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Giuseppe Prina “lo straniero”

Premessa

“Qui non c’è che un uomo, intelligente e di carattere” – così aveva detto di Giuseppe Prina, Napoleone Bonaparte, Re d’Italia, elencando al figliastro Eugène de Beauharnais, appena nominato Viceré, pregi e difetti dei ministri che lo avrebbero affiancato nella gestione del Regno d’Italia, per i mesi a venire.

Giuseppe Prina era, in effetti, il migliore Ministro delle Finanze che Napoleone avesse mai avuto e che ora lui metteva a disposizione di Eugène. In poco tempo, era stato in grado di creare in Italia uno dei più validi ed efficienti ordinamenti tributari, rimasto in vigore fino al 1814, anno del ritorno degli austriaci a Milano, alla caduta dell’Impero napoleonico. Ed ora eravamo proprio all’aprile di quell’anno!

Certamente, quello del Ministro delle Finanze, a parte le necessarie competenze per svolgere quel tipo di incarico, era (ed è anche oggi) un compito non solo ingrato, ma soprattutto malvisto da tutti. A parte quindi la difficoltà a trovare qualcuno disposto a prestarsi a tale compito, il vero problema da risolvere era duplice: da un lato quello di dover risanare un deficit di bilancio disastroso, ereditato dalle dissennate gestioni delle precedenti secolari dominazioni straniere in Italia, dove la gente subissata di tasse, non riusciva più a mettere insieme il pranzo con la cena, dall’altro il doversi inventare nuovi balzelli da far “digerire” al popolo già stremato, per far fronte all’onerosissimo finanziamento delle campagne militari napoleoniche, compito quest’ultimo particolarmente complesso, se si volevano evitare spontanee manifestazioni e sommosse di popolo. E Napoleone aveva fiutato giusto nello scegliere come suo Ministro delle Finanze, quel piemontese Giuseppe Prina.

Chi era Giuseppe Prina

Nato a Novara il 19 luglio 1766,  Giuseppe fu il secondogenito del notaio Giovanni e di Giustina Portigliotti, figlia di un architetto. La famiglia Prina, pur appartenendo al patriziato cittadino, non godeva di particolari ricchezze. come la professione del padre potrebbe lasciare intendere. Frequentato dal 1777 al 1783, il Regio collegio di S. Ignazio di Monza, dove si sarebbe formato anche Carlo Porta, diede prova fin dai suoi primi anni, di un raro talento terminando gli studi di Giurisprudenza  all’Università di Pavia nel 1787. Dopo avere esercitato, per qualche anno, la professione legale a Novara, appena venticinquenne, nel 1791, doveva essere davvero brillante se, come primo incarico, l’Amministrazione sabauda del Regno di Sardegna, gli offrì il posto di sostituto del procuratore generale. Ricoprì vari ruoli di altrettanto prestigio, negli anni successivi. Fu in una di queste vesti, che ebbe l’occasione di partecipare direttamente alle trattative che sfociarono nell’armistizio di Cherasco del 1796, tra piemontesi e francesi. Per fedeltà alla casa sabauda, rifiutò qualunque collaborazione con i transalpini, anche se solo nell’ambito dell’amministrazione delle cosiddette “Repubbliche sorelle”, nei primi anni dell’occupazione napoleonica.

Ndr. – Con l’espressione “Repubbliche sorelle” o “Repubbliche giacobine” si intendono i nuovi Stati, costituiti tra il 1797 e il 1799, nell’Europa centro-settentrionale e nella penisola italiana dopo l’occupazione militare francese, ispirati alle istituzioni e ai modelli della Francia rivoluzionaria. [rif. Wikipedia] 

Nel 1798 passò poi ad operare nell’Amministrazione Superiore delle Finanze.

Ministro delle Finanze della Repubblica Cisalpina

Ebbe modo di conoscere personalmente Napoleone appena nel gennaio 1802. Accadde in occasione dell’apertura della Consulta di Lione, quando il Console Bonaparte decise di incontrare i rappresentanti della Repubblica Cisalpina. Incaricato di fare un discorso di ringraziamento per la presenza dell’illustre ospite, fu lì che Prina si fece notare da Napoleone. Il Console, prese informazioni su di lui, e venuto a sapere della stima di cui godeva in campo economico, lo volle mettere alla prova nominandolo, già quello stesso anno, come Ministro delle Finanze della Repubblica Cisalpina.

Consulta di Lione (1802)

Quell’anno, mentre le entrate nazionali assommavano a 72 milioni di lire, le spese raggiungevano gli 86 milioni, 49 dei quali, destinati al bilancio militare e ai contributi alla Francia. Il disavanzo di 14 milioni di lire doveva essere necessariamente coperto con nuove tasse. Il Ministro Prina, scelto come collaboratore fidato, il suo segretario generale Pietro Custodi, si dedicò con fermezza, col suo aiuto, al riordinamento tecnico  dell’amministrazione, perfezionando l’accertamento dei redditi, e riducendo il finanziamento di spese ritenute non essenziali. Fu lui, il primo ad istituire il Monte Napoleone (cioè l’istituzione finanziaria nata nel 1802 e incaricata di amministrare il debito pubblico) che poté emettere buoni fruttiferi.

