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Fede Galizia

Tra il Cinquecento e il Seicento, si è assistito ad una attività creativa tutta al femminile, che ha fatto emergere artiste donne, caso allora non comune, in un mondo maschile, e anche un po’ maschilista, come quello dell’arte. Nel tardo Rinascimento il talento artistico femminile rimaneva una prerogativa perlopiù dilettantistica e l’arte veniva praticata dalle donne, o in chiostri e conventi o nella casa paterna.
Numerosi erano stati gli ostacoli che impedirono alle donne di diventare artiste indipendenti: molto era dovuto al sistema educativo in vigore fino al Cinquecento inoltrato che, per l’istruzione femminile, prevedeva precetti religiosi, nozioni di lettura, scrittura e calcolo, e attività ritenute tipicamente femminili, come il cucito e la tessitura, oltre ai doveri legati al matrimonio e alla maternità. Pesavano anche ragioni di carattere pratico, per esempio, l’impossibilità di studiare il corpo maschile dal vero, attività che alle donne dell’epoca, era proibita (l’unico modo che avevano per esercitarsi sull’anatomia, era copiare dai gessi, dalle sculture o dalle stampe). Seppure a piccoli passi, prese avvio un nuovo contesto artistico e sociale, in cui diverse donne ruppero con la tradizione patriarcale della bottega d’artista e fecero della pittura, il loro mestiere. Una di queste fu Fede Galizia.

Le sue origini

Se sono ancora incerti il luogo e la data di nascita, la sua origine è sicuramente trentina; il padre Nunzio visse e lavorò a Trento svolgendo la sua attività in diversi campi dell’arte, fino a quando nel 1573 si trasferì a Milano con la famiglia. Padre e figlia mantennero sempre uno stretto legame con la città di Trento confermato nell’immagine di apertura dove Fede Galizia è immortalata tra i dieci busti in cotto, scolpiti sulle arcate della facciata del Palazzo Ranzi a Trento e dove nelle bifore del piano ce ne sono altri cinque, tutti protagonisti della cultura trentina tra Cinquecento e Ottocento, anche se la loro attività si svolse in altri luoghi. La presenza dell’effige di Fede Galizia è un giusto e tangibile riconoscimento a un personaggio di grande spessore artistico e morale.

Facciata Palazzo Ranzi a Trento

Fede Galizia (Milano 1578?-1630) e le altre

Tra le pittrici italiane che hanno lasciato un segno nella storia dell’arte ottenendo fama e successo, si ricordano Sofonisba Anguissola (1532-1625), Lavinia Fontana (1552-1614), Artemisia Gentileschi (1593-1653), Elisabetta Sirani (1638-1665), ecc., ma forse, ai più, potrebbe essere sfuggito il nome di Fede Galizia pittrice milanese, morta di peste a soli 52 anni. A rendere omaggio a quest’ artista ci hanno pensato due mostre: “Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600” Palazzo Reale a Milano e “Fede Galizia. Mirabile Pittoressa” al Castello del Buon Consiglio a Trento.
Se quella di Trento è stata la prima mostra monografica dedicata a Fede Galizia, quella di Milano ha ospitato una grande esposizione, dedicata alle signore dell’arte attive tra Cinquecento e Seicento, a testimonianza di un’intensa vitalità creativa, tutta al femminile. I due eventi hanno ottenuto un grande successo di critica e di pubblico, come un dialogo a distanza, puntando su allestimenti che hanno messo in evidenza la multiforme varietà della produzione di Fede Galizia, che ben figurava con quella delle altre artiste più conosciute, permettendo una giusta rivalutazione delle sue qualità artistiche. Catalogata principalmente nell’indice dei naturamortisti italiani di fine ‘600, buona parte delle opere esposte hanno dimostrato anche le sue abilità come pittrice e miniaturista completa attraverso ritratti, pale d’altare e altro.
L’artista non appartenne ad alcuna scuola, ma nella sua cultura autodidatta confluirono tutti gli spunti della tradizione lombarda e del panorama artistico contemporaneo: il tardo manierismo emiliano, la ritrattistica borghese di Lorenzo Lotto e di Giovan Battista Moroni, la pittura sacra di G.B. Crespi e di Giulio Cesare Procaccini.

Una vita breve ma intensa dedicata all’arte.

