Skip to main content

Cecilia Gallerani

Il ritratto

LUDOVICO – « Mi raccomando Maestro, che sia un ritratto di dimensioni modeste, in modo che possa tenerlo nella mia camera, accanto al mio letto e che abbia qualcosa che evochi il nostro legame. »
LEONARDO – « Come desiderate, mio signore. A proposito, ho saputo che il re di Napoli Ferrante d’Aragona, vi ha appena investito del prestigioso titolo dell’Ordine dell’Ermellino, la massima onorificenza che può essere conferita da quel sovrano. Me ne rallegro. »
LUDOVICO – « E’ vero, e ne sono molto onorato. »
LEONARDO – « Mi felicito con voi signore. Mi metto subito all’opera per esaudire questa vostra richiesta.
»

Con simile scambio di battute, nel 1489, Ludovico Maria Sforza commissionava a Leonardo, il dipinto qui sopra.

Non ha certo bisogno di particolari presentazioni questo olio su tavola lignea di dimensione 54,8 x 40,3 cm. : è il celeberrimo ritratto della Dama con l’ermellino, ovvero quello di Cecilia Gallerani, la giovane nobildonna immortalata, da Leonardo da Vinci nel 1489, con in braccio l’ermellino, immagine quest’ultima dal doppio significato: da un lato, simbolo del suo amante e protettore, Ludovico Maria Sforza, il futuro duca di Milano, detto il Moro; dall’altro, essendo, tradotto in greco antico,  galê (γαλῆ), è una chiara l’allusione, per assonanza, al cognome Gallerani, secondo una tradizione tipica del passato sull’utilizzo di figure allegoriche da parte dell’artista.

Che questo poi, sia un dipinto di Leonardo, è assolutamente certo. E’ noto che durante il suo soggiorno a Milano dal 1482 in poi,  presso gli Sforza, Leonardo da Vinci eseguì un ritratto giovanile di Cecilia Gallerani, all’epoca, già amante del Moro. Lo confermano sia un sonetto celebrativo del poeta Bernardo Bellincioni (morto nel 1492), che le due lettere del 1498 (di cui accenno in seguito), intercorse tra Cecilia Gallerani stessa ed Isabella d’Este, proprio in merito a questo dipinto.

Dove si trova questo dipinto

Fino a tutto il XVIII secolo, i vari passaggi di proprietà ed anche la stessa ubicazione della Dama con l’ermellino appaiono estremamente confusi. È nota la sua acquisizione in Italia intorno al 1800, da parte del principe polacco Adam Jerzy Czartoryski (1734-1823), il quale intese regalare questo straordinario dipinto alla moglie Isabella, ispiratrice, con la sua collezione, del Museo omonimo nella città di Kraków (Cracovia) in Polonia, che ospita oggi, questo capolavoro.

Thumb image
Dama con l’ermellino, opera di Leonardo da Vinci

Le sue peregrinazioni

All’inizio della Seconda guerra mondiale, il dipinto, assieme ad altri pezzi della collezione Czartoryski, venne nascosto nel castello dei Re di Polonia (sulla collina di Wawel, dove sorge anche la cattedrale che, fondata nel 1364, negli anni ’70, fu l’arcidiocesi di Papa Wojtyla).
Rinvenuto, insieme agli altri pezzi, e portato via dai nazisti, durante l’invasione della Polonia nel settembre del 1939, a guerra finita, l’intera collezione fu recuperata dalle forze Alleate, e, consegnata nuovamente ai legittimi proprietari.
Questi ultimi poi, recentemente (nel corso del 2016), decisero di venderla  al governo polacco, e, da allora, quest’opera finalmente trovò la sua definitiva sistemazione al museo nazionale di Cracovia.

Da qui, è rientrato in Italia, per la prima volta dopo oltre 500 anni (1998-1999), per un grande tour, in tre tappe:  la prima al Quirinale a Roma dal 15 ottobre 1998 al 14 novembre; la seconda  alla Pinacoteca di Brera, a Milano, dal 19 novembre all’11 dicembre; e la terza a Palazzo Pitti a Firenze, dal 15 dicembre al 24 gennaio 1999.

