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La rivolta del pane (1898)

Premessa

Minimizzata dalla stampa dell’epoca, questa è la rievocazione di un odioso episodio fra i tanti, che hanno costellato una delle pagine più nere nella storia della città di Milano.

Palazzo Rocca-Saporiti, la cui facciata compare nella fotografia all’inizio di questo articolo, è il bellissimo edificio a forme neoclassiche, di ispirazione Palladiana, sito in Corso Venezia al civico 40, esattamente all’altezza dell’incrocio del Corso con la via Palestro. E’ un palazzo unico nel suo genere, con quel delizioso loggiato a sei colonne ioniche e dieci statue di Dèi Consenti (Dèi consiglieri di Giove) che troneggiano sulla balconata, in cima al tetto.

NOTE sul Palazzo
Per chi non lo sapesse, questo palazzo si chiamava inizialmente Palazzo Belloni. Era stato commissionato nel 1800 da tale Gaetano Belloni, un biscazziere che con la seconda calata in Italia di Napoleone nel 1800, aveva ottenuto la gestione del Ridotto della Scala, una vera e propria miniera d’oro essendo questo il più frequentato dei locali dov’era consentito il gioco d’azzardo. In cambio il Belloni avrebbe dovuto versare una quota parte del ricavato nell’allestimento degli spettacoli. Sotto Napoleone, ebbe quindi la possibilità di arricchirsi a dismisura.
Il palazzo venne edificato nell’ambito di un progetto di riqualificazione di tutta la zona attorno a Porta Orientale, su terreni appartenuti all’Ordine dei frati cappuccini (prima della soppressione degli ordini monastici effettuata nel 1782, dall’amministrazione austriaca). Come ricorda una targa di fronte al palazzo, su questi terreni era presente un convento, descritto in un passaggio de I Promessi Sposi.
Il progetto, ultimato nel 1812, porta la firma dell’ingegner Innocenzo Giusti: in realtà fu realizzato da Giovanni Perego, famoso scenografo della Scala, che, non essendo architetto di professione. non poté apporvi la propria firma. La facciata esterna deriva proprio dall’esperienza teatrale del Perego e da spunti presi dal vicino Palazzo Serbelloni. La facciata presenta una loggia con colonne ioniche, un fregio, realizzato da Pompeo Marchesi, raffigurante scene di storia milanese e sulla cima, una decina di statue degli Dei Consenti opere sia di Pompeo Marchesi che dello scultore Grazioso Rusca.
Terminata la parentesi napoleonica e ritornati a Milano gli Austriaci, a causa della proibizione del gioco d’azzardo, egli, trovandosi sommerso dai debiti, prima di trasferirsi a Roma nel 1818 vendette la sua nuova splendida dimora ai marchese Marcello Saporiti di Genova. Diventato poi, per via ereditaria, Rocca-Saporiti, il palazzo venne infine acquistato dagli Archinto, che tuttora vi abitano.

Ebbene, proprio questo palazzo, fu incolpevole testimone e pure vittima (con tanto di saccheggio ed anche un morto) di una delle pagine più nere, che la storia di Milano ricordi. Mi riferisco alle quattro giornate di sommosse popolari dal 6 al 9 maggio 1898, scoppiate a causa del forte rincaro del prezzo del pane, moti questi, a dire il vero, molto meno conosciuti delle Cinque Giornate di Milano del 1848 – di cui tutti i libri di storia riportano con dovizia di particolari, le alterne vicende – ma non per questo meno cruenti e gravidi di conseguenze.

Laprotesta dello stomaco“, – così il politico Napoleone Colajanni usava chiamare “la rivolta del pane” del 1898, a Milano – si spense tragicamente nel sangue. Fu la decisione governativa di aumentare il prezzo del grano da 35 a 60 centesimi al chilo – un’enormità per chi, di fatto, si nutriva di solo pane – a far scoppiare agitazioni, scioperi, e manifestazioni in tutta Italia.