Le informazioni sulla figura di Fede Galizia sono poche e molto generiche. Il padre Nunzio, artista trentino impegnato in diversi settori (miniaturista, costumista e cartografo), per motivi legati alla sua attività, intorno agli anni Settanta, si trasferisce con la famiglia da Trento a Milano ma non è ancora chiaro se Fede fosse già nata; secondo alcuni esperti, si ritiene che la data ufficiale resti il 1578 e che, con tutta probabilità, nacque a Milano. È nella bottega milanese del padre, che apprende tutte le nozioni utili alla sua futura attività artistica. Fin da giovane, Fede, è già apprezzata pittrice di ritratti importanti eseguiti su commissione. Il suo stile asseconda la tradizione naturalistica del tardo Rinascimento italiano e, in particolare, quello lombardo. Nonostante il successo in vita, il ricordo di Fede Galizia sbiadì nel tempo, anche per via della difficoltà nel catalogare e attribuire correttamente tutte le sue opere molte delle quali furono andate perdute. Solo negli ultimi decenni del Novecento la sua figura è stata rivalutata e studiata, portando alla luce una storia artistica di tutto rispetto che non poteva essere dimenticata.

Della sua vita privata, non si sa molto se non che rimase nubile e che visse sempre a Milano nella casa del padre. Quando nel 1630 la grande peste, di manzoniana memoria, colpì gli abitanti di Milano, anche Fede Galizia ne rimase vittima e, poco prima di morire, a soli 52 anni, lasciò un dettagliato testamento riguardo il suo patrimonio artistico che comprendeva una cospicua quadreria personale, copie di dipinti famosi, ritratti, nature morte e pale d’altare, che lasciò in gran parte ai padri teatini della chiesa di Sant’Antonio Abate di Milano ai quali era molto legata.

La chiesa di Sant’Antonio Abate

Facciata Chiesa Sant’Antonio Abate, Milano

Affacciata sull’omonima via con un sobrio e quasi spoglio prospetto neoclassico, la chiesa svela al suo interno, una ricchezza decorativa inaspettata che ne fa uno dei gioielli del Barocco lombardo in Milano; l’interno è a una sola navata, ricoperta da una volta a botte e ricca di stucchi, marmi, dorature, affreschi e dipinti degni di attenzione. Edificata nelle forme attuali, dall’ordine dei Teatini, a partire dalla fine del Cinquecento, questo tempio milanese deve le sue origini ad un precedente complesso di edifici quattrocenteschi, comprendente la chiesa, i chiostri, la torre campanaria ed un ospedale, occupato, già a partire dalla prima metà del Trecento, dall’ordine francese degli Antoniani.

Chiesa S. Antonio Abate, interno: un maestoso colpo d’occhio verso l’altare
Chiesa S. Antonio Abate, interno: organo a canne suonato da Mozart durante uno dei suoi soggiorni a Milano tra il 1770 e il 1773

Natura morta. Per Fede, una scelta obbligata

Durante gli anni di gioventù dell’artista, Milano è una città in fermento ma è tenuta a bada dalle prediche del cardinale Carlo Borromeo (1538-1584), che si occupa di vedere eseguite le stringenti direttive che il Papato impone su ciò che concerne le abitudini di ogni fedele, emanate dal pontefice nel Concistoro del 26 gennaio 1564.

Già attribuito a Fede Galizia, “Congregazione Concilio di Trento nella chiesa di Santa Maria Maggiore”, Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, Innsbruck