Il soggetto

Ammirando questo magnifico ritratto, viene spontanea una domanda: chi era realmente questa Cecilia?
A parte la sua bellezza e l’eleganza del suo portamento, perché è così famosa? Vediamo di ricostruire qui di seguito, i tratti più salienti della sua vita.

I suoi primi anni

Cecilia era la settima, di una nidiata di ben otto figli (sei maschi e due femmine) dei Gallerani, una famiglia patrizia, originaria di Siena. La piccina era nata a Milano, nei primi mesi del 1473, nella casa di famiglia sita in contrada San Simpliciano.  I genitori di Cecilia, Fazio Gallerani (1414-1480) e Margherita de Busti,  pare che già dal 1455, si fossero trasferiti da Siena a Milano, esclusivamente per motivi politici (a causa della recrudescenza della secolare faida fra guelfi e ghibellini, nota fin dai tempi di Dante Alighieri). Infatti il padre di Fazio, Sigerio Gallerani, (quindi nonno di Cecilia), giurista affermato e convinto sostenitore del partito ghibellino, era stato costretto già verso il 1430, ad andarsene dalla sua città, per marcati dissapori con il resto della famiglia, prevalentemente di tendenza guelfa. Così, rifugiandosi a Milano, aveva fatto venire nel corso degli anni, nel capoluogo lombardo, quanti, fra i suoi parenti senesi, la pensavano come lui.

Nella capitale viscontea, notoriamente ghibellina, i Gallerani, pur essendo famiglia patrizia senese, non figuravano nell’elenco dei nobili locali, in quanto immigrati (ndr.- verranno annoverati fra il patriziato cittadino non prima del 1670). Riuscirono ugualmente ad ottenere incarichi di rilievo in ambito amministrativo, sia presso i Visconti, che successivamente, presso gli Sforza.
Sigerio Gallerani (il nonno di Cecilia) aveva trovato subito impiego come funzionario pubblico, carriera questa, poi proseguita dal figlio Bartolomeo. Pure Fazio (il padre di Cecilia), giunto a Milano, più tardi, attorno al 1455, non aveva avuto difficoltà a trovare impiego e si era messo al servizio dell’allora duca Francesco Sforza, svolgendo compiti amministrativi. Era ‘referendario delle tasse’ nel milanese, cioè incaricato di esaminare le ‘suppliche‘ dei milanesi, in tema fiscale. Portò avanti questa attività per diversi anni anche per conto poi, della duchessa Bianca Maria, (1425-1468), da quando la quarantunenne duchessa, rimasta vedova di Francesco Sforza, morto nel 1466, era temporaneamente subentrata nella reggenza del Ducato. I Gallerani appartenevano a quelle famiglie che costituivano l’apparato burocratico della corte degli Sforza. Come referente della corte ducale, Fazio poté garantire alla sua numerosa famiglia, un tenore di vita più che onorevole, favorito anche dalla sua privilegiata posizione che gli garantiva, oltre alle normali spettanze, l’ambitissima esenzione totale da qualunque tipologia di imposte. Acquisì così alcune proprietà, oltre che a Milano (in contrada San Simpliciano), pure in alta Brianza, ad Agrate, a Monza e a Carugate, dove si fece costruire una villa suburbana,  conosciuta come la ‘Gallerana‘. Tale edificio è l’attuale ‘villa Gallerani-Melzi d’Eril‘, che effettivamente conserva ancora oggi, diversi lacerti di affreschi quattrocenteschi.
Essendo dottore in legge, Fazio svolse pure nel 1467, per conto della duchessa reggente Bianca Maria, il ruolo di ambasciatore a Firenze, e nel 1470, per conto del figlio di lei – il nuovo duca Galeazzo Maria Sforza – analogo compito, in quel di Lucca.

