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Metilde Viscontini Dembowski

Aimer, c’est avoir du plaisir à voir, toucher, sentir par
tous les sens, et d’aussi près que possible, un objet
aimable et qui nous aime.

“Amare è avere il piacere di vedere, toccare sentire con
tutti i sensi. e pure il più vicino possibile, un oggetto
amabile e che ci ama”.
Così scriveva Marie-Henri Beyle (in arte Stendhal) (1783 – 1842) nel suo saggio “De l’Amour”, pensando a lei che lo aveva respinto, a quella Metilde che lui sognava, e che lo aveva così irrimediabilmente stregato.

Non era facile, per lui, mettere così a nudo il proprio cuore, giustificando le proprie sconfitte. Ma chi era costei? Una fanciulla soave e discreta, dall’aspetto fragile e dai modi dolcissimi. Ma vediamo meglio la sua storia, a dire il vero, poco nota, in una Milano che passando in quegli anni dal dominio dell’impero austroungarico, al regno napoleonico per poi tornare sotto gli Asburgo, visse la stagione dell’illuminismo lombardo, quindi del romanticismo ed infine del risorgimento.

I suoi primi anni (1790 -1806)

Nata a Milano il 1° febbraio 1790, sotto la dominazione austriaca, Metilde era la seconda di quattro figli di Carlo Viscontini e di Luigia Marliani. A quanto risulta, i Viscontini appartenevano all’alta borghesia milanese che, traendo beneficio dalle riforme teresiane della seconda metà del Settecento, si era arricchita nel corso degli anni, grazie al commercio dei tessuti, i cui lauti profitti erano poi stati investiti nell’acquisto di numerosi terreni e palazzi, sia in Lombardia che nella vicina Svizzera (Canton Ticino). Troppo dediti ovviamente alla gestione dei loro affari, a quanto pare, i suoi genitori l’avevano affidata, per la sua istruzione, alle suore del convento di Santa Sofia. Metilde (questo era il suo vero nome all’anagrafe, probabilmente un errore di trascrizione di Matilde sui registri) aveva così trascorso a quanto pare, tutta la sua infanzia e adolescenza in mezzo a cugini e cugine più o meno coetanei, in un ambiente che univa agiatezza, cultura, fede e orgoglio patriottico.

Il fidanzamento (1806)

Finiti gli studi, ormai sedicenne, i suoi si dettero da fare per accasarla, cosa abbastanza normale a quei tempi. Una ragazza che a vent’anni non si fosse ancora maritata, sarebbe già stata considerata una zitella. (Ndr. – La vita media non superava di norma i quarant’anni). Eravamo nel 1806, in piena dominazione francese: Milano era la capitale del Regno d’Italia, con Napoleone proclamatosi Re l’anno prima, in Duomo.

Trovato quindi un partito accettabile, gradito ai Viscontini sia per rango che per patrimonio, i suoi genitori avevano deciso di farla sposare ad un uomo molto più vecchio di lei, che potesse dare soprattutto garanzia di stabilità finanziaria. Poco importava loro, il parere della figlia, la diretta interessata. Il fatto che lei non lo avesse probabilmente nemmeno mai visto prima o quasi, era una cosa assolutamente irrilevante. Non poteva certamente amarlo, ma col tempo, gli si sarebbe magari affezionata e con la nascita dei figli, avrebbe certamente cambiato idea.

Lui, il futuro sposo, era un polacco, tale Jan Dembowski (1773 – 1823), pluridecorato, veterano delle guerre napoleoniche, di diciassette anni più vecchio di lei. Aveva fatto la campagna d’Italia del 1800, e, fermatosi a Milano, aveva richiesto e ottenuto la cittadinanza della Repubblica Cisalpina nel 1803. Ora, era un alto ufficiale dell’esercito francese.
Metilde tentò sulle prime, di resistere alle pressioni dei genitori favorevoli a quelle nozze di convenienza ma, ancora troppo giovane ed inesperta, alla fine si sottomise al loro volere e alla determinazione del futuro fidanzato, che alla promessa della ricca dote di 150 mila lire che, sposandola, avrebbe ricevuto dal padre di lei, era desideroso di concludere l’affare, prima che la famiglia di lei cambiasse idea. I genitori di Metilde, vincendo le resistenze della figlia, nel 1806, gli accordarono il fidanzamento con la giovane. Questi erano i costumi di allora, e per lei, non c’era modo di ribellarsi all’autorità dei suoi.

Il matrimonio (1807)

Così, qualche mese dopo, quel 6 luglio del 1807, fu celebrato a Milano il loro matrimonio. Era la classica unione fra gli opposti: agli occhi della gente, risultò infatti sorprendente quell’unione, per l’assoluta diversità di interessi tra i due “sposi”. Per non parlare poi del carattere: lui Jan, soggetto molto prepotente, rude e sbrigativo, lei, Metilde, dolcissima, molto delicata e riflessiva. I due coniugi andarono ad abitare in un appartamento dei Viscontini, in via San Maurilio. Com’era prevedibile, fin quasi da subito cominciarono “scintille e litigi”, ma lei, per sua natura più accomodante, per quieto vivere, cedeva sempre, sperando che l’indomani le divergenze si sarebbero appianate.