Ministro delle Finanze del Regno d’Italia

Visti i risultati conseguiti, Napoleone gli riconfermò la carica di Ministro delle Finanze, nuovamente nel 1805. nel neonato Regno d’Italia, che versava in una situazione finanziaria davvero catastrofica.

Rimase naturalmente impressionato quando vide, leggendo il suo rendiconto finanziario annuale, che il Prina era riuscito a risanare le finanze già con il bilancio definitivo del 1805, da un lato grazie a una riduzione del contributo all’esercito francese, ma soprattutto grazie alla maggiore efficienza nella riscossione delle imposte. Altra ottima operazione si rivelò pure la liquidazione del debito pubblico, grazie anche alla vendita dei numerosissimi beni confiscati al clero.

Giuseppe Prina (1766 – 1814)

Tanto allegro e brillante nella sua vita privata, quanto antipatico e dai modi addirittura odiosi sprezzanti e provocatori quando il Prina era nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Diverse fonti riferiscono che fosse duro ed inflessibile nello svolgimento del suo incarico. Per potersi dedicare interamente al lavoro, aveva persino rinunciato a farsi una famiglia. Era noto per la sua singolare abilità nell’inventare nuovi balzelli per poter far fronte all’enorme quantità di denaro richiesto sia per la gestione corrente, che per il finanziamento delle costosissime campagne belliche di Napoleone, in giro per l’Europa.

I sospetti di appropriazione indebita

Il fatto di non essere sposato e quindi di non dover mantenere una famiglia, gli consentiva, data anche l’entità degli emolumenti che gli spettavano per la sua posizione, di poter mantenere un tenore di vita che non tutti potevano permettersi. Era quindi un soggetto chiacchierato …. agli occhi della gente, non poteva essere “pulito”: rubava sicuramente come tutti, ed era difficile riuscire a cancellare questa convinzione diffusa! La gente che era stata avvezza per così tanti anni, all’amministrazione bonaria e piuttosto approssimativa dei precedenti governanti austriaci, ora non solo si lamentava del peso delle tasse, ma soprattutto dell’accanimento e delle persecuzioni degli esattori per riscuoterle. Prina, in quanto loro capo, era considerato un autentico avvoltoio! Veniva poi spontanea la diffidenza del popolo sulla integrità morale di chi richiedeva questi soldi. Come dice il proverbio “l’occasione, fa l’uomo ladro”! Era quindi convinzione comune che parte di quel danaro finisse nelle tasche sbagliate. Non era possibile infatti, secondo loro, che di tutto quel fiume d’oro che i milanesi versavano ai percettori, denaro sicuramente in massima parte destinato a Parigi, non restasse qualcosa “appiccicato alle saccocce” del Prina. Ecco perché poteva permettersi “la bella vita” arricchendosi a spese del popolo affamato, e nascondendo tesori nel suo palazzo di Piazza San Fedele! La cosa trasparirebbe anche in un sonetto di Carlo Porta, Quand vedessev on pubblegh funzionari, rivolto a quanto sembra, al Ministro delle Finanze, il cui comportamento, spesso sopra le righe, pare desse effettivamente adito a sospetti di corruzione.

Ndr. – Dicerie assolutamente false! Incredibilmente (lo scopriranno troppo tardi) Giuseppe Prina era onestissimo! Anzi, il suo impegno maggiore era stato sempre quello di combattere proprio la corruzione dei funzionari preposti alla riscossione delle tasse. Non aveva mai accantonato per sé, nulla che non gli fosse dovuto, men che meno alcun tesoretto creato fraudolentemente, con i soldi rubati alla povera gente.

Non solo l’Italia già allora, era uno tra i paesi più tassati al mondo, ma la tassazione andava tristemente di pari passo con l’inefficienza. I soldi non erano destinati a migliorare le condizioni di vita della gente, ma venivano destinati ad altri scopi. Così, il divario tra il cattivo funzionamento dell’apparato statale e l’eccessivo carico fiscale, risultava essere per il popolo, ancora più indigesto e insopportabile.

Questo fece del Ministro delle Finanze Giuseppe Prina, l’uomo più detestato del Regno, in particolare in Lombardia, anche perché lo consideravano come “lo straniero”, date le sue origini piemontesi.

Nel 1812 e 1813 in particolare, erano state davvero lacrime e sangue. Lacrime, perchè una buona fetta dei soldi che la gente gli versava con le tasse, oltre a essere in buona parte devoluta alla Francia, era servita pure al mantenimento di un esercito di ventisettemila uomini (tutti lombardi) chiamato obbligatoriamente ad affiancare le armate francesi, nelle campagne napoleoniche in Russia. Sangue, perchè da quella ultima sfortunata campagna di Russia e dalla successiva battaglia di Lipsia in Germania, erano ritornati a casa in meno di mille! Quindi non solo povertà, ma anche tanti, tantissimi lutti!