A parlarne, mi sovviene il ricordo della lettura sulla famosa ‘rivolta del pane’ di 270 anni prima, descritta ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, chiamata anche tumulto di San Martino perché scoppiata fra l’11 e il 12 novembre 1628, con il memorabile assalto ai forni. Storia questa, che l’autore del romanzo ci documenta, attraverso Renzo, quale spettatore casuale interessato agli eventi, nei quali, suo malgrado, pur senza partecipare in prima persona alle violenze ,vi si trovò coinvolto. In quell’occasione, le cause della sollevazione affondavano nella carestia che aveva afflitto tutto il Milanese negli anni 1627 – 1628 ed era stata quella l’unica ragione del notevole rincaro del prezzo del grano e quindi del pane. Ad agitare ulteriormente gli animi, la convinzione di quanti accusavano i fornai di nascondere la farina per fare alzare il prezzo del pane, cosa naturalmente infondata ma che contribuiva a creare un clima di ulteriore diffidenza e di sospetto intorno ai “prestinée” (termine milanese per dire ‘fornaio‘)

Le cause dell’aumento del prezzo del pane

Nel caso della storia dei moti del 1898, alla semplice carestia – che non si può negare ci fosse stata effettivamente in quegli anni, a causa del clima rigido e secco degli ultimi inverni – si sommarono motivazioni più complesse, di carattere sociale e politico, non strettamente connesse con la realtà di Milano soltanto e che contribuirono a peggiorare la situazione già compromessa.

La situazione sociale

Fra i motivi di questa crisi, ve n’erano alcuni sovranazionali:

  • blocco navale, col fermo delle esportazioni di grano verso l’Europa, dovuto al conflitto USA-Spagna di quegli anni;
  • la guerra doganale con la Francia per l’occupazione della Tunisia da parte francese;
  • la situazione politica interna e le casse dello Stato vuote a causa delle guerre coloniali recenti;
  • la diminuzione dei salari al proletariato, cui si era fatta ricadere la causa della grave crisi economica che attanagliava l’intera nazione.
  • le manovre economiche del governo avevano fatto saltare i calmieri sul prezzo dei generi di prima necessità e indurito le regole sul lavoro.

Tutte queste erano motivazioni più che valide perché, nella primavera del 1898, la situazione interna e il malcontento popolare degenerassero in esplosioni di violenza a macchia d’olio in tutt’Italia. Per la gente, qualunque fosse la causa della crisi, una così incredibile lievitazione del prezzo del pane, risultava insostenibile per una larga fetta della popolazione.

Da quasi ogni provincia d’Italia, arrivavano notizie di spontanei focolai di violenza, regolarmente repressi nel sangue, … Scontri contro il carovita in molte città italiane con decine di morti. Questo era il clima piuttosto teso che si viveva in quei giorni … un bollettino di guerra con morti e feriti …. Insomma, una situazione complessa, indubbiamente non facile da gestire da parte delle autorità di governo.

A giustificare il malcontento generale, forse meglio di tante parole, vale questa semplice nota: nella Milano del 1898, un operaio guadagnava mediamente 18 centesimi all’ora, e per acquistare 1 kg di pane, ce ne occorrevano 40. E’ comprensibilissimo quindi perché in quei giorni fosse stato proclamato uno sciopero generale, degenerato ben presto, nella più grave sollevazione popolare che la storia di Milano ricordi.

In tutto questo contesto, lascia comunque molto perplessi, il comportamento delle autorità in quel frangente: una brutalità gratuita, totalmente ingiustificata, tale da far pensare che il controllo della situazione sia sfuggito loro di mano. 

Non è stata comunque la sacrosanta protesta della gente, il vero problema, quanto la reazione assolutamente sproporzionata delle nostre forze armate, intervenute per sedare gli animi.

Di chi la colpa della carneficina?

Difficile poter dire, in quei giorni, con certezza, a quale delle autorità nella catena di comando, attribuire la responsabilità di quanto accaduto:

  • se al prefetto Antonio Winspeare che, spaventato dalla piega che stavano prendendo gli eventi (cioè i disordini spontanei della piazza), non sapendo come comportarsi, chiese aiuto a Roma,
  • o al governo guidato in quel periodo da Antonio Starabba marchese di Rudinì, che, sulla base delle scarne notizie apprese dal prefetto di Milano, si affrettò a proclamare lo stato d’assedio della città, autorizzando il prefetto stesso ad affidare pieni poteri all’esercito (in caso di necessità), per sedare la rivolta,
  • oppure ancora al generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris che condusse sul campo le operazioni, comportandosi come se avesse di fronte un esercito nemico,
  • o infine al Re, Umberto I di Savoia insolitamente prodigo nell’elargire benemerenze.