Il est beaucoup plus contre la pudeur de se mettre au lit
avec un homme qu’on n’a vu que deux fois, après trois
mots latins dits à l’église, que de céder malgré soi à un
homme qu’on adore depuis deux ans. Mais je parle un
langage absurde!.


“È molto più contro la modestia andare a letto
con un uomo che hai visto solo due volte, dopo tre
parole latine dette in chiesa, che dare suo malgrado a un
uomo che hai adorato per due anni. Ma parlo un
linguaggio assurdo!”
Una volta a conoscenza dalla stessa Metilde come si era sposata, così scriveva Marie-Henri Beyle, nel suo “de l’Amour”, parlando di quel matrimonio forzato e criticando aspramente quell’unione così assurda.

La missione del marito in Spagna (1808-1810)

Per sua fortuna, la convivenza col marito durò poco: lui infatti, venne richiamato e dovette partire qualche mese dopo il matrimonio, per una missione militare in Spagna, senza poter nemmeno vedere la nascita, il 9 aprile 1808, del suo primo figlio Carlo. La campagna all’estero del marito durò quasi due anni. Lei, appena diciottenne quando lui partì, rimasta improvvisamente sola, con un pargolo da accudire, trovò consolazione nell’amore di un corteggiatore rimasto sconosciuto, soggetto questo, di cui lei s’innamorò realmente.

Non era quello l’unico moscone che le girava intorno: uno dei tanti a corteggiarla fu ad esempio Ugo Foscolo (allora professore di eloquenza all’Università di Pavia), che aveva conosciuto l’anno prima, in un momento molto triste per lei. Fra l’altro, pure il Foscolo aveva una figlia, Floriana, avuta da una precedente relazione con l’inglese Fanny Emerytt, quando, anni prima, era stato in Inghilterra; comunque Metilde non gli corrispose, mantenendo con lui unicamente un rapporto di sincera amicizia.

La relazione clandestina

Non si sa quanto importante fosse la relazione con l’ignoto bellimbusto di cui si innamorò, certo è che le voci corsero giungendo fino all’orecchio del marito, quando questi, finalmente completata la sua missione, fece ritorno in Italia il 10 agosto 1810, avendo acquisito sul campo il grado di generale di brigata, e pure l’onorificenza dell‘ordine della Corona di ferro. Ovviamente, avuto sentore dalle malelingue dell’infedeltà della moglie durante la sua lunga trasferta, la notizia non fece che peggiorare la situazione. I rapporti fra marito e moglie, già fragili quando lui era partito per la Spagna due anni prima, si raggelarono del tutto, al suo ritorno.

Travolta da analogo scandalo, era stata, l’anno prima, la cugina di lei, Maddalena Marliani. Moglie del banchiere Paolo Bignami, Maddalena era, in quel periodo, pesantemente corteggiata proprio da Ugo Foscolo, e scoperta dal marito la sua relazione col poeta, nel 1809 tentò di suicidarsi. Fu proprio al capezzale della cugina, che Metilde e il Foscolo si conobbero, stringendo un’amicizia destinata a durare nel tempo e a consolidarsi nelle avversità per entrambi.

Metilde Viscontini Dembowski

Rapporti tesi in famiglia (1810 – 1812)

Poco dopo essere rientrato a Milano Jan Dembowski venne insignito del titolo di barone e messo a capo della piazza milanese. Mentre in famiglia aveva instaurato un clima di sospetti e di violenze non solo verbali nei confronti dell’amato bene, in pubblico mascherava i propri dissapori familiari, con gesti stravaganti, totalmente fuori luogo, dato anche il suo ruolo: pare, ad esempio, che avesse addirittura salito a cavallo le scale di una casa in via Sant’Andrea per poter ammirare da vicino le fattezze di una giovane fanciulla … insomma era un soggetto chiacchierato sia per queste follie che per la risaputa brutalità con cui trattava viceversa la moglie. Se era già stato difficile il clima di convivenza fra i due sposi prima della trasferta spagnola, ora i comportamenti violenti del Dembowski, nei confronti di Metilde, non migliorarono certamente il clima familiare, né, a quanto pare, valse a temperarli, la nascita, il 12 gennaio del 1812, del secondogenito Ercole.

Il voltafaccia di Dembowski (1813)

Ci si può immaginare di quanto fosse migliorata la situazione famigliare l’anno successivo, il 1813, quando a Jan venne notificata la radiazione dall’esercito. Non è chiaro di quale grave colpa si fosse macchiato il generale Dembowski, da ricevere addirittura il ben servito (cioè la messa a riposo d’autorità) dall’esercito a soli quarant’anni. Lui tentò di fare più volte ricorso contro simile decisione, ma fu del tutto inutile. Vistesi respinte tutte le sue richieste per essere reintegrato in servizio, quando si rese conto che le sorti di Napoleone e, con lui, quelle del Regno d’Italia, stavano andando in declino, non ci pensò due volte a cambiare bandiera, passando al partito filo-austriaco. Il 20 aprile 1814, alla notizia della sconfitta subita dal viceré Eugenio di Beauharnais ad opera degli austriaci, Dembowski partecipò attivamente alla congiura che portò al brutale linciaggio del Ministro delle finanze del Regno d’Italia, Giuseppe Prina. Pure gli austriaci, a quanto pare, gli avrebbero concesso, al momento della Restaurazione nel 1815, il grado di generale.