Essendo queste le premesse, era più che giustificabile quanto Prina, soggetto già così antipatico ed inflessibile nel suo ruolo, fosse così odiato dalla gente. Anche perché, per poter velocemente rastrellare quanto gli era necessario per arrivare al pareggio, raschiando il fondo del barile, non gli restava altra soluzione che quella di toccare le tasche di tutti, comprese quelle dei ricchi, che fino ad allora erano stati risparmiati. L’unico modo possibile, a non voler fare discriminazioni, era naturalmente quello di tassare l’aria che si respira, cioè le cose essenziali, quelle di cui proprio nessuno può farne a meno, né ricchi, né poveri. Quindi, in definitiva, si era fatto nemici proprio tutti, sia i ricchi, non abituati a pagare le tasse, che i poveri che non avevano la possibilità di pagarle.

Pare che i suoi nemici più agguerriti fossero i contrabbandieri del tabacco; inoltre l’economia interna fu molto danneggiata da leggi drastiche sulla produzione della seta che, unitamente all’industria del tabacco, costituivano un grosso cespite di guadagno. Ciò che fece maggiormente imbestialire la gente contro i francesi in generale, fu ad esempio, una serie di disposizioni interpretate come punitive nei confronti dell’Italia, e a favore ovviamente della Francia. Queste leggi, toccavano pesantemente tutta la filiera della seta, dalla produzione della seta grezza, al prodotto finito, settore questo, sempre stato uno dei più importanti in Lombardia. Furono infatti aboliti i dazi per i francesi, resa obbligatoria l’esportazione della seta grezza solo ed unicamente in Francia, totalmente proibita la produzione in Lombardia, di articoli di seta (come prodotto finito). Chiaramente l’esasperazione dei produttori, degli industriali e dei commercianti, favorì la crescita del numero delle persone ostili al governo francese e naturalmente anche a chi lo rappresentava in Italia.

L’impopolarità di Eugène de Beauharnais

Anche il capo di Prina, il viceré Eugène de Beauharnais, si era reso piuttosto antipatico alla gente e tanti ce l’avevano anche con lui per le sue uscite spesso fuori luogo. Ultimamente si era reso davvero inviso alle truppe a causa di una frase sprezzante con cui in Polonia, nella prima fase della campagna di Russia, aveva insolentito le truppe affamate della divisione italiana (comandata da Domenico Pino), che si vedevano posposte ai francesi nella distribuzione di viveri: “Se non siete contenti, tornate pure in Italia che a me non importa nulla né di essa, né di voi, e tenete bene in mente che io non temo le vostre spade, più di quel che tema i vostri pugnali”. Anche se furono pochi i fortunati tornati a casa a riferire le parole sprezzanti del viceré, questo aveva contribuito ad aumentare la sua impopolarità rendendolo a tanti odioso quanto quell’esoso e avido Prina.

Dopo la disastrosa ritirata dalla campagna di Russia della Grande Armata,, per la quale aveva messo in campo un esercito di dimensioni mai viste prima (600000 uomini di cui la metà francesi e il resto proveniente dalle varie nazioni conquistate) Napoleone era ritornato in patria con nemmeno 100000 uomini, la sorte del Regno d’Italia appariva segnata.

Minacce al Ministro Prina

I segnali d’insofferenza contro i francesi e di disprezzo nei confronto del suo esponente più odiato, si erano fatti sempre più frequenti, con l’esposizione di cartelli e scritte sui muri, ovunque per le strade di Milano, in cui si minacciava: Morte al Prina! …. Prina, Prina il giorno si avvicina!

/////// Una breve parentesi di storia ///////

La resa di Napoleone – Il trattato

Dopo che seppe della sua destituzione, proclamata dal senato parigino, della formazione di un governo provvisorio presieduto da Talleyrand, del tradimento del generale Marmont e della capitolazione di Parigi autorizzata dal luogotenente generale dell’impero, il fratello Giuseppe, Napoleone, il 4 aprile 1814, dichiarò la resa.

Egli incaricò per la trattativa i marescialli di Francia Michel Ney ed Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald ed il generale Caulaincourt, inviati a Parigi con la disposizione di trattare la sua abdicazione in favore del giovane figlio Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, re di Roma, che Napoleone aveva avuto dalla seconda moglie, Maria Luisa, al momento ancora Imperatrice.

Il trattato di Fontainebleau del 1814 sancì la sconfitta di Napoleone Bonaparte  quale  imperatore dei francesi, dopo le pesanti sconfitte subite nella guerra della sesta coalizione e l’invasione della Francia da parte delle truppe delle potenze alleate d’Austria, di Russia e di Prussia con la campagna dei sei giorni e con le successive vicende belliche, le quali videro la schiacciante supremazia delle forze della coalizione e l’occupazione della capitale francese. [rif. Wikipedia]

Il castello di Fontainebleau sede ove abitò Napoleone durante le trattative condotte a Parigi per la sua resa

Fontainebleau – Parigi

6 aprile – mercoledì

Napoleone si dichiara pronto ad abdicare per evitare una guerra civile. Il trono di Francia viene offerto a Luigi XVIII noto anche col nomignolo di “il Desiderato“.
Abdicazione richiesta da Austria, Regno di Prussia e Russia ,senza condizioni, ed accettazione da parte di Napoleone di ritirarsi sull’isola d’Elba, rinunciando ad ogni pretesa sul governo della Francia

Secondo lo studioso francese Lentz, nel 2014, a 200 anni esatti dall’abdicazione di Napoleone, pare si sia scoperto un documento (datato 6 aprile 1814) che comproverebbe che Napoleone Bonaparte non fu costretto ad abdicare (come finora risaputo) ma decise autonomamente di lasciare il trono, dopo aver scartato l’ipotesi del suicidio.

