazza dei Mercanti).

A Milano, c’erano diverse altre famiglie di nobile lignaggio, il cui cognome iniziava per ‘Ga‘ oppure per ‘Go‘ (ad esempio i Gatossico, i Galancia, i Garana, i Gamiglio, e così via.

Sta di fatto che, per un certo periodo, sicuramente per questione di costume, quando si faceva riferimento a chi frequentava assiduamente quelle famiglie altolocate, fosse una norma, il far seguire al nome del soggetto, quello della casa dei Signori di riferimento (ad esempio: Lucrezia di Ca’ Galancia).

Non c’è dubbio che l’assonanza del Ca’ con cognomi inizianti per ‘Ga‘ o per ‘Go‘, creasse un più che comprensibile motivo di sgradevole imbarazzo e di forte disagio particolarmente nelle dame (molto spesso di una certa levatura) che, frequentando abitualmente quelle case, avevano la sventura di sentire associato ad esse il loro nome.
I discendenti di tali antiche casate, pensarono bene di correre ai ripari, cambiando il loro cognome, eliminando la radice comune ‘incriminata’, laddove l’equivoco suonava evidente. Diverse famiglie, anche se non tutte, si liberarono della sillaba iniziale del loro cognome: così i Galenti diventarono Lenti, i Galancia, Lancia , i Gamiglio, Miglio e così via. Decaduta successivamente, anche l’usanza del Ca’, l’antico slargo di Ca’ Galenti, divenne naturalmente la piazzetta dei Lenti . Parimenti è credibile che l’iniziale oratorio di San Pietro in Ca’ Galenti venisse, da allora, rinominato oratorio di San Pietro in Lenti.

Ed è propro con tale denominazione, che troviamo tale luogo di culto nel XVI secolo, quando san Carlo Borromeo, fece una sua visita pastorale nel 1573. Non gli piacque il nome di questo oratorio e volle modificarlo, probabilmente non ritenendo quel ‘Lenti‘,adatto a San Pietro, principe degli Apostoli: volle mutarlo in ‘Linteum’, giudicando questo termine, a lui molto più appropriato [ Ndr.- linteum, neutro sostantivato dell’aggettivo linteus «di lino» ]. Da quel momento, la parrocchia di Porta Vercellina si chiamò San Pietro ad Linteum, in ricordo del misterioso lenzuolo, contenente i disegni di ogni sorta di animali, che la Sacra Bibbia racconta, sia apparso in visione proprio a San Pietro, mentre stava pregando.

 LA SACRA BIBBIADal passo di Atti 10, 1-20:
1. C’era in Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, 2. uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. 3. Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: «Cornelio!». 4. Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio. 5. E ora manda degli uomini a Giaffa e fa’ venire un certo Simone detto anche Pietro. 6. Egli è ospite presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare». 7. Quando l’angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, 8. spiegata loro ogni cosa, li mandò a Giaffa.
9.
Il giorno dopo, mentre quelli erano in cammino e si avvicinavano alla città, Pietro, verso mezzogiorno, salì sulla terrazza a pregare. 10. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi: 11. vide il cielo aperto e un oggetto che scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. 12. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo.
13. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!».
14. Ma Pietro rispose: «Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro».
15. E la voce, di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano» .….
16.  Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato al cielo. 17.  Mentre Pietro si domandava perplesso tra sé e sé che cosa significasse ciò che aveva visto, gli uomini inviati da Cornelio, dopo aver domandato della casa di Simone, si fermarono all’ingresso. 18. Chiamarono e chiesero se Simone, detto anche Pietro, alloggiava colà. 19.  Pietro stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: «Ecco, tre uomini ti cercano; 20. alzati, scendi e va’ con loro senza esitazione, perché io li ho mandati». 