Nel 1475, la concessione del diritto di attingere liberamente l’acqua dal Lambro per irrigare le sue terre ad Agrate, a Monza e Carugate, accordata a Fazio Gallerani da parte del duca Galeazzo Maria Sforza, fu motivo per scatenare un annoso contenzioso fra Fazio ed i canonici del Duomo di Monza, proprietari di terreni a valle, che vantavano analoghi diritti, sulla base di una concessione loro fatta circa cento anni prima, da Azzone Visconti, per gli stessi motivi. Ne nacque una bega giudiziaria che, andata per le lunghe, costò, al Fazio, la confisca di diversi suoi terreni a Carugate, quale risarcimento del danno subito.

La morte del padre

Aveva appena sette anni Cecilia, quando rimase orfana di padre. Fazio Gallerani morì il 5 dicembre 1480 all’età di 66 anni. Non particolarmente ricco, con processo ancora in corso e dagli esiti incerti, aveva fatto testamento, pochi giorni prima della morte, designando quali eredi universali di tutti i suoi averi, i sei figli maschi (Sigerio, Lodovico, Giovanni Stefano, Federico, Giovanni Francesco e Giovanni Galeazzo), e lasciando alle due figlie femmine (Zanetta e Cecilia), 1000 ducati  ciascuna per la loro dote, mentre alla moglie Margherita, il compito della tutela e dell’istruzione dei loro otto figli.
Con la morte del padre, venendo a mancare in casa la primaria fonte di reddito, e dovendo necessariamente continuare a portare avanti una famiglia così numerosa, si erano cominciate a manifestare in casa, le prime difficoltà economiche. A Cecilia, ad esempio, che, fin da piccina, aveva dimostrato un’intelligenza molto vivace ed una notevole attitudine verso gli studi, la madre non poteva più permettersi di farle avere come prima, dei costosi precettori. E questo fu, incredibilmente, un bene per la piccola, perché, essendo sua madre molto colta, si dedicò lei stessa all’educazione della figlia. Margherita riuscì a impartirle così tante nozioni, e ad inculcarle così tanti interessi, da fare di Cecilia, una delle donne più colte, brillanti e raffinate del suo tempo.

La sorella Zanetta

A dire il vero, fra le due sorelle, quella che pareva destinata ad emergere, sembrava essere Zanetta, la maggiore. Era più vivace e decisamente più spigliata di Cecilia, che forse anche per la sua ancor tenera età, appariva sicuramente ancora una figura di secondo piano. Sulla prima, aveva infatti posato gli occhi tale Aloisio Terzago, segretario e confidente di Ludovico il Moro, un soggetto decisamente in vista, ma anche molto chiacchierato e pericoloso. Zanetta, pur essendo ancora molto giovane, era diventata subito la sua amante. Poiché la posizione di factotum del Terzago era tale per cui, senza la sua preventiva autorizzazione, non si muoveva foglia, la cosa tornò comoda alla madre di lei che, favorendo questa ‘simpatia‘ fra i due, poté godere, da parte di Aloisio, di particolari favori e privilegi. Se, in ottica matrimoniale, la maggiore sembrava già bene avviata, per Cecilia, che, nel frattempo, era stata mandata, temporaneamente in convento a studiare, la madre si affrettò a cercare per lei un partito ugualmente adeguato.

Promessa di matrimonio

Fu così che, già nel 1483, quando Cecilia aveva soli dieci anni, sua madre l’aveva promessa in matrimonio a Giovanni Stefano Visconti di Crenna (24 anni più vecchio di lei), figlio di Francesco Visconti e Ginevra Corti. Il nome Visconti, era di per sé già una garanzia; Stefano poi, era parente di quei Visconti che erano stati anche signori e duchi di Milano, prima dell’avvento degli Sforza. In tal modo, Margherita avrebbe tutelato la figlia, evitandole di finire i suoi giorni in convento, crudele destino previsto per tutte le ragazze che non avessero trovato marito. Era un po’ la corsa all’accaparramento del maschio! Secondo contratto, il matrimonio col Visconti avrebbe dovuto essere celebrato, al compimento del dodicesimo anno della ragazza, quindi, entro il 1485.