Ndr. – Luigi XVIII era nipote di Luigi XV, figlio del delfino di Francia Luigi Ferdinando di Borbone e di Maria Giuseppina di Sassonia, era il fratello minore di Luigi XVI (re ghigliottinato durante la Rivoluzione francese). 

Luigi XVIII (1755 – 1824), in qualità di re di Francia, entrerà a Parigi il 3 maggio. Regnerà dal 1814 al 1824 (con esclusione dei 100 giorni nel 1815 col ritorno di Napoleone dall’esilio dell’Elba)

11 aprile – lunedì

Formalizzazione dell’atto di abdicazione di Napoleone
Il Senato francese chiama “liberamente” il futuro Luigi XVIII “re dei francesi, secondo il voto della nazione”
La firma del trattato di Fontainebleau da parte delle potenze alleate e dell’interessato, rende effettiva l’abdicazione di Napoleone.

In cambio della sua abdicazione, Napoleone sarebbe diventato sovrano dell’isola d’Elba, trasformata in principato, con una rendita annua, versatagli dal nuovo governo francese, di due milioni di lire francesi mentre la consorte Maria Luisa sarebbe diventata duchessa di Parma con diritto di successione per il figlio (Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, re di Roma).

Napoleone giungerà all’Elba il 3 maggio del 1814, a bordo della nave inglese Undaunted.

Milano

Le conseguenze del trattato di Fontainebleau ebbero pure pesanti ripercussioni sulla storia del Regno d’Italia e su quanto accadde in particolare a Milano nell’arco di due sole settimane (dal 14 al 28 aprile 1814) come diretta conseguenza dell’abdicazione di Napoleone.
Questa, la cronistoria di quelle due settimane:

14 aprile – giovedì

Il Senato di Milano vota “segretamente” (nonostante l’opposizione del Conte Carlo Verrifratello minore di Pietro e Alessandro Verri) l’invio di una deputazione alle potenze straniere incaricata di formulare la richiesta per la cessazione delle ostilità, per l’indipendenza del Regno d’Italia e la proclamazione del re, nella persona di Eugène de Beauharnais.

Ndr. – Anche se la notizia dell’abdicazione di Napoleone non poteva essere resa pubblica, in assenza di un dispaccio ufficiale, è evidente che la cosa era già a conoscenza dei senatori, diversamente non avrebbe trovato alcuna giustificazione la votazione dell’invio della deputazione alle potenze straniere per perorare la nomina di Eugène a re d’Italia al posto del patrigno.

A dire il vero i componenti prescelti per la deputazione non erano filo-francesi perché le correnti ostili ai transalpini (italici puri e filo-austriaci) si erano vivacemente opposte, vincendo in aula una lunga battaglia, quindi costoro non avrebbero certo perorato la nomina del Beauharnais, tuttavia ciò che dette fastidio ad alcuni, fu la richiesta di riserbo imposto ai partecipanti riguardo alle decisioni prese. La notizia fu spifferata all’esterno da qualcuno evidentemente contrario. La reazione della città a tale iniziativa venne accolta con manifestazioni pubbliche di sdegnata protesta. Particolarmente ostili per le loro posizioni antifrancesi, il generale Domenico Pino (filo-austriaco, reduce dalla campagna di Russia) e il conte Federico Confalonieri (italico puro), che pensarono di organizzare, in occasione della successiva seduta del Senato, prevista per il giorno 20, una “vivace” manifestazione di dissenso sull’operato dei senatori, facendo venire dal contado provocatori prezzolati, disponibili a menar le mani, se necessario e pronti a dare manforte ai manifestanti.

Eugène de Beauharnais, viceré d’Italia, da Mantova, convocò il Senato d’urgenza per le ore 13 del giorno 17 per l’ottenimento del voto di fiducia al suo progetto mirante ad ottenere dal congresso di Vienna, la sua nomina a Re d’Italia.

Ndr. – Eugène de Beauharnais, si trovava a Mantova ad assistere la moglie che il giorno prima, 13 aprile, aveva partorito Teodolinda, la loro quarta figlia.

16 aprile sabato

Arriva la notifica ufficiale dell’abdicazione di Napoleone, avvenuta in data 11 a Fontainebleau. Il Senato viene convocato d’urgenza per il giorno successivo (domenica 17)

Ndr. – Dato che la comunicazione ufficiale dell’abdicazione aveva impiegato 5 giorni per arrivare a Milano, evidentemente era stata trasmessa per dispaccio portato a mano da messaggero a cavallo, non via telegrafo ottico come ormai d’uso, per le comunicazioni urgenti.

La notizia dell’abdicazione di Napoleone sollevò, in tanti “italici puri”, un’illusoria speranza d’indipendenza.