Particolare di una mappa del catasto teresiano del 1751, in cui viene evidenziata la chiesa dei Santi Pietro e Lino

A seguito di una delle tante storpiature e semplificazioni che il popolino, di norma, usa infliggere ai nomi di cui non conosce o non capisce bene il significato (soprattutto, come in questo caso, Linteum suonava come termine decisamente misterioso), l’oratorio venne ribattezzato dalla gente col nome di San Pietro e Lino, (attenzione: non Santi Pietro e Lino) denominazione questa, che, con interpretazioni diverse, mise d’accordo un po’ tutti, il popolo da una parte, e salomonicamente, il clero dall’altra.
Infatti, visto dal popolo, questo ‘linteum‘ storpiato, diventava sbrigativamente ‘lino, nel senso di lenzuolo, discorso tutto sommato coerente, dato che era stato lo stesso Carlo Borromeo a proporlo; visto dal clero invece, essendo ‘Lino‘ il nome del secondo vescovo di Roma, quel nome intendeva ovviamente fare riferimento al secondo papa cristiano!
Soppressa poi la parrocchia nel 1578, più tardi la chiesa fu affidata alla corporazione dei linaioli e dei sarti, che fecero dell’attigua canonica, la sede delle riunioni dei loro affiliati; nel 1725, rinnovarono la chiesa stessa in veste barocca, finché nel 1786, poco più di sessant’anni dopo, venne senza troppi rimpianti, demolita. (in seguito alle leggi giuseppine). Alcune antiche stampe della città ce la mostrano affacciata alla piazzetta col suo fianco destro, la fronte a contrada dei Meravigli e l’abside, in fregio al vecchio vicolo Porlezza.

Interesserà forse sapere che il moderno palazzo che occupa al presente quell’area, conserva nei locali della banca, posta pianterreno, un avanzo di muro in cui intorno all’VIII secolo sarebbe appunto sorta la primitiva chiesuola di San Pietro in Ca’ Galenti.

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Precotto

Suona abbastanza originale, questo nome per il quartiere, che si trova nella zona Nord Est della città, appartenente al Municipio 2.
Queste è una delle fermate (in esercizio), della metropolitana MM1, Linea Rossa, inaugurata nel lontano 1964, del tratto che unisce le stazioni di Sesto San Giovanni, a quella di Loreto. Non si sa con certezza, quale sia la reale origine del nome Precotto.

Prima interpretazione

La logica direbbe che deriva da una traduzione letterale di una forma dialettale ‘Precott’, dove ‘Pre’ significherebbe prato, e ‘Còtt’ starebbe per cotto, cioè ‘prato cotto‘. Teoria questa che troverebbe conferma, dal fatto che parecchio tempo addietro, qui c’erano molti prati riarsi, bruciati sia dal sole che dall’uomo, per fare foraggio per il bestiame, che pascolava liberamente. Pare che il nome della zona di Precotto a Milano abbia origini che risalgono ai tempi antichi. Questo quartiere, in effetti era ritenuto in origine un antico insediamento rurale, risalente già al 1100, situato lungo la strada che conduce a Monza, confinante con Greco, Gorla, Crescenzago e Sesto San Giovanni, a nord di Milano.

Seconda interpretazione

Un’altra ipotesi sulla nascita di questo nome pare legata a un antico toponimo Pulcoctum (1148 -1153) o ad Pullum Coctum (1162), ma anche Precogio XIII secolo, latino ecclesiastico Praecautum, che potrebbe ricordare un’antica osteria, ubicata sulla strada che portava da Milano a Monza.

Terza interpretazione

Vi sarebbe pure una terza interpretazione, ove il  “pre” viene inteso come prete, e “cott” è sempre cotto. Quindi in definitiva, ‘prete cotto’! Qui si sfocia nella leggenda, visto che non vi è alcun riscontro concreto. Pare …. ma qui il dubitativo è d’obbligo, che in questo luogo vi abbiano ‘cotto’ vivo un sacerdote. Circola infatti una storiella in proposito …. Cannibalismo? Bah, ho i miei dubbi!!!

