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Pattari, la via degli “straccioni”

Premessa

Ebbene si, pare assurdo, ma sembra fosse proprio cosi! La vita economica di Milano, durante l’età comunale e soprattutto in seguito, ai tempi della Signoria e del Ducato, fu dominata dalle corporazioni di arti e mestieri. Se ci si fa caso, sono infatti diverse le vie del centro città che conservano tuttora il nome della corporazione che svolgeva, in quella contrada, la propria attività: ad esempio via Spadari, via Armorari, via Speronari, via Mercanti, via Orefici, via Cappellari e non ultima, proprio via Pattari. Come tutti gli altri, anche la corporazione dei Pattari (straccivendoli e venditori di cianfrusaglie) aveva i suoi ordini ed i suoi statuti!

Perché faccio riferimento a questa via? Perché ad essa, sono legate alcune delle pagine più curiose ed importanti della storia della Milano medievale. Oggi è la prima traversa a destra di corso Vittorio Emanuele, verso San Babila. E’ una via pedonale discreta, abbastanza stretta, non molto frequentata, con delle case quasi tutte del primo dopoguerra, pochi negozi, un ottico, una libreria, una valigeria qualche bistrot, un albergo. strada questa che figura come il prolungamento di via Agnello, collegando Piazza Fontana a corso Vittorio Emanuele II, proprio a due passi dal Duomo. Sempre lì, vi è anche la Piazzetta Pattari, un po’ più animata per la presenza di ristorantini, caffè ecc., che, parallela a corso Vittorio Emanuele II, unisce fra loro la via Pattari, con via Cesare Beccaria.

Mappa dell’area intorno a via Pattari

Frammenti di storia medioevale

Poco dopo l’anno 1000, il clero milanese aveva iniziato a lasciarsi andare a costumi morali un po’ troppo “rilassati”. Essendo la vocazione, una parola a quei tempi totalmente sconosciuta, era infatti molto frequente che, a fronte di cospicue somme di danaro, si facesse uno spudorato commercio di cariche ecclesiastiche (la cosiddetta simonia) e di titoli onorifici vari. Inoltre, cosa che era indubbiamente motivo di maggior scandalo, e giudicata da tanti, assolutamente intollerabile, è che la maggior parte dei preti non solo prendesse moglie, cosa, tutto sommato, ancora accettabile, ma che questi ultimi, oltre ad essere sposati, conducessero pure un’intensa attività extraconiugale. Fu allora che, nel tentativo di contrastare queste licenziosità, una parte del clero stesso, particolarmente vicino alla sensibilità della Chiesa romana dell’XI secolo, diede vita ad un movimento (la pataria) che fece numerosi proseliti pure fra i milanesi laici (“pàtari” o “pàtarini”) tendente a ricondurre la Chiesa, e particolarmente le sue più alte cariche, sulla retta via della morale e della povertà evangelica.

Ndr. – simonìa, come termine, deriva dal nome di Simone Mago, il samaritano che, secondo gli Atti degli Apostoli 8, 18-24, cercò di comprare dagli apostoli Pietro e Giovanni, offrendo loro del denaro, il potere di conferire i doni dello Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani. [rif. Treccani]

L’esperienza patarinica, durata in tutto un ventennio, ben lontana dall’essere considerata un’eresia, va vista come movimento riformatore della Chiesa milanese, sostenuto dal popolo e come vedremo, appoggiato pure dal papato. 

Etimologia del termine “pàtari” o “patarini”

Poiché appare incerta l’origine di questa denominazione, le ipotesi sono diverse:

  • Lo storico e scrittore Ludovico Antonio Muratori, asserisce che tale nome deriverebbe da“pattée”, vocabolo dialettale con cui i milanesi usavano chiamare gli straccivendoli ed i venditori di cianfrusaglie. Secondo questa interpretazione pertanto, dire “pàtaro”, sarebbe un modo offensivo per dire “straccione”.
  • Altra versione, vuole che il nome prenda origine dal termine milanese “Patta”, cioè quel rettangolo di stoffa con bottoni che chiude i pantaloni sul davanti.
  • Il cronista Arnolfo, giustificherebbe invece il termine come derivato dal greco πάθος, pàthos, nel senso di “perturbazione”, e quindi i pàtarini, secondo lui, sarebbero stati “perturbatori” dell’ordine.
  • Per Federico II Hohenstaufen, duca di Svevia, re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, i “pàtari” sarebbero stati i seguaci di una setta che deriverebbe la propria denominazione (apparentemente da pàthos) da coloro che sono “pronti al patimento, a modo dei martiri, che affrontarono il martirio per la fede cattolica”.
  • Altra ipotesi fantasiosa, per Pietro di Vaucernay, è quella secondo cui il loro nome sarebbe derivato da Pater Noster, perché gli appartenenti al movimento si caratterizzavano per una ripetizione quasi ossessiva di questa preghiera.