Le violenze

I già gelidi rapporti di Metilde nei confronti del marito si tramutarono poi in totale disprezzo nei suoi confronti, quando, finita l’esperienza napoleonica, lei venne a conoscenza che lui, a sua insaputa, si era venduto agli austriaci dimostrando, al contrario di lei, scarsa fedeltà ai propri ideali.

Sicuramente complici le cocenti delusioni legate alla sua radiazione dall’esercito francese, essendo notoriamente prepotente e di indole violenta, l’ex-generale sfogava entro le mura domestiche, la propria frustrazione e rabbia, scattando per ogni nonnulla. A farne le spese, era sempre la famiglia e particolarmente lei, la moglie, che lui trattava con brutalità inaudita, rendendole la vita assolutamente intollerabile.

La fuga dal tetto coniugale e la richiesta di separazione (1815)

Per cui Metilde, stanca delle continue prevaricazioni e violenze, dopo aver fatto richiesta di separazione dal marito, nel marzo del 1815, abbandonò il tetto coniugale cercando dapprima rifugio in casa del fratello Ercole in piazza Belgioioso, quindi, grazie alle raccomandazioni dei suoi parenti, riparando col figlio più piccolo Ercole a Berna, in Svizzera, ospite di amici altolocati.

NOTE (sull’istituto della separazione)

Il primo stato moderno della penisola italiana a consentire nella propria legislazione il divorzio, fu il Regno d’Italia napoleonico (1805 – 1814), il quale emanò il cosiddetto “Codice civile napoleonico” il 5 giugno 1805. Esso fu seguito dal Regno di Napoli che, sotto il governo di Gioacchino Murat, emanò lo stesso codice. Questo, fra le altre cose, consentiva il divorzio e il matrimonio civile, fra le polemiche che tali provvedimenti suscitarono nel clero più conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie, il privilegio della gestione delle politiche familiari,risalente al 1560. Benedetto Croce riuscì a trovare, per tutto questo periodo, non più di tre casi di divorzio: un po’ per l’impopolarità dell’istituzione, un po’ perché i giudici, minacciati di scomunica, frapponevano ogni possibile difficoltà. Anche la legge era abbastanza farraginosa: per il divorzio consensuale, occorreva il consenso non solo dei genitori, ma anche dei nonni; se defunti, bisognava presentarne l’atto di morte. [rif. – Wikipedia]

“Tra il 1780 e il 1830 molti giornali inglesi enfatizzarono la diffusione di una forma privata e del tutto illegale di divorzio ovvero l’uso di portare la propria moglie al mercato per venderla al miglior offerente. La vendita della moglie (wife sale) aveva luogo nella piazza del mercato; la donna, dopo esser stata posta in bella mostra come un qualunque capo di bestiame, veniva venduta ad un altro uomo in cambio di denaro. Moltissimi casi furono registrati dalla stampa locale o furono riportati nelle corti inglesi nel corso del XVIII e del XIX secolo. La pratica del wife sale può leggersi – ed è stata letta – come una diretta conseguenza degli amplissimi diritti acquisiti dal marito con il matrimonio in antico regime, ma in tale pratica si possono distinguere fenomeni di vario genere. Come suggerisce Roderick Phillips, l’atto di portare e vendere la moglie al mercato va inteso soprattutto come una forma di “divorzio popolare” e che aveva lo scopo di annunciare pubblicamente la divisione dei coniugi, il loro collocarsi in una nuova casa, con un “nuovo” coniuge. Si trattava propriamente di un rito, di una cerimonia che doveva attirare l’attenzione della comunità sulla rottura del legame matrimoniale; il mercato era il proscenio ideale per dare pubblicità all’evento e il linguaggio “mercantile” usato era lo stesso con cui in antico regime si definivano e si vivevano la maggior parte dei matrimoni.  Non abbiamo notizia di cerimonie così intriganti e “suggestive” per dividere i destini di coniugi vissuti in altre zone d’Europa sebbene numerosi siano stati coloro che scelsero la separazione de facto ovvero che si separarono senza la necessaria autorizzazione delle istituzioni ecclesiastiche. È opinione condivisa che sia incalcolabile il numero di mariti e mogli, soprattutto appartenenti a ceti popolari, che optarono per una separazione informale, sancita con una fuga, un abbandono oppure con un accordo”. [ rif- La separazione coniugale – Chiara La Rocca (storicamente.org)]