Questo è il telegramma del capo del Governo, inviato al prefetto di Milano, inteso ad autorizzarlo a far intervenire le truppe per sedare la rivolta.

«Quando per gravi persistenti disordini che si estendano ad una intera città o a più luoghi stessa provincia siensi verificate colluttazioni con forza pubblica e intervento truppa non sia riuscito a ristabilire immediatamente ordine autorità politica potrà per maggiore prontezza ed unità di azione affidarne il ristabilimento all’Autorità Militare annunziando il provvedimento con pubblico manifesto. Questo provvedimento che i Signori Prefetti possono prendere sotto loro responsabilità non deve alterare o modificare loro poteri e loro doveri, mentre compito Autorità militare deve rimanere circoscritto agli atti necessari per l’impiego della forza pubblica.»

(Telegramma del presidente del consiglio Starabba ai prefetti, 2 maggio 1898)

Ndr. – Appare chiaro, con questa delega, il classico gioco dello scarica barile nel rimpallo delle responsabilità.

L’attacco assolutamente sproporzionato

Tra i principali presidi del III Corpo d’Armata che facevano capo al generale Fiorenzo Bava Beccaris, oltre a Milano, figuravano, tra gli altri, Como, Bergamo, Brescia, Lecco, Monza e Varese, tutti centri ad alta densità industriale, e dunque, data la situazione contingente, ad alto rischio di agitazioni. Le forze totali disponibili per il presidio di Milano ammontavano a circa 2.000 uomini di fanteria, 600 di cavalleria e 300 di artiglieria a cavallo. Data la situazione tesa in tutta la Lombardia, non vi era la possibilità di attendersi rinforzi cospicui dagli altri presidi vicini, per cui era necessario far venire rinforzi da zone giudicate più tranquille. Pare che a complicare ulteriormente la situazione delle truppe ai primi di maggio ci fossero per Beccaris pure dei problemi logistici ed organizzativi legati alla chiamata alle armi della classe di leva 1873, da effettuarsi proprio nei giorni 6, 7 e 8 maggio.

Duemila soldati del III Corpo d’Armata (di stanza a Milano) schierati in tenuta da combattimento, dovevano fronteggiare forse quaranta o cinquantamila disperati pronti ad affrontarli a mani nude, armati di sola fame. In mezzo a costoro, passanti, gente che non c’entrava per nulla, assolutamente ignara di cosa stesse accadendo, e che, trovandosi casualmente a passare da lì, ne restò coinvolta suo malgrado!

L’artiglieria in Piazza del Duomo
Accampamento militare in Piazza del Duomo (piazza interdetta ai manifestanti)

Non si può negare che vi fosse una sproporzione numerica evidente fra militari da un lato ed i manifestanti dall’altro, tuttavia l’ordinare l’impiego di mitragliatrici contro la popolazione inerme e di cannoni per demolire le barricate create in città, onestamente sembra una decisione davvero aberrante, tipica di chi ha totalmente perso il senso della realtà. Ecco perché il generale Fiorenzo Bava Beccaris venne additato quale principale responsabile dell’eccidio che ne seguì e venne soprannominato il macellaio di Milano. Essendo lui un piemontese, forse aveva qualche partita in sospeso con i milanesi!

Indubbiamente, vista dall’esterno, lasciando troppa libertà ai singoli, ci deve essere stata qualche grossissima falla nella catena di comando. Ed è stata sicuramente la brutalità di questo modo di reagire, ad aver scatenato, spontaneamente, la guerriglia urbana. Forse, questo comportamento, comunque ingiustificato, avrebbe potuto essere più accettabile se tenuto da truppe d’occupazione straniere, che non dalle nostre, contro altri italiani.
Questo fu probabilmente il motivo per cui si tentò di far passare, minimizzando l’accaduto, questa brutta pagina di storia.