Sembra che, oltre agli straccivendoli, anche i contestatori della Chiesa corrotta usassero ritrovarsi nella zona dell’attuale via Pattari (nominata così proprio a ricordo della corporazione che operava in quell’area). Non è escluso comunque che diversi di loro esercitassero l’umile professione del cenciaiolo. Questo giustificherebbe il fatto che I loro avversari li chiamavano dispregiativamente “pattari” per indicare proprio “gli ultimi”, per la loro povertà e l’aspetto dimesso.

Ndr – In quell’area, a quei tempi c’era sicuramente un largo spiazzo, per non dire addirittura una distesa di prati. Veniva infatti a trovarsi subito dietro il cimitero alle spalle della zona absidale della cattedrale invernale, la Basilica Vetus (o Minor). Poco oltre, i resti delle Terme Erculee (attuale Corsia dei Servi) nel quartiere Pasquirolo che, come dice lo stesso nome, si chiamava così proprio perché era area di pascolo per il bestiame!

La storia della pataria

Ndr. – Per maggior chiarezza di quanto sto per esporre, riporto qui di seguito l’incredibile elenco di papi che si sono succeduti sul soglio di San Pietro, nell’arco di un cinquantennio nel periodo compreso fra il 1033 e il 1085. Ce ne sono stati ben 13, sette dei quali si sono avvicendati su soglio pontificio, nell’arco di solo 9 anni (dal 1045 al 1054).

Come si può intuire dando un’occhiata al precedente nutrito elenco di papi, l’XI secolo fu decisamente travagliato per la Chiesa Cattolica romana, sia per il continuo cambio della sua guida spirituale, che per il Grande Scisma d’Oriente, avvenuto nel 1054 – sotto papa Leone IX, che determinò la separazione tra le chiese ortodosse in Oriente e la chiesa cattolica romana in Occidente. Altrettanto non può dirsi per la Chiesa milanese, per la quale le cose andarono indubbiamente meglio, con solo tre arcivescovi a gestire le sorti della Diocesi metropolitana nel medesimo arco temporale, ognuno dal lungo episcopato. A quel tipo di stabilità si contrappose tuttavia, una situazione interna molto più precaria, imputabile principalmente ad una generale rilassatezza dei costumi. Tutto questo fu causa di lotte interne, da un lato per mantenere i numerosi privilegi acquisiti, dall’altro per moralizzare una Chiesa profondamente degradata e corrotta, a partire dalle sue gerarchie più elevate, proprio quelle che avrebbero dovuto essere di esempio per tutti.

Origine del movimento (1045)

Tutto cominciò a pochi mesi dalla morte dell’arcivescovo di Milano Ariberto d’Intimiano (16 gennaio 1045) dopo 27 anni di episcopato. Questi aveva lottato per tutta la sua vita, da un lato per mantenere l’indipendenza dall’impero, dall’altro per tenere sottomessi i suoi feudatari minori e poter conservare intatti tutti i suoi privilegi.

Allora, l’elezione del successore alle cariche ecclesiastiche più importanti (papi e arcivescovi) veniva fatta direttamente dall’imperatore del Sacro Romano Impero. Nel caso specifico, l’imperatore era, a quei tempi, Enrico III di Franconia, detto il Nero.
La Chiesa era subordinata all’autorità statale imperiale la cui legittimazione derivava dall’interpretazione della figura del sovrano visto come un signore scelto da Dio e dunque pienamente legittimato nell’intervenire nella società ecclesiastica.

L’assemblea di cittadini milanesi aveva fatto quindi pervenire ad Enrico III la proposta di una rosa di quattro possibili candidati, scelti a ricoprire la carica episcopale dell’arcivescovo defunto. I nomi prescelti erano quelli di Arialdo da Cucciago (divenuto poi santo), Attone (sarebbe diventato arcivescovo molti anni dopo) Landolfo CottaAnselmo da Baggio (futuro 156° papa della Chiesa Cattolica, col nome di Alessandro II).

L’imperatore, fiutando in questo elenco di nomi, qualche possibile interesse di casta, preferì agire di testa propria, scegliendo il nome di un soggetto “super partes”, che veniva cioè dalla campagna. In effetti, i nominativi che gli erano stati suggeriti, erano tutti di esponenti delle famiglie dei milites maiores  (i capitanei, nobili di rango più elevato) che svolgevano la loro opera pastorale, nelle due cattedrali di Milano.
Secondo la politica del divide et impera (dividi e comanda), temendo che l’elezione di uno di tali nomi potesse favorire una “pericolosa armonia” tra le diverse classi sociali, l’imperatore, fornendo il nome di un soggetto totalmente estraneo, intendeva “dividere” i milites maiores, dai  milites minores (i valvassori), e dal resto della cittadinanza, per sfruttare così, a suo totale vantaggio, le divergenze e gli scontri che, inevitabilmente prima o poi, si sarebbero manifestati.