A Berna, Metilde fece vita ritirata, coltivando nuove amicizie. Particolarmente preziosa per lei, fu quella con l’arciduchessa Julie di Sassonia-Coburgo-Gotha, moglie separata dell’arciduca Costantino, fratello dello zar Alessandro di Russia, dalla quale ottenne protezione contro i tentativi di Dembowski, mai rassegnato, di ricondurla a sé. Durante il suo soggiorno in Svizzera, ebbe numerosi scambi epistolari con Ugo Foscolo, partito pure lui da Milano, in volontario esilio, poche settimane dopo l’abbandono di Metilde del tetto coniugale. Lui ebbe poi modo di incontrarla per alcuni giorni, in Svizzera, nella casa di campagna che lei aveva affittato per il periodo estivo.

l’arciduchessa Julie di Sassonia-Coburgo-Gotha amica di Metilde

Sottrazione del figlio (1816)

Legatissima ai figli, nel giugno 1816, tornò a Milano per rivedere il piccolo Carlo, rimasto col padre e da lui messo in un collegio gratuito degli Scolopi a Volterra [Ndr – Scolopi ->da Escolapios = Scuole Pie].
Lei si rese subito conto che la battaglia legale per ottenere la separazione sarebbe stata durissima. Ebbe con Dembowski alcuni tempestosi incontri, durante i quali lui riuscì, con la prepotenza, a sottrarle anche il secondo figlio Ercole. Fu solo grazie all’intervento provvidenziale della granduchessa Julie, che Metilde, chiesto il suo aiuto, riuscì ad ottenere protezione dal governatore militare della Lombardia, il conte Ferdinand Antonín Bubna von Littitz, diretto superiore del generale Dembowski, a Milano, che impose al suo sottoposto, l’immediata restituzione alla madre, del piccolo Ercole di soli 4 anni.

conte Ferdinand Antonín Bubna von Littitz,

L’iter burocratico per l’ottenimento della separazione, allora già difficilissimo in condizioni normali, era ulteriormente complicato dal fatto che la legislazione era anche da poco cambiata, avendo il codice napoleonico introdotto anche in Italia il divorzio, e l’ingerenza della Chiesa nelle politiche familiari era sempre molto pesante, essendo sostanzialmente contraria alle riforme apportate dal nuovo codice [Ndr. – I giudici ancora ora venivano minacciati di scomunica qualora avessero emesso una sentenza contraria ai dettami della religione. Quindi, per loro, ogni minimo cavillo era buono pur di evitare di emettere una sentenza non gradita alla Chiesa e subirne le conseguenze]. Fu una grande battaglia quella per ottenere la separazione; una battaglia di cui possiamo riconoscere il carattere politico, etico e civile, visto che il ruolo di “separata” non era certo molto accettato e che il Dembowski  era un militare di carriera e con una posizione di tutto rilievo.

Tornata in Svizzera col bambino, Metilde si dette quindi attivamente da fare per garantirsi la protezione delle personalità più in vista. La sua preziosissima amica granduchessa Julie si prodigò per lei chiedendo il personale interessamento alla vicenda da parte di Franz Joseph Saurau  il governatore della Lombardia, oltre che addirittura l’intervento in prima persona, del cancelliere Metternich a Vienna. 

Un primo accordo (1816)

Nell’ottobre del 1816 tornò a Milano per definire la sua causa di separazione, contando sulle influenti relazioni della sua amica duchessa, per ottenere un esito il più possibile favorevole. Vi fu, in effetti, un primo accordo col marito, in presenza del capo di lui, Antonin Bubna, in attesa della sentenza definitiva. Questo prevedeva che, sino a conclusione della causa, lei sarebbe dovuta ritornare con il figlio Ercole nella casa di Dembowski, in via del Gesù, coabitando con lui, naturalmente in letti e camere separate.

La sentenza della causa di separazione (1817)

A luglio 1817, la sentenza si concluse disponendo la definitiva separazione fra i due coniugi. Metilde aveva vinto la sua battaglia, ma solo a metà: poteva infatti sì, vivere finalmente in libertà lontano dal suo ex-marito, ma perdeva entrambi i figli che lei amava tantissimo e che i giudici affidarono in via definitiva al padre. A lei sarebbe solo rimasta la possibilità di vederli di tanto in tanto.

Vita da “separata” (1818)

Concluso quel doloroso capitolo della sua vita privata, Metilde si trasferì nei primi mesi del 1818, nell’appartamento al secondo piano, del bellissimo Palazzo Besana, in piazza Belgioioso 1175, lì dove un tempo c’era Palazzo Viscontini. Il palazzo era proprietà del fratello Ercole. Lei, ventottenne, nel pieno della sua giovinezza, come avrebbe potuto riempire le sue giornate, pur sempre all’insegna del riserbo e della discrezione? Le malelingue l’avevano “scottata” a sufficienza e le avevano insegnato che bisognava stare più attenti e guardinghi! Sentendo, grazie alla ritrovata tranquillità, la necessità di rinascita personale, pensò di dedicarsi all’impegno civile, per rendersi in qualche modo utile alla società. Al pari di quanto stava già facendo la cugina Bianca Milesi, anche lei pensò di aprire il suo salotto alle proprie amicizie liberali. Era non solo l’occasione per conoscere nuova gente, ma pure un modo per fugare le tristezze e i brutti pensieri che inevitabilmente riaffioravano nei momenti di solitudine.