Quando, nel 1485 appunto, Cecilia raggiunse l’età minima per convolare a nozze col Visconti, il matrimonio non si poté fare , perché la famiglia Gallerani si trovò nell’impossibilità di garantire, al futuro sposo, la dote pattuita a causa di sopravvenute difficoltà economiche.
Pare in proposito, che a causa del contenzioso ancora aperto con i canonici di Monza, nonostante fosse già stata operata la confisca dei terreni di Carugate, anche l’eredità del Fazio ai figli, fosse rimasta congelata, in attesa di una soluzione definitiva della vertenza [Ndr. – I tempi della giustizia allora, non erano, evidentemente, molto dissimili, da quelli di oggi].
Trovandosi quindi i Gallerani in temporanee difficoltà finanziarie, le nozze di Cecilia vennero rinviate in attesa venissero sbloccati i fondi per il versamento della dote pattuita. Le cose andarono per le lunghe al punto che, alla fine, passati ulteriori due anni, nel giugno del 1487, la promessa di matrimonio venne formalmente sciolta, anche perché, nel frattempo, Cecilia, improvvisamente sbocciata come uno splendido fiore, era stata adocchiata da un altro scapolone impenitente, Ludovico il Moro, che, particolarmente sensibile al fascino femminile, si era follemente invaghito di lei. Non è noto quando avvenne di preciso il primo incontro tra Cecilia e il Moro: pare, fosse stato lo stesso Aloisio (il segretario di Ludovico), a presentare Cecilia al Moro, in occasione di una festa al Castello, a cui aveva invitato entrambe le sorelle.

Amante di Ludovico il Moro

La bellezza, ma anche l’eleganza, l’educazione e la gentilezza, queste erano le doti di Cecilia, che avevano maggiormente colpito Ludovico fin da quel primo incontro. I due cominciarono subito a frequentarsi nonostante la sensibile differenza d’età. Lei aveva soltanto 14 anni e lui 35. All’epoca, una relazione tra una ragazza così giovane, ed un uomo decisamente più maturo, a differenza di oggi, non era ritenuta così anche strana o comunque sconveniente. Questo, probabilmente perché la prospettiva di vita era limitata, e le donne in particolare, dovevano garantire una prole numerosa. Infatti, poco tempo dopo, venne accolta in un bellissimo appartamento, tutto per lei, alla Rocchetta del Castello Sforzesco. E la relazione di Cecilia con Ludovico, pur non essendo ufficiale, era pubblicamente accettata e riconosciuta da tutti.

Quanto a Zanetta, la sorella maggiore che prometteva così bene, la sua storia ebbe un risvolto imprevisto e, per certi versi, anche drammatico: il suo amante, Aloisio Terzago, finì giustiziato per tradimento, e lei rimase successivamente invischiata pure nell’omicidio di un altro amante che aveva iniziato a frequentare, (un esponente della nota famiglia Taverna), fatto fuori, in un agguato tesogli da Sigerio Gallerani, il maggiore dei suoi fratelli. In quell’occasione, il Moro stesso dovette intervenire personalmente, per fare da paciere tra la famiglia dei Gallerani e quella dei Taverna, prendendo le difese del fratello di Cecilia e Zanetta.

Grazie anche alla provvidenziale protezione di Ludovico, Cecilia, rimasta fortunatamente immune da queste brutte vicende, divenne, a soli sedici anni, la signora dei salotti e degli artisti. Era colta, era bella, sapeva ricevere e soprattutto sapeva incantare, con quel suo distaccato modo di relazionarsi, che faceva perdere la testa a chiunque la frequentasse. Persino Leonardo da Vinci ne rimase affascinato, per quella sua eleganza e naturalezza.

Nel 1489, visto il perdurare dei problemi finanziari della famiglia, i fratelli Gallerani, probabilmente proprio perché forti di un appoggio così altolocato, depositarono a corte una petizione, con la richiesta di restituzione di alcune delle terre confiscate, già proprietà del loro padre. Al momento della suddetta petizione, Cecilia non era più dimorante nella casa paterna, ma risultava domiciliata in una non meglio specificata abitazione situata nella parrocchia del Monastero Nuovo; quest’ultima dimora poteva essere il luogo segreto predisposto dal Moro per i suoi incontri amorosi con la giovane Cecilia, le cui grazie avevano fatto letteralmente perdere la testa a Ludovico.