Come riferisce il cronista Arnolfo di Milano, l’imperatore non scelse un membro «nobilis ac sapiens» (nobile e sapiente) del clero ordinario, ma preferì Guido Bianchi da Velate «idiotam et a rure venientem» (idiota e proveniente dalla campagna). Anche se perplessi, i milanesi accettarono il nuovo arcivescovo, da un lato per paura di contraddire l’illuminata volontà dell’imperatore, dall’altro per non fare troppo notare le innegabili frizioni di una parte della popolazione nei confronti dell’altra (i cives contro i milites). Non ultimo, pure il clero accettava quella nomina nella convinzione che, l’elezione del “designato dall’imperatore”, sarebbe andata a loro vantaggio per i benefici che, il nuovo arcivescovo avrebbe loro concesso.

I contrasti fra basso clero, popolo e alto clero a Milano non tardarono a manifestarsi, come del resto previsto, proprio a partire da quell’anno stesso (1045). Ma l’arcivescovo “idiota”, incredibilmente all’altezza del suo compito, riuscì a ricomporre, nei primi anni, senza troppi traumi, i motivi di discordia fra le varie fazioni.

Qualche notizia della decadenza morale dei costumi della Chiesa milanese era persino giunta alle orecchie del papa. Nel sinodo del 1049, nella sua opera moralizzatrice della Chiesa, papa Leone IX aveva espresso pubblicamente il suo pensiero sia contro il matrimonio dei preti, che contro la simonia. Fra le varie disposizioni in materia, aveva vietato ai fedeli la partecipazione alle liturgie officiate da chierici concubinari.

I primi veri problemi per la Diocesi di Milano, cominciarono a manifestarsi a partire dal 1056. A Varese, in quel periodo, un diacono giunto da Milano, tale Arialdo (uno dei quattro nomi che l’assemblea popolare, aveva precedentemente suggerito all’imperatore come soggetto candidabile alla carica di arcivescovo) aveva iniziato, motuproprio, una campagna di predicazione contro i mali della Chiesa e gli errori del clero, cominciando a fare i primi proseliti, particolarmente fra i laici, piccoli proprietari terrieri.

Nell’ottobre di quello stesso anno era morto improvvisamente l’imperatore Enrico III. Non aveva ancora 40 anni! In attesa salisse al trono suo figlio Enrico IV, che all’epoca aveva solo 6 anni, la reggenza del Sacro Romano Impero venne assunta dall’imperatrice Agnese di Poitou (moglie di Enrico III).

Sant’Arialdo (1010 – 1066)

Arialdo in aperto contrasto con l’Arcivescovo

Tornato a Milano, il diacono continuò con le sue prediche, insistendo sul fatto che i preti, per portare la luce della fede ai laici, dovessero maggiormente imitare gli insegnamenti e la vita di Gesù Cristo. Per i loro comportamenti indegni ed i costumi corrotti invece, non potevano più essere considerati un tramite della parola divina, dato che non davano alcun esempio di virtù, ma si comportavano come dei laici.
Risultava quindi evidente che l’arcivescovo di Milano, nonostante i dettami di papa Leone IX, non avesse fatto nulla per tentare, in quegli anni, di ricondurre la Chiesa ambrosiana sulla via della morale, accettando passivamente lo “status quo”.

La prima manifestazione violenta

Forte del consenso che le sue predicazioni stavano riscuotendo fra i fedeli, e sicuro di avere dalla sua, anche il papato, Arialdo si mise in aperto contrasto con l’arcivescovo. La prima manifestazione di massa dei patarini si ebbe il 10 maggio 1057, giorno in cui la liturgia ambrosiana celebrava la festa della traslazione del corpo di s. Nazaro, con una solenne processione, dalla chiesa di S. Celso a quella dei ss. Apostoli. Mentre il popolo aveva iniziato a manifestare intemperanza nei confronti del clero corrotto che stava sfilando lentamente in corteo per le contrade della città, Arialdo fece redigere un “phytacium” (=editto) che imponeva il celibato, costringendo gli appartenenti a tutti gli ordini della Chiesa milanese nicolaita, a sottoscriverlo e, sotto giuramento, ad impegnarsi ad osservarlo.