Dopo il Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa cattolica si trovò a dettare condizioni persino sulla “decenza” delle opere. Il confine morale, piuttosto vago tra ciò che era permesso dipingere e ciò che rappresentava un oltraggio al pudore, costrinse Fede Galizia a dedicarsi alla pittura sul genere della natura morta convinta che le avrebbe permesso di operare con una certa libertà.  Pochi sanno che questo fu il vero motivo che spinse la pittrice a puntare su soggetti di nature morte e non, come erroneamente si potrebbe credere, che fossero solo esercizi stilistici.   Inizia così la sua grande produzione di una serie di opere che l’hanno resa famosa come “naturamortista” considerandola una pioniera di questo settore nonché autrice di un genere nuovo della pittura tardo Manierista, introdotto a Milano intorno alla metà dell’ultimo decennio del Cinquecento, da un pittore di tradizione leonardesca quale Ambrogio Figino (1553–1608). 
Contemporanea di Caravaggio (1571-1610), nelle sue nature morte, Fede Galizia applica, alla maniera dell’artista, una minuziosa attenzione all’ombra, alla luce e ai dettagli e prova a misurarsi tra temi e variazioni inventando diverse composizioni di genere, opere che rappresentano almeno i due terzi del suo catalogo oggi noto.
Parlando di nature morte non si può mancare di citare il capolavoro di CaravaggioCanestra di frutta” ( o Fiscella ) che è probabilmente l’opera più celebre presente nella collezione del cardinale Federico Borromeo, esposta nella Pinacoteca Ambrosiana, ed è giustamente considerata una sorta di prototipo del genere “natura morta”. Essa rappresenta un canestro di vimini da cui traboccano frutti e foglie, il tutto eseguito con grande realismo e attenzione al dettaglio, quasi in contrasto col fondo neutro e astratto del quadro e la linea di colore su cui il canestro stesso è appoggiato. Più volte il fondatore dell’Ambrosiana parla di questo dipinto straordinario nei suoi scritti e afferma di aver cercato invano un’opera che potesse starle a confronto, ma esso “per la sua incomparabile bellezza ed eccellenza, rimase solo”. Diverse sono state le interpretazioni, anche di carattere religioso: indubbiamente l’estremo realismo con cui sono accostati i frutti freschi e quelli ormai bacati, e le foglie che progressivamente seccano accartocciandosi, rendono percepibile lo scorrere inesorabile del tempo.

Caravaggio : Canestra di frutta (Fiscella), 1597-1599, olio su tela cm 46×64, Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Natura morta è un genere artistico che consiste nella raffigurazione pittorica di oggetti inanimati, come fiori, frutta, ortaggi, strumenti musicali, bottiglie o animali morti. Il termine natura morta (still-life) è nato nel Settecento ma in origine era visto con una connotazione dispregiativa, in quanto la raffigurazione di oggetti morti, privi di vita, era ritenuta volgare rispetto alla rappresentazione di oggetti e figure viventi ma, nonostante questo, si diffuse molto rapidamente in tutta l’Europa.

La gran parte dei dipinti a soggetto nature morte realizzati da Fede Galizia sono presentati da alzate, coppe e vassoi ricolmi di frutti e sono per la maggior parte conservati in collezioni private.

Allestimento sala con alcuni dipinti di Nature Morte di Fede Galizia

“Alzata con prugne, pere e una rosa”, 1602 circa, olio su tavola, 30 x 35 cm, collezione privata

Dipinto scomparso, (esiste fortunatamente una replica), che può essere considerato uno dei primi autentici esempi di natura morta e che, di questo genere di pittura, ne coglie le caratteristiche essenziali. La scena è alquanto sobria: l’alzata centrale, una mezza pera, delle prugne dal colore spento, una rosa sull’orlo del disfacimento, e solo la presenza di luci e ombre rendono un’immagine quanto mai “viva”, incurante degli attacchi del tempo.

Cesto di Pesche, 1595?, Castello del Buon Consiglio, Trento
Coppa di vetro con pesche, mele cotogne, fiori di gelsomino e una cavalletta, 1602 circa, olio su tavola, cm 30x35. Collezione privata

Coppa di vetro con pesche, mele cotogne, fiori di gelsomino e una cavalletta, 1602 circa, tavola cm 30 x 35 cm, collezione privata.

Ciliegie in composta d’argento con mele selvatiche su un ripiano di pietra e una farfalla, 1602, olio su tela, cm 28,2 x 42,2, collezione privata

La Ritrattistica

Fin da giovanissima, Fede Galizia si fa apprezzare come ritrattista in tutta Europa. Il realismo e la fisionomica sono le caratteristiche che emergono nei ritratti della pittrice ispirata dai grandi maestri come Giovan Battista Moroni e Leonardo da Vinci.
Attraverso una virtuosa rete milanese di conoscenze nell’ambiente cortigiano e alle amicizie strette con personaggi della cultura, come quella col gesuato dotto e letterato storico Paolo Morigia (Milano 1525-1604), Fede ottenne un successo straordinario tra i committenti e i collezionisti dell’epoca, tanto che alcune sue opere, per diretto interessamento di Giuseppe Arcimboldo, raggiunsero la corte dell’imperatore di Praga Rodolfo II che aveva già precedentemente dimostrato di apprezzare la tecnica pittorica della giovane artista. I contatti con la corte imperiale, con quelli dell’aristocrazia e dell’élite milanese, contribuirono ad amplificare la visibilità della pittrice nel panorama artistico cittadino.