Palazzo Besana in piazza Belgioioso 1175 – Milano (Foto Giovanni Dall’Orto)

La saletta azzurra

Era un salotto culturale ove intellettuali, romantici e giovani di idee liberali, potessero ritrovarsi a conversare fra loro dei temi di maggiore attualità. La rivoluzione francese aveva risvegliato le coscienze, il desiderio di libertà, d’indipendenza. Era un modo per contribuire a dare una mano per permettere ai patrioti di organizzare possibili piani di liberazione. Le conversazioni fra quelle mura favorirono dapprima la preparazione del “Conciliatore”, organo del Romanticismo milanese, e, poi, di fronte all’inasprirsi del controllo censorio e poliziesco austriaco, la pianificazione dell’insurrezione del ‘21, a cui anche Metilde partecipò in prima linea.

La chiamavano “la saletta azzurra“, perché Metilde l’aveva fatta tappezzare, a suo gusto, con carta da parati di un celestino pallido, e l’aveva arredata con eleganti poltroncine imbottite di seta color azzurro cielo, espressione del suo gusto sobrio e raffinato. Fra i più assidui frequentatori del suo salotto, vi erano i coniugi Teresa Casati e Federico Confalonieri (patriota), l’abate Ludovico di Breme (scrittore, saggista) il grande romantico seguace di Madame de Staël, Giuseppe Pecchio (politico e storico) col quale sembra che Metilde ebbe anche una liaison amorosa, la cugina Bianca Milesi Moyon (scrittrice e pittrice)  Pietro BorsieriCamilla Besana Fé o Maria Frecavalli, per citare i nomi più noti.

La parentesi Henri Beyle (1818 – 1821)

Fu proprio lì, in quella saletta azzurra, che, accompagnato dall’amico avvocato Giuseppe Vismara, il trentacinquenne scrittore francese Henry Beyle (non ancora noto, all’epoca, con lo pseudonimo Stendhal) ebbe modo di incontrare per la prima volta Metilde, (da lui chiamata Métilde). Ammaliato dalla sua dolcezza, irretito dal suo fascino, per Henri quell’incontro fu un autentico “coup de foudre” (colpo di fulmine). S’innamorò pazzamente di lei ma, purtroppo per lui, lei non gli riservò altro che la propria semplice amicizia: aveva probabilmente, anzi sicuramente, un altro amante, ma il suo dolcissimo sorriso era sempre velato di tristezza. Soprattutto perché, ed era sicuramente questa forse la cosa che la corrucciava maggiormente, pensava di continuo ai propri due figli, ingiustamente affidati, per sentenza, all’ex-marito violento. Incapace di amarli, si era subito sbarazzato di loro, parcheggiandoli il più lontano possibile da Milano, in quell’istituto dei padri Scolopi di Volterra. Avrebbero potuto studiare tranquillamente a Milano, ma quello era l’ennesimo dispetto del marito nei confronti della moglie che così aveva maggior difficoltà a raggiungerli. Ma erano ancora piccolini e bisognosi di attenzioni e di affetto: Carlo fra poco avrebbe compiuto 10 anni, Ercole doveva farne appena 6.

Marie-Henri Beyle (Stendhal)

Incapace di controllarsi, Henri era tanto preso da lei da comportarsi spesso in maniera irrazionale. Per lei avrebbe fatto delle autentiche pazzie. Non visto, aveva preso l’abitudine a seguire ossessivamente gli spostamenti di “Métilde” con pedinamenti e a prestarle attenzioni indesiderate . Più volte, di nascosto la seguì fuori Milano, ora a Desio, ora a Volterra, dove lei si recava in visita ai suoi figli. A luglio, mentre lui era a Bologna, in vana attesa di una lettera della sua amata, ricevette la notizia della morte, in Francia, del padre, Chérubin Beyle, avvenuta il 10 giugno. Costretto a tornare a Grenoble per le esequie e le questioni ereditarie conseguenti, lasciò Metilde in pace per qualche mese. Il 22 ottobre Stendhal era già di ritorno a Milano, trovando una Metilde che, incollerita per la sua assiduità invadente e le sue patetiche dichiarazioni d’amore, gli impose di diradare le sue visite. Era evidente che lei, col suo atteggiamento, pur stimandolo e volendo mantenere l’amicizia, faceva vedere di non essere per nulla interessata a lui (probabilmente anche per non dare motivo alle male lingue, di essere ulteriormente chiacchierata). Per Stendhal, era chiaro che il suo amore era destinato a restare puramente platonico «vivendo solo di immaginazione», tuttavia non riusciva a frenare l’impulso di continuare a cercarla tanto che a dicembre, a causa delle sue incontrollabili insistenze, pare, venne da lei messo letteralmente alla porta. Passava sotto la sua casa, guardava le sue finestre sperando di vederla: in una notte del maggio del 1820 la intravvide in casa con il conte Pecchio e … si rose di gelosia.