La Gallerani era la sua amante indiscussa, anche se venivano annunciate ormai imminenti le nozze tra lui e Beatrice d’Este. Naturalmente Ludovico non poteva essere entusiasta per queste nozze, perché avrebbero ovviamente limitato i suoi rapporti con l’amante. La cosa più inquietante era il fatto che non conosceva assolutamente la futura sposa (non avendola personalmente mai vista in vita sua) e avrebbe avuto modo di conoscerla, per pochi minuti e in presenza di altri, solo a pochi giorni dalle preannunciate nozze. Ma chi era questa Beatrice, uscita dal nulla?

Per capire meglio la storia legata a Beatrice d’Este (1475-1497), vale davvero la pena, a questo punto, fare una digressione su Ludovico il Moro, tornando indietro di qualche anno.

L’ANTEFATTO
Essendo il quartogenito dei sei figli maschi dei duchi di Milano, Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, nonostante Ludovico fosse un soggetto amante delle lettere ed avesse una grande predisposizione verso la politica ed il governo, non essendo destinato a ruoli di comando, non fu tenuto dai genitori in grande considerazione rimanendo relegato in famiglia ad essere una figura di secondo piano; questo almeno fino a quando, quel 26 dicembre 1476, non venne assassinato il fratello maggiore Galeazzo Maria Sforza proprio colui che, si sospettava, avesse avvelenato, nel 1468, la sua stessa madre, Bianca Maria Visconti. Poiché secondo la regola, il Ducato passava di padre in figlio, (il primo figlio maschio legittimo, anche se minorenne), morto il duca, il nuovo governo venne temporaneamente affidato alla vedova Bona di Savoia (in qualità di reggente per conto del figlio minorenne Gian Galeazzo Maria Sforza), e al navigato consigliere Cicco Simonetta. Ma il governo(con secondi fini) del Simonetta venne molto malvisto dai milanesi e così i fratelli del defunto duca si ribellarono. Tralasciando una serie di burrascose vicende che porterebbero lontano, Ludovico fuggito da Milano con i suoi fratelli, organizzò (con l’aiuto del re di Napoli, Ferdinando I d’Aragona (Ferrante), un piccolo esercito per marciare sulla città e prendere il potere. Nel 1479 il Moro aveva anche ottenuto dal re di Napoli, il Ducato di Bari. Così, nel 1480, il Moro tornò nuovamente a Milano minacciando uno scontro armato (che lui stesso non aveva alcuna intenzione di fare). Le sue mire di potere, lo portarono a considerare, fra le varie opzioni, un matrimonio di convenienza, che, indirettamente, lo portò a Beatrice d’Este.

I MATRIMONI PIANIFICATI A TAVOLINO

Nel 1480, Ludovico il Moro, per farsi nominare duca di Milano, evitando inutili spargimenti di sangue, aveva progettato di sposare la cognata duchessa Bona di Savoia rimasta vedova. Il piano però, non andò esattamente così. Bona, da sempre abituata ad una vita licenziosa (notoriamente marito e moglie si cornificavano a vicenda senza grossi problemi), tornata felicemente libera, dopo la morte del duca, si era pazzamente innamorata del suo cameriere, tale  Antonio Tassino. Poiché ora le pressanti avances del cognato, intenzionato a portare a compimento il suo progetto con lei, ostacolavano le sue tresche amorose col cameriere, Bona pensò bene di darsi da fare, per procurargli una moglie. Rivolgendosi pertanto ad Ercole I d’Este, duca di Ferrara, gli chiese, a nome di Ludovico, la mano della sua primogenita, Isabella, Non essendo la cosa realizzabile perché la giovane era appena stata promessa a Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e non volendo Ercole d’Este rinunciare all’apparentamento con lo Sforza, che all’epoca, era uno degli uomini più ricchi ed influenti della penisola, questi avanzò la proposta di cedergli la sua secondogenita Beatrice. L’unico problema era cche, costei fin dall’età di due anni non viveva con i genitori a Ferrara, ma a Napoli, affidata al nonno materno re Ferrante d’Aragona (padre di Eleonora, la madre di Isabella e Beatrice), per essere educata nella corte reale aragonese.
Consultato da Bona solo a trattative quasi concluse, Ludovico non poté che mostrarsi contento dell’iniziativa della cognata; in verità le uniche cose che lo turbavano erano da un lato l’interferenza con i suoi progetti (di diventare duca sposandosi con Bona) , e dall’altro, la grande differenza d’età fra i due promessi: lei 5 anni, lui 28.
Il re di Napoli, Ferrante, comunque acconsentì al fidanzamento, e il 30 aprile 1480, si tennero gli sponsali fra i due. L’alleanza con gli Sforza, si rivelò molto utile al Ducato di Ferrara, costantemente minacciato dall’espansionismo  veneziano.