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Perchè Napoleone vinceva le guerre : Il telegrafo ottico

17 aprile – domenica

Eugène de Beauharnais non ottiene il consenso fortemente caldeggiato. Il Senato, normalmente disposto ad accettare le richieste del viceré, questa volta non riesce a schierarsi a favore della sua nomina, ma si limita unicamente ad esprimere il proprio plauso per l’operato del governo.
Il Senato, accetta l’invio di una delegazione a Vienna unicamente per perorare una generica richiesta di indipendenza.

Erano tre i partiti milanesi in lizza, in quel periodo: quello dei sostenitori di un Regno d’Italia indipendente con un re italiano (anti francese), quello delle “marsine ricamate” (erano così chiamati gli esponenti del regime napoleonico in Italia) che optava per il viceré Eugène de Beauharnais; e infine quello filo-austriaco dei nostalgici, favorevoli al ripristino della situazione esistente prima della “folata napoleonica

Non riuscendo le “marsine ricamate” in minoranza, a superare la resistenza degli aristocratici di “fede diversa”, furono costrette ad accettare l’invio di una delegazione a Vienna, solo per sostenere una generica richiesta di indipendenza del Regno d’Italia.

20 Aprile – mercoledì “caldo” (la battaglia delle ombrelle”)

Il Senato è obbligato a decretare il ritiro della deputazione già inviata a Parigi e chiede ad Eugène de Beauharnais la convocazione dei tre collegi elettorali.
Linciaggio, nel centro di Milano, del Ministro delle Finanze Giuseppe Prina.

Era una giornata tetra e piovigginosa, quel 20 aprile, come spesso accade in primavera. Come ad ogni riunione del Senato, davanti al portone del palazzo, questa volta, a differenza delle altre, c’era molta più ressa del solito ad attendere l’arrivo delle carrozze dei senatori convocati. Grazie alla pioggia, bastava un’occhiata, per capire al volo la classe sociale dei curiosi in attesa davanti al portone aperto: ombrelli di seta dei nobili e dei cittadini dell’alta borghesia, ombrelli di cotone degli artigiani e del popolo minuto. senza ombrelli, protetti solo da berretti o cappellacci a cencio, gente di fuori città, arrivati in mattinata, campagnoli della Brianza o della Bassa, e, mescolati con loro, ceffi arrivati da chissà dove. Capitava spesso che in occasione delle sedute, diversi si dessero appuntamento davanti al Senato per vedere l’ingresso o l’uscita dei propri beniamini.

Palazzo del Senato (sulla destra il ponte sul Naviglio)

Ma quella mattina era diversa dalle altre, c’era maggior agitazione. Ogni arrivo di carrozze era accompagnato da applausi o da bordate di fischi ed improperi vari all’indirizzo del senatore della corrente politica da lui rappresentata (quella degli italiani puri, dei filofrancesi o degli austriacanti). Fra i senatori già arrivati in Senato quel mattino, si erano intrufolati  nell’edificio con la violenza, anche diversi dimostranti esagitati, fra cui anche il ventinovenne conte Federico Confalonieri (il futuro compagno di prigionia di Silvio Pellico), sfegatato rappresentante dei cosiddetti “Italici puri”.

La rivolta che scoppiò quella giornata, passata alla storia come la “Battaglia delle Ombrelle“, ebbe con tutta probabilità, l’appoggio esterno di nobili ed emissari vicini agli Asburgo.

A parte l’avversione che nutriva per i “cugini” francesi in generale, il conte Confalonieri aveva il dente avvelenato soprattutto col viceré Eugène de Beauharnais (figliastro del Bonaparte). Fra loro c’era un piccolo conto in sospeso: una questione di donne!
Pare che nel 1806, la contessa Teresa Casati (da poco sposata con Federico Confalonieri) in quanto nobildonna, era entrata a far parte, a Monza, delle dame di corte della viceregina d’Italia Augusta di Baviera. Essendo piuttosto avvenente, subito notata da Eugenio, fu da lui assiduamente corteggiata (a insaputa della moglie) e da lui messa pure incinta di Edoardo, figlio che, per tacitare le malelingue, Federico, nel 1807, riconobbe per suo. La morte del piccolo, nel 1813, all’età di soli 6 anni, rimasta avvolta nel mistero, risvegliò in lui i sopiti rancori e nella gente, i pesanti sospetti e pettegolezzi su quella relazione clandestina.

Teresa Casati Confalonieri (1787 -1830)
Teresa Casati Confalonieri (1787 -1830)

I senatori, sotto la minaccia degli scalmanati armati degli “ombrelli di seta” sottratti alla nobiltà, furono costretti a decretare il ritiro della deputazione già inviata a Parigi e a chiedere al Beauharnais a Mantova, la convocazione dei tre collegi elettorali, allo scopo di evitare che, attraverso un fatto compiuto, avallato dagli Alleati, si portasse sul trono Eugenio, senza consultare l’opinione pubblica.