Aveva intanto ripreso a scrivere il De l’Amour, un vecchio progetto iniziato anni prima in patria, e che ora tornava attuale, rappresentando un momento di riflessione, un modo come un altro per continuare a pensare a lei, per mettere a nudo il suo cuore, descrivere le proprie pulsioni, giustificare le proprie sconfitte e scagionarsi per il proprio comportamento irrazionale nel ricordo del suo infelice amore per quella “Métilde” che lo stava facendo impazzire.

“L’amore è desiderio, e il desiderio ha per oggetto la bellezza: così l’amante è anche artista, ama e apprezza il bello guardandolo a distanza, come fosse un quadro, un paesaggio e, perché no, anche la donna amata. E poiché il desiderio si nutre di immaginazione, che è una presa di distanza dalla realtà, l’avventura con Metilde diventò, nella fantasia di Stendhal, da una passione non ricambiata, quale realmente fu, un amore che Metilde non poté ricambiare perché ella amava troppo Stendhal [rif. – Wikipedia].

PILLOLE DI STORIA
I tempi stavano cambiando rapidamente: il 5 maggio 1821, la morte di Napoleone a Sant’Elena aveva segnato la fine definitiva di un’epoca. Era già dal giugno del 1815, all’indomani del Congresso di Vienna, che era partita la “Restaurazione”, cioè quel movimento reazionario teso a contrastare le idee della Rivoluzione francese. Voleva essere il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa e il tentativo anacronistico, in seguito alle sconfitte militari di Napoleone, di ritornare all’Ancien Régime (antico regime) precedente la Rivoluzione francese. La restaurazione non suscitò, all’inizio, forti opposizioni, perchè la grande maggioranza della popolazione era composta da masse rurali che subiva l’influenza dei nobili e del clero fra le cui file, la Restaurazione trovava i sostenitori più convinti. I gruppi di opposizione erano composti viceversa da elementi della borghesia, cioè da quelle classi che, le trasformazioni del periodo precedente, avevano portato avanti e che ora, si vedevano, con la Restaurazione, ostacolare le vie del progresso e soprattutto minacciare quell’uguaglianza raggiunta, che era stata la più preziosa conquista della rivoluzione. Vedevano inoltre allontanarsi quella libertà dal giogo straniero, tanto auspicata e che molti si erano illusi di conquistare, rovesciando il regime napoleonico. Fu così che nacquero le prime sette, le società segrete, e la famosa Carboneria le cui azioni, pur lodevoli per principio, erano destinate a fallire per eccessiva frammentarietà, mancanza di coordinamento e di un chiaro programma di rinnovamento nazionale che permettesse di ottenere il consenso e la sollevazione di larga fetta dell’opinione pubblica.

Si era in pieno Romanticismo:
Il Romanticismo in realtà, non è il logico, coerente sviluppo deduttivo di un’idea, né un gruppo circoscritto di fenomeni riducibili a un’unica causa, né tanto meno un sistema di pensiero chiuso, ma un ‘modo di sentire’, a cui s’intona tutto un vario modo di pensare, di poetare e di vivere, e perciò a rigore non può essere definito, ma soltanto indagato nelle sue origini, seguito nel suo svolgimento, rilevato nelle sue tendenze più rappresentative. [rif. Treccani]

L’amore romantico è il principio secondo il quale il matrimonio è un effetto dell’amore e non viceversa.
Secondo questa idea,  fra due persone che si incontrano, prima nasce l’amore  e per questo si sposano. La tradizione precedente (praticamente universale) invece riteneva che due persone prima si dovessero sposare e per questo fra di loro sarebbe nato l’amore.

Stendhal, non avendo mai intuito l’attività cospirativa dell’amata, scambiò probabilmente la particolare riservatezza di Metilde in quel periodo, per arroganza e freddezza nei suoi confronti. Sospettato poi dagli amici milanesi di essere una spia austriaca, e dalla polizia di essere viceversa un cospiratore della Carboneria, enormemente amareggiato, dopo aver visto per l’ultima volta Metilde, il 7 giugno 1821, la settimana successiva (il 13 giugno) lasciò definitivamente Milano per la Svizzera, diretto in Francia, dove l’anno successivo avrebbe pubblicato il “De l’amour“. Era partito subito perché, sorvegliato dalle spie, rischiava di essere catturato perché sospettato di complicità nella cospirazione costituzionale, già fallita il 7 aprile di quell’anno, con la vittoria delle truppe di Bubna (il governatore militare della Lombardia) sul Ticino.

Le “giardiniere

Forse, al contrario di quanto sospettava l’innamorato Stendhal, Metilde non aveva propriamente una relazione con il conte Giuseppe Pecchio, ma si vedeva con lui perchè erano entrambi affiliati alla “Società dei Federati“, un circolo cospirativo legato ai liberali piemontesi, che si proponeva di suscitare un’insurrezione a Milano contando sull’appoggio del principe di Carignano. Del resto, Federati erano quasi tutti gli amici di Metilde, Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, Giuseppe Pecchio, Bianca Milesi, Ludovico di Breme, Camilla Besana Fè, Giuseppe Vismara.