Nel 1484, la figlia di Ferrante, Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria, propose alla sorella Eleonora (moglie di Ercole d’Este, duca di Ferrara) uno scambio: la primogenita Isabella (già promessa al Gonzaga) avrebbe sposato il re di Boemia Ladislao II, Beatrice si sarebbe presa il Francesco Gonzaga (già promesso ad Isabella), e quanto al Moro, gli si sarebbe potuto dare un’altra nobile napoletana.
Eleonora le rispose che questa “permuta” non era possibile, sia perché Isabella era già amatissima dai Gonzaga, sia perché Beatrice era sotto l’assoluta potestà del nonno Ferrante. Le suggerì tuttavia di proporre a papà Ferrante di fidanzare segretamente Beatrice a Ladislao, così da garantirle un ‘marito di riserva’, nel caso in cui Ludovico il Moro avesse optato una moglie “più conforme a la sua età”.

Nel 1485, si presentò all’orizzonte un nuovo possibile partito: il marchese Bonifacio III di Monferrato, aitante ultrasessantenne, vedovo e senza eredi, ma ancora “viripotens”. Questi avanzò l’ipotesi di voler sposare Beatrice; la proposta però, per fortuna della piccola, non ebbe seguito, probabilmente, sia per l’enorme differenza d’età (51 anni), sia perché il marchese necessitava di una moglie in età fertile (e Beatrice, alla data, avendo solo 10 anni, non lo era ancora!).
Quello stesso anno, Ludovico insistette con i suoceri affinché Beatrice gli fosse mandata a Milano, così da poter ‘educare’ la futura moglie, a modo suo. A dispetto della disponibilità subito prospettata dai genitori, re Ferrante gliela negò con “buone et vive ragioni”, dicendo che la piccola aveva soltanto dieci anni, che per lui era come una figlia e che non era pronta per le nozze. Temeva infatti che il Moro volesse consumare precocemente il matrimonio. Quest’ultimo si accontentò pertanto, che la bambina rientrasse quantomeno a Ferrara, sia per essere educata in una corte più consona al suo ruolo, sia soprattutto per poterla più facilmente venire a visitare (cosa che poi non fece mai). Non fu mai chiara la ragione di tanta insistenza, da parte di Ludovico, ma i milanesi avevano senz’altro una pessima opinione dei napoletani, essendo loro nota la perversione di re Ferrante. Questi insistette ugualmente a negargliela, adducendo fra le varie motivazioni che, se il Moro fosse morto precocemente, il padre (Ercole d’Este) non sarebbe stato in grado, a differenza di lui, di trovarle un buon marito. Si offrì perfino di farle la dote al suo posto, pur di convincerlo a desistere.