Ndr. – nicolaismo è la tendenza contraria al celibato ecclesiastico da parte dei cosiddetti nicolaiti. L’accusa di nicolaismo fu rivolta dai papi alla Chiesa orientale perché questa ammetteva il matrimonio dei sacerdoti, compresi quelli insigniti di dignità vescovile. [ rif. Treccani ]

nicolaiti (gr. Νικολαΐται) eretici di Efeso e di Pergamo, censurati nell’Apocalisse (2, 6 e 2, 14-15). Secondo Ireneo prendevano nome da Nicola d’Antiochia, uno dei 7 diaconi di cui parlano gli Atti degli Apostoli
[ rif. Treccani ]

la folla, fattasi ora più violenta ed aggressiva, colse l’occasione dell’editto redatto da Arialdo, per cominciare a farlo subito rispettare allontanando dalle chiese, sia in città che in campagna, tutti i prelati ammogliati e concubinari.

Il papa, informato sui fatti

L’arcivescovo Guido da Velate, che inizialmente non si era reso conto di quanta presa facessero fra la gente, le predicazioni di Arialdo, tentò invano di convincere il diacono ribelle a desistere dall’incitare i laici contro il clero fomentando disordini. Nonostante l’esortazione, rimase ovviamente inascoltato. La lotta dei pàtari continuò e anzi si fece più aspra proprio nell’agosto di quell’anno (1057): approfittando dell’assenza dell’arcivescovo, che assieme ad Anselmo da Baggio, allora vescovo di Lucca, si era recato in Germania dall’imperatrice Agnese di Poitou, cominciò a dilagare da Milano alla provincia. Il clero ambrosiano, non riuscendo ad avere valido aiuto dai vescovi suffraganei della sede metropolitana milanese, decise allora di rivolgersi direttamente al nuovo papa Stefano IX, inviandogli una delegazione per informarlo di quanto stava accadendo a Milano e provincia, nella speranza assumesse una posizione più decisa contro quel diacono dissidente ed i suoi seguaci. Nonostante il papa tedesco riconoscesse che Arialdo, col suo operato, stesse seguendo rigidamente i dettami del papato, la sua posizione nella vicenda fu attendista, decidendo di non decidere. Non volle schierarsi contro le condivisibili posizioni di Arialdo, né volle indispettire la delegazione milanese che lo aveva informato degli eventi. Per non scontentare nessuno, deluse un po’ tutti, non condannando Arialdo agli occhi della delegazione, e limitandosi a fare unicamente un distinguo fra l’amoralità dei preti concubinari, che condannò, e quella di coloro che erano sposati, che viceversa tollerò. Nel contempo, invitò Arialdo a concentrare maggiormente la sua battaglia non tanto a favore del celibato (considerando il matrimonio dei preti, un male minore) quanto contro la simonia, allora vista come vera e propria eresia trinitaria, in quanto tendeva a minimizzare l’autorità dello Spirito Santo.

Papa Stefano IX

Convocazione di un sinodo provinciale

Per la soluzione del problema del celibato, Stefano IX, suggerì all’arcivescovo milanese Guido da Velate, di convocare un concilio  provinciale, nella convinzione che sarebbe riuscito a risolvere per il meglio la questione col proprio clero. In effetti Guido convocò nel novembre 1057, un Sinodo a Fontaneto d’Agogna vicino a Novara, ma con scopo esattamente opposto a quanto suggerito ed auspicato dal papa, intendendo sancire una volta per tutte, la condanna del fenomeno dilagante della pataria. Vennero ovviamente convocati sia Arialdo che il suo braccio destro, un chierico suo sostenitore, iscritto all’ordine dei notai. Si trattava di quel Landolfo Cotta il cui nome, al pari di quello dell’amico, era stato proposto anni prima all’imperatore Enrico III il Nero, per la carica di arcivescovo.
I due, non credendo alle dichiarate finalità del sinodo e paventando una trappola, si guardarono bene dal presentarsi. La loro convocazione infatti era stata richiesta non certo per promettere loro che d’ora in poi, il celibato sarebbe stato rispettato, ma per catturarli senza colpo ferire, far loro ammettere le loro colpe, e fargliela pagare cara. Dopo tre giorni di lavori, come prevedibile, il sinodo proclamò l’anatema nei loro confronti.

Le scintille che scatenarono la rivolta

Quella scomunica in contumacia fu interpretata da Arialdo e Landolfo come un’aperta dichiarazione di guerra della Chiesa ambrosiana, nei confronti della pataria. La loro prima reazione fu quella di appellarsi al papa Stefano IX a Roma. I capi della pataria milanese vennero accolti dal papa al quale esposero le loro accuse contro il degrado dei costumi della Chiesa ambrosiana che persisteva nel rifiutare le norme canoniche emanate da Roma. Stefano IX revocò loro la scomunica lanciata dal sinodo di Fontaneto, ma si astenne dal condannare l’operato dell’arcivescovo milanese fino a quando i legati che lui avrebbe inviato a Milano, non lo avessero ragguagliato sul reale stato delle cose.