Incredibilmente, a parte la presenza dei piantoni all’ingresso del Senato, e dei soldati di ronda messi subito fuori gioco dalla teppaglia che era già penetrata nell’edificio, la polizia era inesistente, totalmente latitante.
Iniziata la seduta, la confusione creata dagli agitatori in aula fu tale, che ad un certo momento diventò incontrollabile. Non era possibile continuare la sessione in quelle condizioni: quando poi anche le parole del moderatore Carlo Verri, sovrastate dalle urla e dai fischi dei manifestanti, non erano più udibili da nessuno, nacque davvero il caos. Mentre la teppaglia capitanata dal Conte Confalonieri si sguinzagliava ovunque in Senato alla ricerca del Prina, che, secondo loro avrebbe dovuto essere lì, nascosto da qualche parte, a fare le spese della furia dell’esagitato Conte, fu una bellissima tela di Andrea Appiani, da lui presa di mira e vandalizzata solo perchè raffigurante un grande ritratto di Napoleone! Non gli bastò scagliarvisi contro con un ombrello, bucarla e sfregiarla. Non contento, staccò il grande quadro dalla parete e lo scaraventò dalla finestra del secondo piano, nel cortile interno sottostante.

Il Ministro delle Finanze Giuseppe Prina, non era intervenuto alla seduta del Senato di quel mattino. Poco prima di uscire per recarsi in Senato, era arrivato da Pavia un suo cugino omonimo, abate (professore di diritto pubblico all’Università di quella città). Era venuto da Pavia proprio per lui a quell’ora, allarmato per il peggiorare della situazione e per avvisarlo che non stava tirando buona aria nei suoi confronti. Sarebbe stato preferibile sparire dalla circolazione almeno finche le acque si fossero calmate, fuggendo subito con lui, travestito da prete, con la medesima carrozza con la quale era arrivato. Fu tutto inutile: troppo ligio al dovere, Giuseppe Prina rifiutò l’invito del cugino, non rendendosi conto della realtà della situazione. “Ma perchè i milanesi dovrebbero farmi del male?” pare avesse così detto al cugino e rimase al suo posto. Fu questo il preludio di quella fosca giornata che avrebbe portato a uno dei più efferati delitti milanesi, l’uccisione del ministro delle Finanze Giuseppe Prina, che segnò il passaggio d’epoca, dal traballante regno d’Italia di Napoleone, alla restaurazione austriaca.

Le ricerche del Prina al Senato furono ovviamente senza esito. Dopo aver saccheggiato l’edificio, la marea dei manifestanti furiosi, al grido di “Andiamo a San Fedele, dal Prina!” si riversò in strada urlante. Pare fosse proprio Federico Confalonieri il capobanda a lanciare per primo quel grido, cosa questa che gli venne rimproverato per anni, accusa da cui si difese disperatamente in un opuscolo, e persino quando, patriota, dopo i moti del 1821, venne rinchiuso allo Spielberg “a calmare i suoi bollenti spiriti”. Certo è, che se non fu lui a spronare quella gente, fu qualche altro “ombrello di seta” a spingere la folla urlante oltre il ponte sul Naviglio, lungo via Sant’ Andrea, il percorso più diretto per raggiungere dal Senato, piazza San Fedele.

Ndr. – Piazza San Fedele allora, era circa la metà dell’attuale. Palazzo Sannazzari (quello che il popolo chiamava “la casa del Prina“) sorgeva nell’area compresa fra le vie Marino ed Agnello. La sua facciata principale, dava in Piazza San Fedele. In realtà il Sannazzari era un edificio demaniale assegnato in uso, come abitazione e ufficio, al Ministro delle Finanze. Uno stretto vicolo separava quel Palazzo dalla facciata del Palazzo Marino, allora usato come Ministero delle Finanze.

 Palazzo Sannazzari, per quegli scalmanati, era il covo della “belva da stanare“, il sicuro nascondiglio dove “l’infame” accumulava i tesori rubati alla povera gente.

Il saccheggio del Palazzo Sannazzari

Pure qui, entrati nel palazzo come un’onda in piena, cercarono ovunque, saccheggiando l’intero caseggiato e distruggendo qualunque cosa capitasse loro a tiro. Si divisero: chi alla ricerca del tesoro che, per convinzione comune, doveva essere sicuramente custodito in quella casa, e chi invece alla ricerca della belva Prina e del suo nascondiglio. Determinati persino a demolire il palazzo, se non avessero trovato lui, almeno quel tesoro doveva saltar fuori!. Buttarono di tutto fuori dalle finestre, in cortile, in piazza e nella via sottostante: suppellettili varie, sedie, mobili, specchi, persiane, finestre, porte! Arrivarono a demolire pure le tegole del tetto, i camini, gettando tutto giù in strada. I più accaniti rovistarono in ogni angolo della casa dalle cantine, alle scuderie, ai piani fino alle soffitte. Nulla! Né Prina, né il tesoro!

Piazza san Fedele- di fronte Palazzo Sannazzari, a destra lo spigolo di Palazzo Marino, a sinistra il colonnato della Chiesa di San Fedele
La sommossa è in corso – Sul tetto del palazzo i manifestanti demoliscono le tegole

Trovato Giuseppe Prina

Fu un falegname della Scala il primo a scovare il Prina. Se ne sarebbe poi vantato per tutto il resto della sua vita! Lo trovò in solaio, nascosto insieme a un inserviente, in uno sgabuzzino buio, rannicchiati entrambi dietro un vecchio mobile. La notizia del ritrovamento dilagò in un lampo. Stanato da lì, lo spogliarono completamente e dopo averlo malmenato, lo sollevarono di peso, scaraventandolo in strada da una finestra del primo piano dell’edificio (lato contrada Tommaso Marino – attuale via Marino) direttamente in pasto alla folla minacciosa accorsa, urlante in via Marino, alla notizia della scoperta.