LA LEGGENDA DEL ‘PRETE COTTO’
Questa è una delle tante storielle, ambientata sul Naviglio Martesana, e tramandata nei secoli dai nostri vecchi.
Si racconta che, nelle campagne intorno a Milano, vi fosse un castello il cui castellano, stufo delle scorribande del figlio scapestrato, un bel giorno, dopo l’ultima bravata, decise di diseredarlo. Naturalmente furibondo per la decisione del padre, questi abbandonò furente il castello e dopo qualche tempo, organizzò, spalleggiato da un gruppetto di amici, semi-delinquenti come lui, una spedizione punitiva nei confronti dell’anziano genitore, per vendicarsi dell’onta subita. Arrivato però al castello, venne a scoprire che, nel frattempo, il padre era morto e che aveva ceduto il castello in eredità ai frati. Non ci pensò due volte, ammazzò tutti i frati, occupando lui il castello e diventando il terrore dei villaggi vicini. Dopo anni di disgrazie tuttavia, pare che ebbe un improvviso ravvedimento, con sollievo di tutti i milanesi: si pentì delle proprie malefatte, decidendo di farsi sacerdote e di andare ad espiare, in qualche eremo, tutte le sue colpe.
Passarono gli anni e dopo la morte del parroco della chiesetta del borgo, il figlio del castellano, essendo diventato sacerdote, riapparve in paese prendendo il posto del defunto- Incredibilmente però, ora da sacerdote, riprese a comportarsi da gran carogna, come usava fare quando era cavaliere.
Il duca di Milano decise di dire basta a questi soprusi e mandò i suoi soldati per punire il sanguinario sacerdote. Ma questi aveva protetto bene il suo castello e per entrare i soldati del duca dovettero mettere di notte, a fuoco, il castello.
Il sacerdote allora uscì impugnando una grossa spada che manco due uomini avrebbero potuto tenere in mano, e iniziò a menare fendenti contro tutti. Riuscì a fermarlo solo il santone della Martesana e, grazie a lui, il sacerdote venne catturato ed incatenato.
Il popolo voleva la sua morte. Venne così infilato in un pentolone in mezzo alla piazza, e morì bollito. L’orrore si tramandò nei decenni, come la vicenda del “Prete Cotto”il quartiere da allora, venne chiamato Pre-cotto.
[ Rif. – Ignazio Pepicelli Sanna, autore de Il mare senza sale – Milano Città Stato ]

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Gambara

Questo è un quartiere di Milano appartenente al Municipio 7: si trova nella zona Ovest della città, immediatamente oltre l’anello esterno della circonvallazione, in direzione Baggio,
E’ pure una delle fermate della metropolitana MM1, Linea Rossa, della ramificazione che unisce le stazioni di Pagano a quella finale di Bisceglie.
La stazione di Gàmbara venne attivata il 2 aprile 1966, come capolinea della nuova diramazione proveniente da Pagano. Rimase tale fino al 18 aprile 1975, quando venne attivato il prolungamento fino a Inganni. Ora dal 21 marzo 1992, il capolinea è Bisceglie.

Come mai ne parlo? Sembrerà assurdo, ma è per come si dovrebbe pronunciare questo nome!

Gàmbara oppure Gambàra, questo è l’eterno dilemma.

Obiettivamente, con la continua evoluzione della lingua, è molto arduo trovare una risposta univoca che metta d’accordo un po’ tutti. Tuttavia se il nome del quartiere è legato a quello della piazza che il Comune di Milano ha voluto intitolare a Veronica Gàmbara, una poetessa del Cinquecento, beh, allora non vi sono più dubbi!
Direi, a sensazione, che almeno il 70% della gente sbaglia ancora oggi nel pronunciarlo. Sicuramente c’è una regola non scritta della lingua italiana, secondo la quale, un nome comune, avente due o più vocali, in assenza di accenti che ne alterino la lettura standard, va normalmente letto ponendo l’accento sulla penultima o terz’ultima vocale a seconda della derivazione latina o greca della parola stessa. Nel caso specifico, il nome non è comune ma proprio e probabilmente la regola decade. Non nascondo che, viene spontaneo pure a me pronunciare quel nome, ponendo l’accento sulla seconda delle tre ‘a’ (Gambàra), ed è sbagliato!

Il nome corretto, va letto come Gàmbara, con l’accento sulla prima delle tre ‘a’!
Sembra una banalità, ma non lo è affatto: pare che addirittura degli abitanti della zona, offesissimi per quella che ritenevano essere l’errata pronuncia di questo nome, da parte dello speaker dell’ATM (annunciante l’arrivo del treno in stazione), reo, a loro avviso, di continuare a chiamare come ‘Gàmbara‘, una fermata che secondo loro, sarebbe stato corretto chiamare ‘Gambàra‘, lanciarono addirittura una petizione al Sindaco Sala, perché si rimediasse all’errore che oltraggia gli abitanti del quartiere che, da anni, si sentono vessati”!