Prima missione a Milano dei consiglieri papali (1058)

L’anno successivo (1058), il papa inviò a Milano una missione guidata da Anselmo da Baggio (futuro papa Alessandro II) ed Ildebrando di Soana (futuro papa Gregorio VII) all’epoca, entrambi suoi consiglieri, intesa più che altro a capire il reale stato delle cose e a tentare di mettere pace fra i contendenti. Questi, giunti a Milano, trovarono che la pataria, pur di avere ragione dell’alto clero, era decisa a tutto, e che gli avversari pur di mantenere i propri privilegi erano pronti persino allo scisma renderndo la Chiesa ambrosiana, indipendente da Roma. La condanna sinodale ai capi dei pàtari aveva ottenuto l’effetto opposto a quanto desiderato: la pàtaria di Arialdo stava cominciando a diffondersi a macchia d’olio, pure nel contado.

La carcerazione, per ordine dell’arcivescovo Guido da Velate di due diaconi di Monza, fedeli ad Arialdo, fu la scintilla che fece scoppiare una vera e propria rivolta contro l’arcivescovo e il suo clero corrotto.

Arialdo e Landolfo, la cui linea di condotta essendo accettata da Roma, li garantiva dal pericolo di essere tacciati per eretici, rinvigorirono la loro azione di opposizione ai chierici concubinari e simoniaci. Milano così divenne sempre più frequentemente teatro di incidenti e vere e proprie guerriglie urbane fra le opposte fazioni. Nel frattempo, anche il giovanissimo papa Stefano IX (38 anni appena) era venuto a mancare per malattia nell’agosto 1058, dopo soli nove mesi di pontificato. Dal gennaio 1059 era subentrato Niccolò II, il cui pontificato, per fortuna della pataria, fu caratterizzato dalla continuazione della politica di riforma ecclesiastica, avviata attivamente dal suo predecessore. Pare che dopo il concilio celebrato dal nuovo papa, verso aprile o maggio 1059, Arialdo e Landolfo rivolgessero un nuovo appello a Roma, per un ulteriore intervento della Sede apostolica negli affari interni della Diocesi di Milano.

Seconda missione a Milano dei consiglieri papali (1059)

L’invito venne accolto da papa Nicola II che, nel novembre del 1059. promosse l’invio da Roma di una missione guidata, questa volta, da Pier Damiani (futuro santo) e nuovamente da  Anselmo da Baggio. Lo scandalo della compravendita delle cariche religiose era sotto gli occhi di tutti, così come la prassi ormai consolidata del matrimonio dei sacerdoti e il comportamento licenzioso di molti religiosi. Le riforme avviate dal papato, in tema di simonia e nicolaismo, trovarono nella Chiesa ambrosiana una forte opposizione. Quest’ultima intendeva rivendicare la sua autonomia dai dettami di Roma. I due legati papali, constatato il perdurare della corruzione del clero milanese, appoggiando le rivendicazioni dei patarini, riuscirono a imporre le loro condizioni al clero locale. L’arcivescovo venne costretto a sottomettersi al principio della subordinazione di Milano da Roma. Fu inoltre obbligato ad emettere un documento di condanna della simonia e del nicolaismo. I legati tuttavia, mantennero una certa distanza dalle rigide posizioni di Arialdo, affermando ad esempio, al contrario di quanto diceva lui, la validità dei sacramenti anche se amministrati da preti indegni. Difendendo il valore dell’ordine costituito e della gerarchia locale, vollero dimostrare all’arcivescovo milanese, una minima fiducia nei suoi confronti.

Le condizioni imposte a Milano dei legati papali vennero pubblicizzate obbligando alla presenza (contro la loro volontà) di Guido da Velate e degli altri presbiteri milanesi a un concilio indetto dal papa nel palazzo del Lateranonell’aprile 1059.

Ndr. – Niccolò II è ricordato nella storia del papato proprio per questo importante concilio.
A parte il documento di condanna della simonia e del nicolaismo, come auspicato dai pàtari, questo sinodo fece epoca per il Decretum in electione papae, che pose fine alle ingerenze dei laici (cioè dell’imperatore e dell’aristocrazia romana) nell’elezione alla cattedra di Pietro.
Promulgato il 12 aprile 1059 con la bolla In nomine Domini, il decreto stabiliva che l’elezione del pontefice fosse una prerogativa esclusiva dei cardinali vescovi, cui solo in un secondo tempo, si sarebbero potuti aggiungere il clero e i laici. La norma prevedeva inoltre che, in caso d’impossibilità di tenere l’elezione a Roma, potesse essere scelta validamente anche un sede diversa.

Papa Niccolò II

Dopo il concilio, le acque si calmarono per qualche tempo ottenendo effettivamente la sottomissione del clero simoniaco. Ma fu una sottomissione solo apparente.