Ndr. – I Gesuati, a differenza dei gesuiti che sono un ordine religioso, sorsero a metà del XIV secolo come confraternita di laici basata sulla spiritualità di Girolamo (Frati Gesuati di san Girolamo): trasformatisi in congregazione religiosa nel 1606 (Chierici apostolici di san Girolamo), vennero soppressi da papa Clemente IX nel 1668.

Grazie all’amichevole rapporto con Paolo Morigia, suo patrono e sostenitore, Fede Galizia venne da lui incaricata di realizzare il suo ritratto. In questa opera sono già evidenti l’abilità di disegno e la sua capacità di pittura. Nel dipinto, il generale dei gesuati appare in tonaca bianca su fondo scuro, in un momento di pausa dal lavoro, colto nell’istante in cui si sfila gli occhiali e guarda la pittrice, mentre lo ritrae. Nel ritratto in questione, Fede manifesta un’impronta stilistica davvero singolare: un’attenzione alla tecnica e una fantasia d’invenzione si ritrovano in particolare nel dettaglio degli occhiali, che l’uomo tiene tra le dita della mano sinistra, sulle cui lenti convesse si riflette una finestra. La tipologia del ritratto, allude al lavoro intellettuale di Morigia: libri, fogli di carta, penna, calamaio e dove viene messo in risalto il suo aspetto di storico erudito autore di libri tra i quali ‘La nobiltà di Milano’, pubblicato nel 1595. La tela esposta in piazza del Duomo poco dopo la sua esecuzione, venne poi acquistata dal notaio Tommaso Buzzi che la donò nel 1670 alla Pinacoteca Ambrosiana.

Curiosità: doppio ritratto a due mani

Jacopo Menochio e sua moglie, Margherita Candiana, in cornice trompe-l’oeil, decorato con allegorie della Giustizia e della Prudenza”, 1605-1606, olio su rame e tavola, 25,7 x 31,4 cm, collezione privata.

Cornice trompe-l’oeil: termine francese che, tradotto, significa letteralmente “inganna l’occhio” e si riferisce a quella tecnica pittorica che, facendo uso sapiente della prospettiva e del chiaroscuro, riesce a far percepire erroneamente all’occhio umano la tridimensionalità ciò che in realtà è dipinto in modo bidimensionale.

Jacopo Menochio, importante personaggio dell’epoca (Pavia 1532-1607) fu uno stimato insegnante, avvocato e diplomatico e, come si nota nell’iscrizione intorno all’immagine, fu eletto senatore di Milano nel 1592. Secondo la convenzione sui ritratti coniugali, il marito appare alla sinistra di sua moglie ma , sebbene raffigurino una coppia sposata, Fede ha completato i due mini-ritratti separatamente: l’uomo all’età di 74 anni nel settembre 1605 e la donna all’età di 64 anni nell’ottobre 1606.
I due ritratti in miniatura dipinti da Fede “incassasti” nella complessa ed elaborata cornice decorativa, realizzata dal padre Nunzio, è il lodevole risultato di una fattiva collaborazione tra padre e figlia e sta a dimostrare la bravura della famiglia Galizia per lo stile manierista e la precisione nei dettagli che compongono l’intera opera.