Premesso che, onestamente, riserverei le petizioni al Sindaco affinché trovasse una soluzione definitiva e urgente a problemi mille volte più seri di questo, a cominciare dalla lotta alla micro-criminalità dilagante in città etc, (ma queste sono considerazioni puramente personali), da non milanese quale sono e quindi, arbitro ‘super partes’, devo dire che la petizione mi sembra assolutamente fuori luogo, poiché non vi è alcun errore di pronuncia da parte dello speaker ATM, quando dice ‘Gàmbara‘! Infatti la fermata fa riferimento alla piazza (sotto la quale, la stazione stessa si trova). Il piazzale risulta essere intitolato a Veronica Gàmbara. Anche se sulla targa stradale non risulta evidenziato alcun accento sulle ‘a’, (essendo i cararatteri della targa tutti in maiuscolo ), ‘Gàmbara‘ va letto con l’accento sulla prima ‘a’ essendo questo il nome di una antica dinastia cui apparteneva la poetessa del cinquecento, una delle donne più illustri d’Italia e molto apprezzata e decantata dai contemporanei per il suo ingegno poetico e letterario, Questo è da non confondere con Gambàra, che invece risulta essere il nome di un piccolo Comune del bresciano, Comune che non ha alcuna motivazione di essere menzionato in una piazza di Milano, non essendo stato neppure, a suo tempo, una borgata del suo hinterland più prossimo. Il fatto che la piazza sia intestata esplicitamente a Veronica, mi sembra proprio non dia adito a dubbi di alcun genere ed anzi i cittadini che abitano in zona ne dovrebbero essere più che onorati, visto che non sono molte le piazze della città dedicate a delle donne illustri!
Se qualcuno non avesse presente chi è stata questa Veronica, tanto bistrattata e colpevolmente dimenticata, ecco qui un breve riassunto della sua vita.

Chi è questa Veronica Gàmbara


Ritratto di dama, Correggio – Olio su tela, 102 x 86 San Pietroburgo, Hermitage variamente identificata in Veronica Gambara o Ginevra Rangoni,

Di nobile lignaggio, era nata a Pratalboino, il 30 novembre 1485, nel vecchio castello di famiglia, poi demolito nel ‘700. Sua madre era Alda dei Pio di Savoia di Carpi (famiglia che tenne la signoria di Carpi fino al 1527) e suo padre, Gianfrancesco Gàmbara era feudatario di Pratalboino (oggi Pralboino). Veronica fu la prima di una nidiata di sette fratelli, tre femmine e quattro maschi.

La sua famiglia  aveva nel territorio bresciano vastissimi possedimenti feudali, oltre a privilegi e onori principeschi; riuscì a costruire la sua fortuna attraverso una politica di legami matrimoniali e di carriere ecclesiastiche di alto livello. Inoltre i Gàmbara vantavano un’importante tradizione umanistica. A cominciare dallo zio Pietro, fratello di suo padre, umanista che aveva in casa addirittura una delle primissime tipografie in Italia, poi da Ginevra Nogarola la sua nonna paterna, donna erudita che Francesco Sansovino più di una volta, avrebbe menzionato nei suoi scritti per la sua profonda cultura. Anche la sua prozia Isotta era una poetessa e una cugina della madre, tale Emilia Pio da Montefeltro, suscitava l’ammirazione di Baldassarre Castiglione  al punto da essere da lui considerata, assieme ad Isabella d’Este e ad Elisabetta Gonzaga, come l’emblema della donna di cultura quale si era venuta affermando nel Rinascimento, al punto da venire ritratta, per la sua avvenenza ed acutezza di pensiero, pure dal contemporaneo pittore urbinate Raffaello Sanzio (1483 – 1520). L’amore di suo padre per la letteratura venne da lui trasmesso sia a Veronica che agli altri fratelli di lei, cui venne impartita un’educazione all’altezza della tradizione familiare. Così lei, prima di darsi alla poesia studiò latino e greco oltre a filosofia e teologia.