A Niccolò II, dopo solo 31 mesi di pontificato, era succeduto come nuovo papa, nell’ottobre 1061, Anselmo da Baggio col nome di Alessandro II.
Questi fu il primo pontefice ad essere eletto da un consesso di prìncipi della Chiesa, senza l’intrusione del potere imperiale, in base alla bolla del 12 aprile 1059 emessa dal suo predecessore. Non essendo ancora cardinale al momento della sua nomina a pontefice, l’elezione fece insorgere in qualcuno il dubbio che Anselmo avesse comprato la carica o comunque conquistato il Soglio Pontificio con le armi..

PAPA ED ANTIPAPA

Poiché la Sede apostolica non si era preoccupata di richiedere alla corte germanica la sua approvazione per l’elezione di Anselmo da Baggio a papa, l’imperatrice Agnese, vedova di Enrico III e madre del futuro imperatore Enrico IV, in qualità di reggente del Sacro Romano Impero, rifiutò quella nomina indebita, convocando un concilio a Basilea, per l’elezione del pontefice da opporre al nuovo papa Alessandro II, eletto a Roma, il 30 settembre 1061. La scelta del concilio ricadde su Pietro Cadalo (vescovo di Parma) che fu eletto papa dall’imperatrice il 28 ottobre dello stesso anno, col nome di Onorio II. Per essere consacrato tale, comunque, Onorio dovette recarsi a Roma, accompagnato da una scorta armata. Arrivato in vicinanza della città, nel marzo 1062, le sue truppe si scontrarono contro quelle di Alessandro II riuscendo ad avere la meglio e a impossessarsi del Vaticano e di San Pietro. Pochi giorni dopo dovette però abbandonare di nuovo la città alla ricerca di rinforzi per poter far fronte all’ arrivo dei Normanni in aiuto ad Alessandro II. Quest’ultimo marciò su Roma, riprendendosi il Vaticano. e per diversi anni compromise la posizione del rivale.
In Germania, intanto, era in atto la Congiura dei Principi guidata dall’arcivescovo di Colonia Annone II che aveva esautorato dalla reggenza l’imperatrice Agnese e aveva preso sotto la propria tutela il giovane Enrico IV. Fu convocato un concilio a Mantova (31 maggio 1064) presieduto dallo stesso Annone II in cui papa Alessandro, rappresentato dal cardinale Pier Damiani, fu completamente scagionato dalle accuse di aver conquistato il papato con le armi e la simonia. Da allora la posizione del pontefice non venne più minacciata nonostante Onorio II, antipapa rimasto in carica, ritiratosi a Parma, non accettasse mai la sconfitta. Dopo uno scambio di scomuniche fra i due, tentò fino alla morte (nel 1072).di far valere i suoi diritti di papa.

NOTA
Nei 2000 anni di storia della Chiesa Cattolica vi sono stati in tutto 42 Antipapi.
Un Antipapa è un vescovo affermantesi Papa, tuttavia, non canonicamente eletto Vescovo di Roma, ossia, supremo Pontefice.

A parte la difficoltà dei suoi primi anni di papato per l’opposizione tedesca che non intendeva riconoscere la sua autorità, Alessandro II, essendo milanese, non perse d’occhio la realtà della Chiesa ambrosiana e la pataria come movimento di riforme che lottava per la sua moralizzazione. Si batté comunque sempre per il celibato ecclesiastico e contro la simonia, pratica questa che faceva mercato non solo delle cariche ecclesiastiche, ma pure delle indulgenze.

Papa Alessandro II (Anselmo da Baggio)

La scomunica papale all’arcivescovo di Milano

Era il 1066, quell’anno, pare, qualche giorno prima delle Pentecoste. Papa Alessandro II aveva fatto pervenire per mezzo di Erlembaldo (fratello di Landolfo Cotta), il braccio armato del diacono dissidente, due bolle papali all’indirizzo dell’arcivescovo Guido da Velate. La prima di richiamo al clero milanese, la seconda di scomunica nei suoi confronti, in quanto colpevole di atti di simonia. L’arcivescovo prese male l’anatema del pontefice romano contro la sua persona, considerando quella scomunica come un insulto all’intera Chiesa Ambrosiana. Considerazione questa, che esternò, durante la sua omelia, ai fedeli presenti in Cattedrale il giorno di Pentecoste, indicando i capi della pataria come i principali responsabili di tanta onta alla sua persona, e invitando naturalmente a dar loro una lezione per vendicarlo. Arialdo che, accompagnato da Erlembaldo, era presente alla funzione, venne riconosciuto, assalito dagli stessi chierici e brutalmente percosso, al punto che in città si sparse la voce che fosse addirittura morto. Non era vero, ma tanto bastò a scatenare i seguaci del diacono riformatore, nel dare l’assalto al palazzo arcivescovile, mettendo in serio pericolo la vita dello stesso arcivescovo.