Giuditta e Oloferne: episodio biblico visto con occhi diversi

Giuditta è l’eroina dell’episodio biblico del Vecchio Testamento, largamente affrontato, rappresentato e reinterpretato da molti artisti /artiste, dove violenza e seduzione sono protagoniste di scene per lo più drammatiche e cruente come, ad esempio, nei dipinti di Caravaggio e Artemisia Gentileschi mentre Fede Galizia propone la scena totalmente diversa.
La storia di Giuditta e Oloferne, molto nota, è raccontata nella Bibbia: durante il regno di Nabucodonosor, Giuditta, una bella ricca vedova ebrea , abitante di Betulia, la città posta sotto assedio per lungo tempo dal generale assiro Oloferne, decide di salvare la sua città prima che quest’ultima si arrenda alla completa sottomissione. Una notte si veste elegantemente e, accompagnata da una serva, passa in territorio nemico, fingendo di voler tradire i suoi concittadini ma con l’intento di sedurre il nemico per poi ucciderlo. Oloferne cade nel tranello e la accoglie con gioia, convinto della facilità di poterla possedere carnalmente. L’uomo organizza, in suo onore, un lussuoso banchetto durante il quale Giuditta lo porta a raggiungere il massimo della ubriacatura, ed è a questo punto che lei si introduce nella sua tenda con la serva e, usando la stessa arma del nemico, con due colpi netti, gli stacca coraggiosamente la testa, la avvolge in un panno e, trionfante, la porta in mostra al suo popolo. Gli assiri, rimasti sconvolti dalla drammatica fine del loro generale, lasciano la città mentre il popolo, liberato, esulta per il gesto coraggioso della loro eroina.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1599 ca, olio su tela, cm 145×195, Palazzo Barberini, Roma

Fin dal ‘400 l’episodio è un’iconografia frequente, ma non era mai stata rappresentata con tale cruenta spettacolarità come in questo dipinto. Qui la scimitarra è in pieno affondo, l’uomo reagisce con forza , ma inutilmente. Caravaggio, con pochi elementi, dipinge una scena altamente drammatica dove i tre personaggi, e un drappo rosso sullo sfondo , creano un effetto teatrale dei contrari : Buio e Luce, Vecchiaia e Giovinezza, Vita e Morte, Forza e Fragilità.

Artemisia Gentileschi Giuditta decapita Oloferne, 1612 o 1617, olio su tela, cm 159×126, Museo Real Bosco di Capodimonte , Napoli

Dipinta in due versioni: questa, conservata a Napoli, e un’altra a Palazzo Pitti a Firenze, è una rappresentazione cruente riconducibile a un episodio della vita dell’artista: l’aggressione e lo stupro da parte di Agostino Tassi (Roma, 1578 – 1644) un pittore, collega del padre di Artemisia, Orazio Gentileschi (Pisa, 1563 – Londra, 1639), che frequentava abitualmente la loro casa. In un giorno di maggio del 1611, approfittando dell’assenza di Orazio si era introdotto con la forza nella camera di Artemisia e, mentre lei era intenta a dipingere al suo cavalletto, l’aveva violentata. Ne seguirono vari processi. Artemisia, che all’epoca aveva appena diciassette anni, fece la sua deposizione denunciando l’aggressione con la conseguente perdita della verginità e intaccando l’onore della sua famiglia. Di certo tutto questo l’avevano segnata profondamente. La terribile esperienza ha influito sulla sua attività artistica intrisa di scene dense di violenza entrate a far parte della sua autobiografia.

La “Giuditta” secondo Fede Galizia: tante versioni. Simili ma non uguali

Fede Galizia, tre delle sue Giuditte eccezionalmente raggruppate alla mostra di Trento, simili ma non uguali

Come accennato più sopra, del tutto particolari sono le Giuditta della pittrice milanese che ne esalta la bellezza , presentandola come un simbolo di forza e di libertà contro l’oppressore, mentre fiera mostra il capo mozzato del nemico, raccolto dall’ancella in un bacile dorato.

Un soggetto che Fede Galizia affronta più volte realizzando più esemplari, (si pensa fossero almeno cinque) con la medesima immagine, apportando piccole variazioni, utili a verificare i gradi di autografia, all’interno di una produzione, che ne accerta l’autenticità e la serialità. Nelle sue Giuditte è interessante soffermarsi sulla lussuosa “componente sartoriale” dei dipinti, da leggere in relazione alle attività teatrali scenografiche condotte dal padre Nunzio e da Fede stessa.

È la prima opera, e forse la più nota, che Fede, non ancora ventenne, dedica all’episodio biblico e pare che la protagonista sia un suo autoritratto. Firma e data sono incise sulla spada del nemico utilizzata, da Giuditta per portare a termine la sua missione sanguinaria. Altre artiste amavano rappresentarsi in questa importante figura per sottolineare la propria forza e autonomia rispetto al mondo maschile. Di fianco a lei la serva Abra, la cui immagine grottesca crea un forte contrasto con la bellezza dell’assassina.