Le “giardiniere”  (nome bellissimo che si riferiva probabilmente a divinità femminili come Astarte, Cibele, Afrodite, etc, espressioni della Madre Terra primigenia) furono, al pari della società segreta dei “carbonari”, donne di origine borghese, ispirate da forti sentimenti romantici: animate dalla lotta contro gli austriaci, molte di loro furono anche incarcerate. Bianca Milesi Moyon, Maria Gambarana Frecavalli, Metilde Viscontini Dembowski, Teresa Casati Confalonieri.

Ndr. –
Giardiniere: con questo termine venivano chiamate tutte le donne che, appartenenti alla Carboneria, invece che radunarsi alle “vendite” si incontravano nei loro giardini. Ogni raggruppamento, giardino formale o aiuola, era composto da nove donne e, per entrare a farvi parte, queste dovevano superare un lungo periodo d’indagine:·
.
Apprendista: Era questo il primo livello: il motto era Costanza e Perseveranza, e in esso venivano illustrati i programmi operativi in atto.
Maestra Giardiniera: Era il secondo livello: il motto era Onore e Virtù; vi si arrivava dopo un lungo periodo di tirocinio. Era un livello piuttosto impegnativo e le donne erano autorizzate a portare un pugnale infilato tra calza e giarrettiera.

Segno di riconoscimento per tutte era il disegnare con la mano un semicerchio, toccandosi la spalla sinistra, poi quella destra e alla fine battere tre colpi sul cuore, il numero sacro e perfetto.

Le “giardiniere” che si incontravano nei giardiniVittorio Matteo Corcos (1859-1933)

Le preoccupazioni della Chiesa

Pare che la Società segreta dei Federati fosse già nata qualche anno prima. In una preoccupata lettera del settembre 1819. il Cardinale Segretario di Stato Ercole Consalvi parlava della nascita a Milano di una nuova società segreta, sotto il nome di società romantica, della quale facevano parte anche le donne; il suo scopo era “il persuadere i suoi membri che l’Uomo non è soggetto ad alcun principio di Religione o di morale, ma che deve seguire solo le leggi della sua natura”.

L’incredulità degli Austriaci

Inizialmente l’attività di queste donne non fu presa completamente sul serio. Solo dopo il fallito tentativo rivoluzionario del 1821 e dopo che furono giunte diverse notizie da Napoli su una Società delle Giardiniere, le cui componenti erano solite tenere un pugnale nella giarrettiera e usare un linguaggio molto acceso, l’Autorità austriaca cominciò a chiedersi se queste società esistessero realmente e soprattutto perché vi erano delle donne. Il pregiudizio comune considerava l’intelligenza e l’animo femminili totalmente estranei alla politica ma esclusivamente orientati all’aspetto familiare-affettivo. La donna, in pratica, veniva unicamente vista nel suo ruolo di madre, moglie, sorella o amante.

La presa di coscienza della realtà

La preoccupazione nei confronti della partecipazione femminile al Risorgimento italiano trasparì evidente appena nel 1823 dalla missiva dell’Imperatore d’Austria Francesco I, al ministro della Polizia conte Seldnitzsky e di rimando al conte Strassoldo, governatore della Lombardia, in cui si raccomandava di aumentare i controlli e in particolare la sorveglianza delle “Giardiniere”. Come tali, vennero indicate proprio Camilla Fé, Metilde Dembowski, Bianca Milesi, le contesse Frecavalli e Confalonieri, ecc. essendo a conoscenza del loro “tenore antiaustriaco”, del fatto che fossero collegate con la Carboneria e del loro “preoccupante affaccendarsi”.

Fra le tante “giardiniere”, oltre a Teresa Casati, Teresa Agazzini, Amalia Cobianchi, Camilla Fé, Anita Garibaldi… pure Maria Gambarana Frecavalli (la nobile staffetta che, tra i suoi capelli, portava i messaggi che i congiurati lombardi si scambiavano con quelli del regno di Sardegna) e Bianca Milesi, femminista, battagliera, allieva del Canova e amica di Hayez, che non solo disegnò l’emblema tricolore del battaglione Minerva nel quale si arruolarono gli studenti di Pavia ma arrivò addirittura a inventare  la cosiddetta “carta frastagliata”, con cui i congiurati comunicavano secondo il sistema crittografato. Un foglio di carta bianco con dei tagli orizzontali, che permettevano di leggere messaggi segreti, in testi apparentemente normali.

Le “giardiniere cospiratriciil pergolato di Silvestro Lega (1826 – 1895)

Gli interrogatori (1821)

Dopo l’arresto quel 13 dicembre 1821, Federico Confalonieri fu obbligato, probabilmente sotto tortura, a spifferare i nomi degli aderenti alla società dei Federati che si riunivano nella “saletta azzurra”. Vennero quindi coinvolti tutti i nomi di quel salotto. Metilde fu incarcerata pochi giorni dopo di lui, in attesa di giudizio. Stendhal, che alla data, era già riparato in Francia, non ebbe conseguenze di sorta. Tanti vennero catturati, altri riuscirono a nascondersi.