L’assassinio di Arialdo

L’arcivescovo in seguito ai disordini provocati dai pàtari, lanciò l’interdétto su Milano fino a quando Arialdo, con una pubblica confessione fatta davanti al clero raccolto sotto la sua presidenza non avesse riconosciuto i propri torti e non avesse lasciato la città. Era chiaro, con questa mossa, l’intento dell’arcivescovo di riportare dalla sua, l’opinione pubblica dei milanesi, discreditando l’avversario. Pare inverosimile che Arialdo abbia effettivamente riconosciuto le proprie colpe: quello che è certo è che lasciò effettivamente la città con i suoi seguaci più stretti, con l’intenzione di fuggire, pare, verso Pavia. Trovò rifugiò a Legnano nel castello dei Cotta, accolto da Erlembaldo: qui venne individuato e tradito probabilmente in maniera involontaria da un prete suo seguace e quindi catturato.

Ndr. – L’interdétto, in diritto canonico, è la punizione ecclesiastica che interdice il culto e i sacramenti in uno Stato cattolico e che, per tale motivo, è considerata equivalente alla scomunica, pur agendo nei confronti di un territorio (quindi della comunità che vi risiede) e non di una persona.

Condotto ad Angera, il 26 giugno venne rinchiuso nel castello di donna Oliva, nipote di Guido da Velate. Secondo la storia, affidato a dei preti aguzzini, il giorno successivo fu portato sull’Isolino Partegora (un piccolo scoglio sul Lago Maggiore) e, dopo averlo torturato, lo giustiziarono mutilandolo orribilmente e gettando il suo corpo nelle acque del lago. Era il 27 giugno 1066.

Morto Arialdo, assunse le redini del movimento il laico Erlembaldo (Landolfo, suo fratello era morto nel frattempo).

Il cadavere di Arialdo, casualmente ritrovato il 3 maggio 1067, venne consegnato ad Erlembaldo, e riportato a Milano. Il 17 maggio la sua salma. entrava trionfalmente in città per essere deposta temporaneamente in S. Ambrogio, prima di essere tumulata in S. Celso (la roccaforte dei pàtari). Successivamente venne traslata nella chiesa di S. Dionigi e dalla fine del XVIII secolo le sue reliquie si trovano in Duomo, presso l’altare di Santa Caterina, nella collocazione voluta dal cardinal Alfredo Ildefonso Schuster.

Il ritrovamento del corpo di Arialdo fece scoppiare gravi disordini tra i cittadini e l’arcivescovo Guido che venne incolpato di aver fatto catturare e uccidere il diacono ribelle. Incapace di ristabilire l’ordine e riabilitare la propria figura, dovette lasciare la città.

Una nuova missione romana inviata a Milano nel 1067 nel tentativo di pacificare la città e di assicurare il rispetto della riforma del clero, aveva essenzialmente lo scopo di porre un freno agli eccessi dei pàtari. I legati papali ottennero nel 1071 le dimissioni dell’arcivescovo ma la situazione, anziché calmarsi, andò a peggiorare ulteriormente. Guido da Velate, in totale disaccordo con Roma, rivendicò a sé il diritto di scegliere il suo successore nella persona del suo segretario Gotifredo da Castiglione, facendolo eleggere nel 1072 dall’imperatore Enrico IV. Tornato a Milano, il nuovo arcivescovo Gotifredo si vide comunque negare dai patarini l’accesso alla città. Ripiegò sui suoi possedimenti a Castiglione, tentando di organizzare, col sostegno militare di Enrico IV, una spedizione armata per entrare in città con la forza. Alla fine non gli restò che rinunciare, vista l’entità della resistenza armata che nel frattempo Erlembaldo aveva organizzato contro di lui. Vista la sede arcivescovile vacante, patarini e anti-patarini riuscirono a trovare un accordo per indire un’assemblea nella quale eleggere il nuovo arcivescovo. Erlembaldo, forte anche dell’appoggio dei legati di papa Alessandro II, impose nel 1072, come arcivescovo, un giovane prete a lui gradito, Attone. Poiché questo nome non era stato scelto dall’assemblea ma praticamente imposto dal capo dei pàtari, i suoi avversari si tirarono indietro di fronte a simile farsa, e aizzando il popolo contro il nuovo designato, lo fecero rinunciare all’episcopato obbligandolo a rifugiarsi a Roma (Attone, arcivescovo “impedito”).

Morto papa Alessandro II nel 1073, il suo successore Gregorio VII (lldebrando di Soana), pur accordando tutta la sua simpatia ai pàtari e al loro capo Erlembaldo, entrò in trattative con Enrico IV per una soluzione pacifica dell’annosa disputa delle investiture fra papato ed imperatore, inducendolo a desistere dai suoi atteggiamenti di prepotenza.