Frequentando sin dall’adolescenza i salotti culturali della vicina Brescia, Veronica iniziò presto a scrivere i suoi primi versi. Strinse una fitta corrispondenza con Pietro Bembo, quindici anni più vecchio di lei,  un umanista, scrittore, filologo, traduttore e cardinale, legato al padre di lei, per via dell’attività diplomatica. Veronica e lui si scambiarono innumerevoli volte lettere e sonetti. La giovanissima poetessa corrispose anche con Isabella d’Este, un’altra considerata tra le donne più colte del suo tempo.

Il matrimonio (1508)

Si sposò all’età di 23 anni (molto tardi per quei tempi), col cinquantenne conte Giberto VII, signore di Correggio, generale pontificio, vedovo di Violante Pico, la nipote del neoplatonico Pico della Mirandola. Si trattava del classico matrimonio combinato dai genitori di lei alla ricerca di un uomo che per rango e ricchezze rappresentasse un degno partito per la figlia, un soggetto all’altezza della loro dinastia. Nel 1506 Francesco Munari, procuratore di Giberto, si era recato a Brescia per concludere subito l’affare, ma per le nozze era necessaria la dispensa papale, in quanto la madre di Veronica era cugina di Agnese Pio madre di Giberto, promesso sposo. Comunque nonostante le premesse non potessero essere in partenza le più promettenti (da un lato per la forte differenza d’età fra gli sposi e dall’altro perché avevano avuto occasione di vedersi una sola volta fugacemente prima delle nozze), incredibilmente il matrimonio andò a gonfie vele e i due si innamorarono effettivamente l’uno dell’altro (lei soprattutto). Alle nozze civili celebrate per procura a Brescia nel 1508, seguirono quelle religiose che, ottenuta la dispensa, si tennero l’anno successivo, in forma privata, ad Amalfi.

Il madrigale più famoso della poetessa, risulta dedicato al marito (e non è l’unico): in questo caso, celebra i suoi occhi, capaci di far ardere il cuore della giovane.

Occhi lucenti e belli,
com’esser può che in un medesmo istante
nascan da voi nove sì forme e tante?
Lieti, mesti, superbi, umili, alteri
vi mostrate in un punto, onde di speme
e di timor m’empiete,
e tanti effetti dolci, acerbi e fieri
nel core arso per voi vengono insieme
ad ognor che volete.
Or, poi che voi mia vita e morte sète,
occhi felici, occhi beati e cari,
siate sempre sereni allegri e chiari.

Ndr. – Il madrigale è una composizione musicale o lirica, in maggior parte per gruppi di 3-5 voci, originaria dell’Italia, e diffusa in particolare tra Rinascimento e Barocco.

Nel piccolo feudo di Correggio, Veronica fu molto benvoluta dai sudditi, che oltre alla bellezza della sua gioventù apprezzarono molto quella della sua poesia. Tra il 1510 e il 1511 diede alla luce i figli Ippolito e Gerolamo. Gli impegni di madre, non le preclusero la sua partecipazione attiva alla vita sia culturale che politica del tempo, nonché la possibilità di dedicarsi a scrivere nuovi versi e rime varie, apprezzate non solo dai suoi contemporanei, come Antonio Allegri detto il Correggio, ma pure da poeti successivi, come ad esempio un Giacomo Leopardi, e Rinaldo Corso (letterato, giurista e vescovo).

La poetessa reggente (1518).

Visse felicemente dieci anni il matrimonio col marito, sino al  1518, quando lui morì. Spettò a lei, allora solo trentatreenne, occuparsi da sola, sia dell’educazione dei figli ancora piccoli, che del feudo di Correggio lasciatole dal marito, cosa che fece con rara abilità, per il resto della sua vita. Donna di temperamento, energica ed abile, fu talvolta anche bizzarra; dopo la morte del marito vestì sempre di nero, obbligò al nero i suoi cortigiani e sulle porta dei suoi appartamenti privati fece incidere i versi dell’Eneide in cui Didone afferma la sua eterna fedeltà al compianto marito Sicheo:

Ille meos primus, qui me sibi iunxit, amores
abstulit, ille habeat secum, servetque sepulchro.
(tradotto)
Colui che primo mi legò possiede il mio amore,
per sempre lo mantenga nella tomba’.