Disegno defenestrazione del Ministro Giuseppe Prina

Alessandro Manzoni, che allora abitava proprio lì in via Tommaso Marino nel palazzo di fronte, attirato dalle grida della gente, vide dalle finestre di casa sua, tutta la scena rimanendone sconvolto per diversi giorni, incredulo che cattiveria umana potesse arrivare a tanto.

Ndr. – Proprio dalla visione di queste immagini della folla inferocita contro Prina, il Manzoni testimone oculare di quell’assassinio, trarrà spunto per la descrizione dell’assalto alla casa dl Vicario di Provvisione, nel XIII capitolo del suo romanzo Fermo e Lucia (I Promessi Sposi).

Prina terrorizzato, con probabilmente già qualche frattura in corpo a seguito dell’iniziale pestaggio e della caduta dalla finestra, venne ulteriormente preso a calci e pugni dai più scalmanati, infilzato con le punte degli ombrelli, il suo corpo martoriato e sanguinante. Trascinato a terra per i piedi da qualche energumeno, attraversò così tutta la piazza San Fedele, fino a via Case Rotte, in mezzo a due ali di folla minacciosa e urlante.

Polizia inesistente

Quasi nessuno venne in aiuto al poveretto. Della polizia, nemmeno l’ombra! Il suo capo, il generale Domenico Pino, presente sul posto, fece finta di calmare la folla, naturalmente senza successo. Uno dei pochi militari presenti, quel focoso poeta, il capitano Ugo Foscolo, da pochi giorni addetto allo Stato Maggiore, tentò di allontanare i più scalmanati, ma senza successo. A giustificare al prefetto perchè la forza pubblica non fosse intervenuta a protezione del Prina, Domenico Pino addusse la scusa di mancanza di uomini disponibili. Proprio quella mattina infatti, da Varese, gli era stato chiesto l’invio urgente di rinforzi per sedare lì una probabile sommossa, che poi naturalmente non ci fu. Era stato quindi costretto a dirottare su Varese il grosso delle forze disponibili, lasciando totalmente sguarnita la piazza di Milano, mai pensando potesse accadere qualcosa di grave in città, nell’arco di così poche ore.
[Ndr. – Puerile ingenuità del capo della polizia o piuttosto, evidente connivenza con i rivoltosi?]

Il linciaggio continua

Abbadonarono temporaneamente quel corpo martoriato e sanguinante, davanti al sagrato dell’antica chiesa di san Giovanni Decollato alle Case Rotte. Nemmeno il prete di quella chiesa venne a prestargli il minimo soccorso o conforto, anzi sprangò il portone della chiesa, temendo che sottraendolo ai più scalmanati e trascinandoselo dentro, la folla urlante avrebbe pure potuto invadere quel luogo sacro.

Chiesa di San Giovanni Decollato in via delle Case Rotte (a inizio 1900 la chiesa venne demolita)A destra. lo spigolo di Palazzo Marino

Un commerciante di vini della Corsia del Giardino (l’attuale via Manzoni), tal Perelli, preso a pietà, riuscì inizialmente ad offrirgli ospitalità nella sua bottega, trascinandolo dentro e nascondendolo dietro a delle botti. Fu tuttavia lo stesso Giuseppe Prina a consegnarsi poco dopo alla folla inferocita, per evitare che la bottega del negoziante venisse distrutta a sua volta, e che vi fossero altre vittime.

Il linciaggio con gli ombrelli

Tralasciando i dettagli troppo crudi, dopo quattro ore di linciaggio con gli ombrelli, nel breve tratto di strada tra la Corsia del Giardino e la zona antistante il Teatro alla Scala [Ndr. – Allora Piazza della Scala non esisteva ancora] il corpo martoriato del Ministro delle Finanze era praticamente irriconoscibile. Legato per i piedi ad una tavola di legno, si divertirono a trascinarlo nelle pozzanghere e nel fango, verso il Cordusio.

Ancora agonizzante, qualcuno voleva addirittura bruciarlo vivo … per fortuna l’arrivo in forze (molto tardivo) di un contingente di polizia a cavallo (probabilmente appena tornato da Varese) evitò quell’ulteriore scempio. Nel fuggi fuggi generale dei più agitati, il corpo del Prina, rimase abbandonato lì per terra, morente.

La morte del Prina

Secondo quanto riportato, nel 1874, dallo storico Carlo MorbioGiuseppe Prina spirò in via Broletto e il suo cadavere fu trascinato e abbandonato sul sagrato della chiesa di San Tomaso in Terramara nella medesima via. Aveva solo quarantotto anni!

21 aprile – giovedì

Nella notte il Consiglio Comunale dichiara decaduto il viceré e istituisce una “Reggenza provvisoria” formata da Giberto Borromeo, Alberto Litta Visconti Arese, Giorgio Giulini della Porta, Giovanni Bazzetta, Giacomo Mellerio affidandone la presidenza al senatore Carlo Verri e il comando militare al generale Domenico Pino. La Reggenza, riunitasi nel palazzo di Corso Monforte (dov’è oggi la Prefettura) decide d’inviare dei delegati agli austriaci, chiedendo l’occupazione della città.