Vista l’incapacità a far valere i propri diritti, nel 1073, Gotifredo, che fino ad allora era stato a guardare, fu abbandonato non solo dai suoi alleati ma pure dall’imperatore che lo aveva nominato. Morì due anni più tardi, nel 1075. (Gotifredo, arcivescovo “usurpatore”)

Enrico IV, in un momento di trattativa col nuovo papa, propose perfino di riconoscere come legittimo arcivescovo di Milano Attone, ormai stabilitosi a Roma. Attone, proclamato arcivescovo da Gregorio VII nel 1074, fu il primo arcivescovo di Milano, ad essere da lui ornato della porpora cardinalizia.

Fervente sostenitore della supremazia papale sull’imperatore, papa Gregorio VII fu promotore della riforma in atto nella chiesa (conosciuta anche come “riforma gregoriana

Si ritiene che sia del 1075 il celebre Dictatus Papae (“Affermazioni di principio del papa”) una raccolta di ventisette proposizioni che lui scrisse, ciascuna delle quali enuncia uno specifico potere o diritto del pontefice romano.
Riporto tre delle norme più significative:

Secondo tale dettato, l’autorità del pontefice deriva direttamente da Dio «per grazia del principe degli apostoli» (San Pietro), ed è in virtù di questa grazia che il papa esercita il potere assoluto di legare e di sciogliere.

Il rapporto tra Stato e Chiesa doveva essere completamente capovolto rispetto allo status quo:  non era più l’imperatore ad approvare la nomina del papa, ma era il papa che aveva il diritto di conferire all’imperatore il suo potere ed, eventualmente, a revocarlo.

L’obbedienza alla Chiesa deve essere assoluta, chi non si attiene a ciò viene praticamente considerato un eretico e quindi passibile di scomunica.

La fine del movimento

Quel 30 marzo 1075 (era un lunedì dell’Angelo) Milano fu devastata da un furioso incendio che distrusse gran parte della città: i pàtari accusati di avere appiccato il fuoco, crearono nei giorni successivi, nuovi disordini, durante i quali Erlembaldo venne catturato e ucciso (5 aprile 1075). La sua morte segnò la fine della storia della pataria milanese, anche se il fenomeno continuò ancora per qualche anno, scemando gradualmente, sino ad esaurirsi del tutto. A favorire la cessazione delle ostilità fu determinante sia il miglioramento dei rapporti fra la Chiesa di Roma e quella Ambrosiana, che la definitiva condanna da parte del papato della simonia e del concubinaggio per i quali si erano tanto battuti per un intero ventennio, i pàtari riformatori.

Conclusione

Per quanto riguarda gli arcivescovi di quel periodo, Milano comunque non smetterà a far parlare di sé. Dopo l’uccisione del leader patarino Erlembaldo nell’aprile 1075, chierici e laici di Milano chiesero a Enrico IV un nuovo presule. In uno dei tanti giochi di potere e di scaramucce a distanza fra imperatore e papato, Enrico IV nominò Tedaldo arcivescovo di Milano nel settembre di quell’anno.  Per tutta risposta, papa Gregorio VII considerando lo stesso Tedaldo illegittimo non solo perchè non nominato da lui ma perché ufficialmente l’arcivescovo già c’era ed era Attone,  lo scomunicò, al culmine della cosiddetta lotta per le investiture. (Tedaldo, arcivescovo “usurpatore” e “scismatico”)

Il Sinodo dei vescovi di Worms fu indetto da Enrico IV nel gennaio 1076, per destituire il papa come illegittimo a ricoprire il Soglio pontificio. Gregorio VII, per tutta risposta, scomunicò Enrico IV, spogliandolo della dignità reale e sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà prestato a suo favore, episodio questo, che sfocerà nella famosa “Umiliazione di Canossa”
Enrico IV per ottenere la revoca della scomunica inflittagli dal papa, fu costretto a umiliarsi attendendo inginocchiato per tre giorni e tre notti innanzi al portale d’ingresso del castello di Matilde, mentre imperversava una bufera di neve, nel gennaio del 1077.

Castello di Matilde di Canossa

I capi dei pàtari riformatori, Arialdo ed Erlembardo sono oggi venerati dalla Chiesa come santi. Le loro reliquie riposano in Duomo a Milano. Non è chiaramente spiegabili, se non nel tentativo di screditare il loro operato, per quale motivo il nome del loro movimento riformatore, anche se leggermente deformato, verrà indebitamente utilizzato, nel secolo successivo, a designare forme di eresia quale quella dei càtari fautori di una dottrina neo-manicheista e di altri movimenti ereticali critici nei confronti della gerarchia ecclesiastica.

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