La “poetessa reggente” – così amava chiamarla Pietro Bembo – distrutta dal dolore troppo grande che le aveva procurato la perdita di Giberto, non volle più risposarsi e, oltre a sobbarcarsi da sola, il peso di una Signoria che, per quanto piccola, era comunque pur sempre impegnativa, si dedicò attivamente pure alla poesia istituendo fra l’altro, uno dei circoli culturali, fra i più vitali del Rinascimento. Nel suo salotto oltre a figure come Pietro Bembo, amico e mentore, accolse pure poeti della levatura di Ludovico Ariosto e pittori come Tiziano Vecellio.

Si dette pure da fare per l’istruzione dei suoi figli: il maggiore, destinato poi a prendere come consuetudine, le redini della signoria, divenne uomo d’arme; il secondo, invece diventò cardinale, instradato alla carriera ecclesiastica a Roma dallo zio materno Uberto Gambara cardinale pure lui, in Vaticano. Secondo le usanze dell’epoca, Veronica mise pure a punto un’accorta strategia matrimoniale per sistemare le due figlie di primo letto del marito (Costanza sposata nel 1518 al Alessandro I Gonzaga, Conte di Novellara, e Ginevra, sposata a Paolo Fregoso, non meglio qualificato).

Sotto la sua reggenza, comunque, la piccola corte di Correggio diventò anche un vivacissimo salotto sia culturale che politico. In particolare, per quanto riguarda la politica, nell’aspra contesa che vide contrapposti Francesco I e Carlo V, i Da Correggio scelsero infine di schierarsi con l’imperatore, che per ben due volte, nel 1530 e nel 1532, fece visita alla città e ai suoi Signori. Veronica chiese, ottenendola, la protezione di Carlo V d’Asburgo, che lei ricevette personalmente a palazzo ottenendo garanzia dall’imperatore che Correggio non sarebbe stata più assediata. Patto quest’ultimo, che venne infranto nel 1538 quando, al riaccendersi della guerra tra francesi e Carlo V, Galeotto Pico filofrancese, pensò bene di attaccare la città, di Correggio. Veronica organizzò e guidò con successo la difesa della città, accollando poi a Carlo V, negli anni seguenti, le spese di ricostruzione delle fortificazioni andate distrutte.

Anche quando Veronica, nel 1541, formalmente cedette il governo del feudo al figlio Ippolito, per tentare di dedicarsi più liberamente alla letteratura e alla scrittura, la poetessa caratterialmente alla fine, non riuscì comunque mai a staccarsi dai suoi impegni in politica e di controllare l’attività di governo del figlio.

Nel 1549, un anno prima di morire, in una lettera ad un amico (Ludovico Rosso) confessò il suo desiderio di potersi ritirare per condurre una vita in campagna in solitudine, sentendosi esausta per il carico delle eccessive responsabilità, (quasi pur avendole, da tempo, delegate al figlio, non riuscisse a fidarsi ciecamente della bontà del suo operato). Il suo desidero non verrà mai esaudito.

La morte (1550)

 Fu proprio a Correggio che chiuse gli occhi il 13 Giugno del 1550, all’età di 65 anni, lasciando sonetti, madrigali, ballate varie, lettere e manoscritti che circolavano in tutte le Corti d’ Italia. I temi affrontati, andavano dall’amore per il marito alle scene bucoliche, dai poemi devozionali agli argomenti politici. Davvero icredibile, come riuscì ad immaginare un’Italia concepita come un’unica entità, già tre secoli prima della sua reale unificazione. Evidentemente quello era un sogno che cominciava a prendere forma già da allora!

Rinaldo Corso, letterato locale,nel descrivere la sepoltura della poetessa reggente, racconta che nella bara di Veronica vennero deposti un ramo d’ulivo a simboleggiare l’impegno pacifico in politica e uno di lauro per ricordare la poesia che coltivò tutta la sua vita.

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