L’abbigliamento dell’eroina , in tutte le varianti, è sempre lo stesso ma con piccoli ritocchi: una camicia bianca aperta con ampia scollatura, un corpetto di broccato dorato chiuso da lacci, una cintura d’oro ornata di pietre preziose, la collana di perle a filo doppio, il braccialetto con perle, rubini e smeraldi, gli orecchini di perle a goccia, l’acconciatura curata e impreziosita da ornamenti.

Dettaglio: probabile Autoritratto

Da notare, nei vari dipinti, l’accuratezza dei ricami e delle decorazioni, affrontate con un pennello da miniaturista, evidentemente una tecnica appresa attraverso gli insegnamenti del padre, noto miniatore. Anche la perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con una cura meticolosa, derivava dall’attività del padre Nunzio che a Milano realizzava abiti e costumi di lusso per i signori.

Giuditta con la testa di Oloferne, 1601, olio su tela, cm 141x108, collezione Galleria Borghese, Roma
Fede Galizia, Giuditta con la testa di Oloferne, 1601, olio su tela, cm 141×108, collezione Galleria Borghese, Roma

Anche in questa versione l’eroina è ritratta priva di emozioni, impenetrabile, fiera della sua azione, sontuosamente abbigliata, ingioiellata e acconciata. Nel 1893, in seguito ad un restauro non documentato, si rinvenne la data e la firma della pittrice sul bordo del catino, retto dall’ancella, dove appoggia la testa insanguinata del generale Oloferne.

L’Arte Sacra

A differenza di altre artiste donne del tempo questa pittrice ottenne importanti commissioni di pale d’altare, prerogativa all’epoca tutta maschile.
Ebbe un rapporto privilegiato con i padri Teatini (ordine clericale dei Chierici Regolari) dai quali ricevette l’incarico di realizzare opere e decorazioni per la loro chiesa Sant’Antonio Abate a Milano. Legata da stima e affetto per i padri Teatini, l’artista dipinse uno ieratico San Carlo Borromeo che regge la croce con il Santo Chiodo (oggi nel Museo del Duomo). La Nivola … un ascensore per il paradiso


Il Santo Chiodo nel
Duomo di Milano. Si tratta di una delle più venerate reliquie legate alla Passione di Cristo custodita dalla Chiesa ambrosiana fin dal tempo di Ambrogio e oggetto di una particolare devozione da parte di Carlo Borromeo. È uno di quei ferri che, secondo le Sacre Scritture, trafissero le carni del Cristo inchiodandolo alla croce. Da secoli, per volontà di san Carlo Borromeo devotissimo al mistero della Passione, una volta all’anno il Santo Chiodo viene abbassato dall’alto del suo altare, dove è custodito, per essere esposto per tre giorni alla devozione popolare all’interno del Duomo.

San Carlo in estasi davanti alla Croce con la reliquia del Santo Chiodo,1611, olio su tela, San Carlo alla Montella, Napoli

Ormai nota e apprezzata dai suoi contemporanei, a Fede viene espressamente richiesta, per la nuova Chiesa delle Mortelle di Napoli, la pala del Santo milanese in estasi. Il quadro, firmato e datato 1611, donato alla chiesa napoletana nel 1614, può essere visto come un esemplare emblematico della cultura controriformata milanese di inizio secolo. Fede Galizia, oltre all’aspetto e al significato religioso, dà il suo meglio nella tovaglia d’altare finemente ricamata e nello splendido piviale del santo. Dall’assoluta preminenza delle stoffe (qui come altrove) è lecito supporre che la pittrice sfruttasse la valenza decorativa del tessuto per impreziosire le immagini nell’austero clima postridentino.

San Carlo in processione con il Sacro Chiodo, 1623-1625 circa, olio su tela, cm 216×121, Museo e Tesoro del Duomo Milano