All‘alba del 21, la teppaglia aveva ripreso il saccheggio e la demolizione sistematica della casa del Prina nella speranza di riuscire a trovare il tesoro inesistente. Restò naturalmente a mani vuote! Nessuno riusciva a capacitarsi che la belva, era stata molto più onesta di quanto lo sarebbero stati loro stessi, al posto suo.

Il palazzo semi distrutto non fu mai più ricostruito; il completamento della sua demolizione permetterà l’allargamento della piazza San Fedele, alla dimensione attuale.

La salma dello sventurato Ministro trovò infine sepoltura al Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina. La tradizione vuole che nei giorni successivi all’assassinio fossero apparsi all’ingresso del cimitero i seguenti versi:

PER L’OCCULTA PIETÀ DI UOMINI ONESTI
GIACCIONO QUI DEL PIÙ FEDEL MINISTRO
I MASSACRATI MISERANDI RESTI.

Anche a molti anni di distanza da quell’evento, gli storici non sono ancora concordi nell’esprimere un giudizio univoco sulla responsabilità dell’assassinio del Prina e degli altri avvenimenti di quella giornata. Vi è chi, come lo storico Carlo Giuseppe Guglielmo Botta (1766 – 1837) nella sua Storia d’Italia dal 1789 al 1814, è convinto della totale responsabilità del conte Federico Confalonieri (capobanda della marmaglia urlante) e chi, come Antonio Casati, è sicuro invece che gli istigatori del linciaggio sarebbero stati degli emissari della polizia austriaca, che avevano aizzato la plebe contro il Ministro delle Finanze.

Il popolo non aveva ancora finito la sua sete di vendetta e si aggirava dalle parti di palazzo reale. Solo che ora, a protezione del palazzo c’era la guardia civica con le baionette in canna pronte a respingere qualunque attacco.

22 aprile – venerdì

I Collegi elettorali, convocati dal podestà Antonio Durini, aboliscono il Senato.

26 aprile – martedì

Firma a Mantova dell’abdicazione del vice-re Eugène de Beauharnais.
Il commissario Annibale Sommariva prende possesso della Lombardia a nome del generale Bellegarde.

Dopo i disordini milanesi del precedente mercoledì, culminati col linciaggio del Ministro delle Finanze, Beauharnais capì di non avere più l’appoggio della popolazione, poiché la gente lo identificava con i detestati francesi.

“Non voglio regnare su un popolo di assassini” con queste parole il viceré Eugène de Beauharnais firmò la propria abdicazione, partendo poi il giorno successivo per raggiungere, il 4 maggio, la corte dei suoceri, i Wittelsbach, a Monaco di Baviera.

Circolava a Milano questa satira popolare: «

El vicerè l’ è tutt affacendaa
a fa fagott de quel che n’ ha robaa;
che se nol fuss per la Viceregina,
el fariss anca lu la fin del Prina

Il Vicerè è tutto affaccendato
a far fagotto di quello che ha rubato
che se non fosse per la viceregina
farebbe anche lui la fine del Prina.

Andandosene Eugenio, finiva anche l’indipendenza, sia pure apparente, dell’Italia Settentrionale.

28 aprilegiovedì

Gli austriaci, al comando del generale Adam Albrecht von Neipperg, entrano a Milano da Porta Romana.

Anche se non legalmente ancora decaduto, da questo momento il Regno d’Italia praticamente cessava di esistere e tornava ad essere il vecchio Lombardo-Veneto austriaco di vent’anni prima.
Il 25 maggio, assumendo la presidenza della Reggenza del governo provvisorio, Heinrich Johann Bellegarde proclamava a Milano la cessazione anche legale del Regno.

Conclusione

La tragica vicenda dell’assassinio del Prina, divenuta proverbiale a Milano, “l’ha faa la finn del Prina” (ha fatto una ben misera fine), fu oggetto di diverse opere letterarie. La più conosciuta fra queste è il “Sogn “(Sogno, noto anche come Prineide) un poemetto, in milanese, composto da Tommaso Grossi. Per qualche tempo Prineide fu ritenuto di Carlo Porta, che ebbe per questo scritto anche dei fastidi giudiziari con le autorità austriache. In esso il poeta si immaginava di incontrare lo spirito inquieto del Prina, che gli domandava, polemicamente, che cosa i milanesi avessero ricavato dalla sua uccisione. Quest’opera è stata considerata da Stendhal e da molti romantici, il più bel componimento della poesia moderna. Si ricorda inoltre una pièce teatrale di Gerolamo Rovetta, intitolata Principio di secolo (prima rappresentazione il 17 ottobre 1896).

Onoranze e intitolazioni

Il Comune di Milano ha voluto onorare la memoria del ministro Prina con un medaglione nel Famedio del Cimitero Monumentale, e dedicandogli una via (una traversa di corso Sempione).

Il Comune di Novara, in occasione del bicentenario della nascita del suo concittadino, ha fatto porre sulla facciata della casa dove nacque (in via del Carmine a Novara), una lapide a firma della “famiglia nuaresa” in ricordo di quel terribile linciaggio.


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