Il valzer dei numeri

Appare altrettanto incerto, a consuntivo, il numero dei morti, dei feriti e degli arresti eseguiti in quei quattro giorni di pura follia. Le fonti ufficiali ovviamente tentarono di minimizzare l’accaduto, parlando “solamente” di 80 morti, 400 feriti e 850 arresti; ed i giornali, essendo la stampa sotto totale controllo del governo, non poterono che confermare i dati ufficiali. Il popolo invece, che aveva vissuto sulla propria pelle quei tragici eventi, fornì numeri un po’ diversi e sicuramente più vicini alla realtà (che naturalmente non si conoscerà mai con precisione) .. comunque almeno 400 i morti, 2000 i feriti gravi e 1750 gli arresti operati dall’esercito.

Fra i morti, ad esempio, lascia sgomenti la presenza di così tante donne, bambini, e tanti anziani assolutamente innocui…. questi ultimi, trovati morti in casa loro con proiettili alla testa solo per un peccato di ‘curiosità‘. essendosi affacciati alle finestre delle loro abitazioni, per vedere cosa stava succedendo, attirati dalle grida e dal trambusto delle cariche di cavalleria nella strada sottostante: erano stati fatti oggetto di “tiro al piccione”, da parte dei tiratori scelti dell’esercito, appostati in zona. Fra i militari, in mezzo a tutta quella carneficina, si contarono tre soli morti, di cui uno, addirittura ucciso da fuoco ‘amico’. Si sarebbe trattato di un giovane fante del 92° reggimento di fanteria Basilicata, tale Graziantonio Tomasetti – trasferito d’urgenza a Milano (il giorno prima), col suo battaglione, per dar man forte alle truppe di stanza in città – fucilato dai suoi stessi compagni, su ordine del generale Bava Beccaris, perché si sarebbe rifiutato di sparare contro la folla inerme. La notizia al momento censurata, o raccontata genericamente, venne alla luce solo alcuni anni dopo. con tanto di nome e cognome del soldato ucciso, e fu proprio in quell’occasione che, scoperta la motivazione della fucilazione, l’eroico fante venne decorato con una medaglia alla memoria)

Ma torniamo alla cronaca di quella mattina (8 maggio 1898)

Erano le 9 del mattino dell’8 maggio, una domenica (terzo giorno di sciopero generale e di sommossa popolare) … tutto chiuso… negozi, fabbriche … rara la gente a quell’ora per strada, …aria molto tesa in città … foriera di tempesta in arrivo!

Verso le 10.30 – così riportano le cronache di quella mattinata – un folto gruppo di manifestanti (alcune migliaia di persone, fra cui molte donne), tutte maestranze della Pirelli, della Stigler e dell’Elvetica – che si erano date precedentemente appuntamento davanti ai cancelli delle loro fabbriche dell’area via Filzi e via Galvani – si erano unite in corteo puntando, tutti insieme, verso il centro, ove sarebbero dovuti convergere altri cortei di manifestanti provenienti dalle altre zone della città. Saranno state due o tremila persone in tutto … Stavano lentamente transitando  in corteo attraverso lo stretto sottopasso tranviario di Porta Principe Umberto, che permetteva di raggiungere piazza Fiume, di fronte alla Stazione Centrale (la vecchia stazione ferroviaria, allora situata nell’attuale piazza della Repubblica), diretti poi verso piazza San Babila, transitando da via Principe Umberto (l’attuale via Turati), piazza Cavour, via Palestro e Corso Venezia.

Stabilimento Pirelli di via Fabio Filzi (sulla sfondo si vede l’attuale Stazione Centrale)

Passò una buona mezz’ora per completare questo percorso … Girato l’angolo fra Via Palestro e Corso Venezia, in direzione San Babila, trovarono, a sbarrare loro la strada, uno squadrone di cavalleria schierato sul ponte sul Naviglio all’incrocio di Corso Venezia, con la via Senato. [Ndr. – allora era ancora scoperta la fossa interna del Naviglio]

Mappa del 1898 della zona Stazione Centrale – Corso Venezia

All’invito a non proseguire oltre, i manifestanti risposero con un lancio di sassi contro lo sbarramento dei militari: questi, come tutta risposta, fecero una carica di alleggerimento … con fuggi fuggi generale, tutti di corsa in direzione di Porta Orientale (Porta Venezia).

Corso Venezia

All’altezza di via Palestro, quattro vetture tramviarie che, in mezzo alla folla, tentavano di farsi strada, furono bloccate dai manifestanti, sollevate di peso e disposte di traverso sulla carreggiata, in modo da creare una barricata improvvisata per contrastare le cariche della cavalleria.