Ludovico adirato, arrivò persino a minacciare lo scioglimento della promessa nuziale: cosa questa che non turbò minimamente Ferrante, pronto a trovare per la nipote un partito migliore. La minaccia di scioglimento turbò invece grandemente i genitori di Beatrice, bisognosi com’erano dei favori del Moro (per le sortite veneziane). Eleonora supplicò accoratamente suo padre Ferrante di restituirle la figlia. Dopo mesi di trattative, lui accettò a malincuore di separarsi dalla nipote. Pentito, e a tratti riluttante, adducendo vari pretesti, ritardò, di altri due mesi la partenza della nipote, che avvenne nondimeno ai primi di settembre: Beatrice partì tra il compianto generale dei parenti e dell’intera città di Napoli. Più forte si mostrò il nonno: egli l’accompagnò tenendola per mano, poi a cavallo, per una parte del tragitto, infine la salutò “abrazandola et basandola, et dicendoli alcune molto benigne et filiale parole”, benché Beatrice piangesse disperatamente,

Ferdinando I 1423 -1494, (chiamato Ferrante), re di Napoli

Sia all’avvicinarsi delle nozze ducali, che successivamente, dopo il matrimonio del Moro con Beatrice d’Este, la relazione tra lui e la Gallerani, come vedremo, non si arrestò affatto.
Secondo Vincenzo Calmeta (segretario di Beatrice d’Este), Ludovico, finché non si sposò, trattò Cecilia con tutte quelle premure e quegli onori “che non a femina, ma a mogliere [moglie] sariano state convenienti”.

Ludovico il Moro

La relazione tra i due amanti, è documentata da un’esplicita lettera dell’ 8 novembre 1490, in cui Giacomo Trotti (ambasciatore estense presso la corte degli Sforza), scriveva ad Ercole I d’Este, duca di Ferrara, manifestando, giustamente preoccupato, qualche perplessità sul fatto che il Moro desiderasse effettivamente avere ‘tra i piedi’ «la madonna duchessa nostra» (cioè Beatrice d’Este), poiché
« …. il Signor Ludovico è stato preso da attacchi di febbre terzana e questo potrebbe anche dipendere dalla frequentazione con quella sua inamorata che ‘l tene in castello et da per tutto dove il va, a la quale il vole tuto il suo bene et è gravida et bella come un fiore …».
A detta del Trotti quindi, quella infatuazione per Cecilia, costituiva, per il futuro duca di Milano, una vera e propria malattia, « … bastasse vedere come si era ridotto fisicamente ….»

Il matrimonio del Moro con Beatrice d’Este

Il 18 gennaio 1491, dopo diversi rinvii, richiesti questa volta da Ludovico, che dettero addirittura l’impressione ai futuri suoceri che lui non avesse alcuna reale volontà di sposarsi, vennero finalmente celebrate a Pavia, in pompa magna, le nozze fra il Moro e l’allora quindicenne Beatrice d’Este, alla presenza della madre di lei, Eleonora d’Aragona, della sorella Isabella e del fratello quattordicenne Alfonso, futuro duca di Ferrara. Fra l’altro, a rinsaldare il legame fra i d’Este e gli Sforza, il matrimonio fu doppio, in quanto il giorno successivo (19 gennaio), si celebrarono nella medesima chiesa, a Pavia, in tono minore rispetto al giorno prima, le nozze fra il fratello minore di Beatrice, Alfonso (quattordici anni), con la sua coetanea Anna Maria Sforza – nipote di Ludovico – figlia del duca defunto e di Bona di Savoia.

Beatrice d’Este

IMPREVISTE DIFFICOLTA’

A partire dal giorno stesso del matrimonio di Ludovico con Beatrice, si venne a creare una situazione imprevista e imbarazzante, poiché il Moro, sia la prima notte di nozze, che le successive, andò totalmente in bianco. I bene informati riferiscono che ciò non dipendeva assolutamente da lui, bensì dalla sposa, la quale, inizialmente entusiasta all’idea delle nozze, da quando era arrivata a Pavia, s’era fatta improvvisamente schiva e silenziosa; “mezza persa” , così la definiva  l’attentissimo l’ambasciatore Giacomo Trotti, riferendo la cosa a Ferrara, al padre di lei (il duca Ercole I d’Este). Beatrice evidentemente non provava alcuna attrazione verso il trentottenne, aitante marito e si ribellava vivacemente ad ogni suo tentativo di possederla. Ludovico, come ebbe modo di spiegare lui stesso alla suocera, non voleva forzarla per non farle dispiacere, preferendo attendere con pazienza, che fosse lei disposta a concedersi liberamente.
Inizialmente comprensivi verso la timidezza della loro figlia, sperando infatti che la situazione si sarebbe risolta nel giro di pochi giorni, i duchi di Ferrara iniziarono a preoccuparsi e a fare pressioni sulla figlia, quando si resero conto che ancora, a distanza di tante settimane, il matrimonio risultava non consumato. Sebbene l’inadempimento fosse tenuto strettamente segreto (all’infuori degli sposi,  ne erano a conoscenza, solo i duchi di Ferrara, l’ambasciatore TrottiGaleazzo Sanseverino, il fedelissimo servitore della duchessa), comunque la situazione era a rischio, poiché senza consumazione, il matrimonio era invalido e passibile, in ogni momento, di annullamento.