Questo dipinto merita una segnalazione particolare. Originariamente collocato nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Milano, e oggi conservato presso il Museo del Duomo, mostra San Carlo a piedi nudi e in abiti penitenziali: il volto del santo, pur mostrando la partecipazione alle sofferenze del popolo che gli è stato affidato, si distende già in un sorriso di speranza, gli occhi fissi sulla preziosa reliquia, mentre un raggio di sole dal cielo sembra già annunciare la fine della pestilenza. Notevole, da un punto di vista documentario, la rappresentazione sullo sfondo dove, a sinistra, si nota il Duomo di Milano così come doveva apparire all’inizio del XVII secolo, che rispecchia l’aspetto dell’antica cattedrale di Santa Maria Maggiore, un’immagine che oggi rimane nello stemma della Veneranda Fabbrica del Duomo. La tela descrive un evento avvenuto il 5 ottobre 1576, vale a dire l’ultima delle tre processioni indette da San Carlo Borromeo per favorire il termine della peste. Il Santo avanza lentamente con una fune al collo ed il capo coperto, contempla il Sacro Chiodo che si trova dentro la teca della Croce. E’ una immagine di intenso patimento, in linea con le istanze controriformistiche, che viene enfatizzata dal particolare del piede in cui la ferita insanguinata rimanda ad un incidente avvenuto durante la prima processione.

Piviale: detto anche pluviale, cappa, mantus, è un’ampia e sontuosa veste liturgica a forma di grande mantello. Aperta sul davanti, è fermata sul petto da un fermaglio è indossato dal sacerdote o dal vescovo per le funzioni solenni, specialmente durante le processioni. La sua forma deriva dai grandi mantelli romani utilizzati per proteggersi dalla pioggia. Di forma semicircolare, avvolge il sacerdote fino ai piedi ed è attaccato al collo da una fibbia detta fibula.

Noli me tangere, 1616, olio su tela, cm 313×199, Pinacoteca di Brera, Milano

Nell’arte il tema della Resurrezione di Cristo ha ispirato diversi pittori dal tardo Medioevo al Rinascimento e anche Fede Galizia ha realizzato una pala d’altare , oggi esposta alla Pinacoteca di Brera.
L’episodio del Vangelo, legato alla locuzione ” Noli me tangere” e comunemente tradotto in “Non mi toccare”, è riferito alla frase detta da Gesù a Maria Maddalena, subito dopo la risurrezione, (Vangelo di Giovanni 20,17), ma la traduzione ha sollevato qualche dubbio fra alcuni studiosi biblici ritenendo più consono ”Non mi fermare” oppure “Non mi trattenere”; l’eventuale ragione di questa presa di distanza può essere dovuta alla traduzione imperfetta dal greco al latino della frase che accompagna la locuzione, e cioè “ …perchè mi urge di salire al Cielo, vicino al Padre mio ma va dai mie fratelli...”. Cadrebbe quindi l’interpretazione tradizionale più usata “Non mi toccare”.
La pala, realizzata per l’altare maggiore della chiesa pubblica di Santa Maria Maddalena di Milano, soppressa nel 1798, dopo essere stata adattata e restaurata, pervenne alle Gallerie dell’ Accademia di Brera il 10 luglio 1809.
L’opera, appartenente alla produzione sacra di Fede Galizia, propone l’episodio evangelico del “Noli me tangere” in modo originale e raffinato con una stupenda Maddalena. Ai piedi di Cristo si nota il cartiglio con data e firma (Fede Galizia figlia di Nunzio Galizia tridentino fece in anno 1611), e , contrariamente a quanto descritto nel vangelo di San Giovanni, Gesù risorto appare avvolto solo nel sudario, e non nella veste di giardiniere come riportano fedelmente anche i dipinti di altri artisti.

Conclusione

Attiva nella Milano della Controriforma, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, Fede Galizia è, non solo Naturamortista‘, ma oggi viene identificata anche come ‘Mirabile Pittoressa, Pioniera dell’Arte,Amazzone della Pittura, Artista poliedrica‘. Espressioni queste, che racchiudono l’essenza dell’arte in cui le, si riconoscono bravura e fama giustamente meritate! Figura complessa e riccamente sfaccettata, Fede Galizia fu tra le prime donne in Europa ad intraprendere una carriera indipendente. Artista colta, attenta, apprezzata e richiesta dai contemporanei, fu capace, nella sua breve vita, di cimentarsi, con esiti di notevole qualità, nei generi più diversi. Restò nubile per dedicarsi esclusivamente all’amore per l’arte lavorando con umiltà in una Milano soggetta ai cambiamenti della Controriforma che, in parte, condizionarono il suo percorso artistico. Le mostre di Trento e Milano sono state un valido contributo per conoscere meglio un’artista milanese di tutto rispetto.


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