Il 24 dicembre la Viscontini subì un primo, duro interrogatorio, perché sospettata di aver inviato del denaro al Pecchio, nel frattempo riparato a Madrid, e di aver divulgato un suo scritto. La sua casa fu perquisita e vi furono trovate lettere di Giuseppe Vismara, allora rifugiato a Torino, nelle quali lei risultava il tramite di spostamenti di denaro tra un fratello di Giuseppe Pecchio e lo stesso Vismara. Fu davvero bravissima, a rispondere alle domande degli inquisitori, un autentico capolavoro di abilità e dissimulazione: ammise tranquillamente i fatti comprovati ma politicamente irrilevanti, negando però di essere a conoscenza di una cospirazione e non rivelò nulla che potesse compromettere la posizione degli amici patrioti già catturati che conosceva, Silvio Pellico in primis. Seguì un secondo interrogatorio fiume due giorni dopo, il 26 dicembre, non meno pesante del primo. Lei non cambiò di una virgola, la sua deposizione iniziale. Così non trovando di cosa poterla incolpare, furono costretti, loro malgrado, a lasciarla libera. Nelle sue risposte, era apparsa sempre guardinga e controllata, perfettamente consapevole del pericolo che, ogni più piccola imprudenza, avrebbe comportato ritorsioni sia a lei che agli altri patrioti. Metilde si rivolse a questo punto al conte Bubna (il governatore militare della Lombardia), pretendendo di essere soggetta alla giurisdizione militare e non a quella civile, cosa che ottenne nel febbraio 1822.  Non fu più interrogata, né incriminata. Nonostante fosse stata coinvolta nell’inchiesta da Federico Confalonieri che sotto interrogatorio era stato costretto a nominarla, si dimostrò molto comprensiva con lui e non solo non gli portò mai rancore ma, anzi, fu ancora disposta, in seguito. ad aiutarlo.

L’attività politica di Metilde si esaurì praticamente quell’anno (1822), visti i pressanti controlli da parte della polizia su ogni suo movimento. Fu un anno comunque importante quello, per due eventi che la toccarono da vicino: il primo, la morte del suo ex marito Jan Dembowski, il 22 luglio 1822 ; il secondo, come diretta conseguenza del precedente, il rientro a Milano, in famiglia, dei suoi due adorati figli Carlo ed Ercole, dal collegio di Volterra, dove il padre li aveva confinati, per far proseguire loro gli studi a Milano, al collegio Longone.

Dopo la parentesi della “saletta azzurra”, si sentiva ora come svuotata. Tanti amici erano stati catturati, qualcuno addirittura finito allo Spielberg, altri condannati a morte, i più fortunati, fuggiti all’estero. Anche tante sue amiche erano finite in prigione, lei stessa, l’aveva evitata per un soffio ed era una sorvegliata speciale. Pure fra la gente comune avvertiva quel senso di disapprovazione nei suoi confronti, perché donna separata, condizione questa, ancora scarsamente accettata dalla società. Ma la sua infelicità maggiore traspariva dalla disperazione che si percepiva nelle sue ultime lettere alla granduchessa Julie, preoccupazione riguardo all’avvenire dei suoi figli in un’Italia ancora asservita, così diversa dagli ideali per cui lei si era battuta. Sentiva evidentemente che il male la stava indebolendo sempre più e si rendeva conto che la sua fine era ormai vicina. Sognava l’esilio e il ritorno agli anni trascorsi in Svizzera, come i meno infelici della sua vita. Fino all’ultimo, ormai priva di forze dall’incombere della malattia, Metilde continuò ad occuparsi di loro, soprattutto di Carlo, dal carattere più complesso e ribelle rispetto al fratello.

La morte (1825)

Metilde Viscontini Dembowski, la “maestra giardiniera”, si spense di tabe, il 1° maggio 1825, in casa della cugina Francesca Milesi Traversi. Era ancora giovane: aveva appena compiuto trentacinque anni. Rimpianta da tutti gli amici rimasti, era stata una delle protagoniste “invisibili”, ma non per questo, meno importanti, del nostro Risorgimento. Fu sepolta nel cimitero di San Gregorio. vicino al Lazzaretto. Quando questo camposanto venne dismesso alla fine dell’Ottocento, i suoi resti andarono dispersi come quelli di altri illustri cittadini come Andrea Appiani, Vincenzo Monti e Carlo Porta.

Ndr. – Tabe è una malattia del sistema nervoso, di natura luetica (sifilide), sindrome caratterizzata da grave e progressivo decadimento generale.
La malattia si sviluppa a notevole distanza di tempo dall’infezione primaria, di solito dopo 10 o 20 anni dal contagio, ed è relativamente più frequente negli uomini che nelle donne.[rif. – Treccani]

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