Ndr. – Corso Venezia, in quel periodo, era percorsa dai tram (la linea Milano-Monza, che, partendo da Piazza Duomo, passando per Piazza San Babila, proseguiva in Corso Venezia per Porta Orientale, via Loreto (l’attuale corso Buenos Aires), continuando poi in direzione di Monza.

Barricate dei tram in Corso Venezia

Atteso che i manifestanti fossero tutti arrivati in Corso Venezia, verso le 11.40, degli squilli di tromba, dettero il segnale dell’inizio dell’attacco vero da parte della cavalleria. Partita una scarica di fucileria di avvertimento contro la folla, mentre da Corso Venezia angolo via Senato cominciava ad avanzare un primo squadrone, … quasi in contemporanea da via Palestro era in arrivo un secondo squadrone di cavalleria al galoppo, che non ebbe particolari difficoltà a sfondare le barricate improvvisate. I manifestanti, presi fra due fuochi, fuggirono in ogni direzione, tentando di rifugiarsi nei palazzi adiacenti e nei cortili delle case di Corso Venezia.

Entrati a Palazzo Rocca-Saporiti, i dimostranti salirono sul tetto, facendo piovere sui militari in strada, tegole, sassi, comignoli, persiane, piastrelle ed ogni suppellettile che potesse essere contundente. Due furono i dimostranti rimasti uccisi in quel frangente: uno di loro, proprio lì, sul tetto di Palazzo Saporiti, evidentemente colpito da una fucilata sparata dalla strada, l’altro, all’incrocio con via Palestro, vittima della carica di cavalleria al galoppo … insomma, caos totale!

Alcuni dimostranti riuscirono a rubare le armi a qualche militare caduto in un’imboscata. La sparatoria fra soldati da una parte ed insorti dall’altra, continuò per circa un’ora, mentre intanto vennero eseguite perquisizioni e numerosi arresti di dimostranti che, non essendo riusciti ad eclissarsi in tempo erano rimasti bloccati nelle case ed erano stati scovati dalle truppe. Alla fine, gli insorti rimasti si arresero. Non si sa quanti fossero realmente i feriti, perché, pur di non finire arrestati e malmenati dai soldati, quasi tutti preferirono non ricorrere all’assistenza presso gli ospedali cittadini, (ove sarebbero stati sicuramente catturati) ma optarono per far perdere le loro tracce e farsi medicare in casa di amici. Il Palazzo Saporiti venne interamente devastato (e con l’occasione saccheggiato dalle truppe) alla ricerca di qualche altro dimostrante che, per sfuggire alla cattura, si fosse nascosto in qualche anfratto sfuggito ad una prima perquisizione.

A meno di un mese dall’eccidio, l’onorificenza

Ristabilito l’ordine in città entro la sera del 9 maggio, a nemmeno un mese dall’eccidio, il generale Fiorenzo Bava Beccaris, soprannominato il ‘macellaio di Milano’, venne premiato per il suo “prezioso” operato.
Infatti, il 5 giugno 1898, re Umberto I lo insignì del titolo di “Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia” con la seguente motivazione: “per il grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”.
A nemmeno due settimane di distanza, il 16 giugno 1898, il re lo nominò pure Senatore del Regno dItalia!
Inutile dire che con questi suoi due ultimi conferimenti a Bava Beccaris, il re aveva praticamente firmato la propria condanna a morte, agli occhi dei milanesi (e non solo …).

Due anni dopo …. la vendetta

La convinzione che la responsabilità primaria per l’eccidio di Milano, proprio in virtù degli ultimi conferimenti, fosse imputabile direttamente al re, avrebbe infatti armato, due anni dopo (1900) , la mano di un trentaduenne di Prato, emigrato in America, tale Gaetano Bresci. Questi, sarebbe tornato in Italia, via nave, col solo ed unico scopo (come disse lui stesso) di uccidere il re, vendicando così tutti i morti di quelle quattro terribili giornate e l’offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris.  Re Umberto I infatti venne ucciso a Monza, con tre colpi di pistola, per mano proprio dell’anarchico Bresci, la sera del 29 luglio 1900, mentre, in carrozza, stava facendo rientro a Palazzo Reale, a conclusione di una serata di premiazioni di un concorso ginnico locale.

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