Ndr.- A ripensarci, appare spassoso, per non dire singolare, il ruolo del Trotti, che, in veste di ambasciatore estense alla corte di Ludovico il Moro, aveva il compito di riferire quotidianamente per iscritto al duca Ercole, le confidenze che gli faceva il Moro, riguardo i suoi progressi a letto con Beatrice.

Da questa fitta corrispondenza, si viene a sapere che Ludovico aveva optato per una strategia improntata alla seduzione: blandiva la moglie con baci e carezze, dormendo abbracciato con lei per tutta la notte, facendo poi seguire le sue attenzioni con ricchissimi doni quotidiani. Ancora a metà febbraio, comunque, non era riuscito a concludere nulla: se ne lamentava col Trotti, dicendo di avere intenzione di recarsi da Cecilia e di trascorrere tutta la notte con lei in piacere, «poiché sua molgere [moglie] cussì voleva, per non volere stare ferma», e che quando andava nel suo letto ella “mostrava non il sentire, fingendo de dormire, dicendome che la sta salvaticha et vergognosa pure al sollito”. L’ambasciatore a sua volta rimproverava Beatrice della sua frigidità e la invitava a mettere «da canto tanta vergogna», poiché «gli homini vogliono essere ben veduti et acarezati, come è giusto et honesto, da le mogliere», ma senza troppo successo, in quanto ella gli si mostrava «un poco selvaggetta».

La vera e propria consumazione avvenne, pare, appena fra marzo e aprile, quando le lettere di lamentele del Trotti si trasformarono in elogi rivolti dal Moro alla moglie. Adesso egli dichiarava di non pensare più a Cecilia, ma solo a Beatrice, «a la quale el vole tutto il suo bene, et de epsa piglia gran piacere per li suoi costumi et bone maniere», lodandola perché «la era lieta de natura […] et molto piacevolina et non mancho modesta». Ludovico giurava e spergiurava di non aver toccato più Cecilia dal secondo giorno di Carnevale, poiché era ormai troppo in là con la gravidanza («essendo grossa come l’è»), e di non avere intenzione di toccarla mai più, neppure dopo che avesse partorito. 

Non sembra, comunque, che Beatrice fosse particolarmente gelosa di Cecilia, anzi la sua presenza, probabilmente, le fece comodo inizialmente, per deviare da sé, i desideri del marito. Isabella d’Aragona, sua cugina, dichiarava di dolersi molto più lei, della presenza di Cecilia, che non la stessa Beatrice. Stando infatti alla sua testimonianza – mediata dalle lettere del TrottiBeatrice dichiarava di essere perfettamente a conoscenza della relazione extra-coniugale del marito, ma di fare finta di nulla: “La duchessa de Milano [Isabella] dixe [che] a lei molto più doleva de la Cecilia, che non a la duchessa de Bari [Beatrice], la quale saveva e intendeva il tutto, e le haveva dicto che fingeva non savere cosa alcuna, come se niente fosse, ma che non era sì ignorante e grossa [stupida] che non savesse e intendesse ogni cosa”. 

Cesare, il figlio naturale avuto da Ludovico

Il 3 maggio 1491, Cecilia diede alla luce Cesare, figlio di Ludovico, bimbo che il Moro legittimò dandogli il proprio cognome. Per la cronaca, questo era solo il sesto dei dodici figli, di cui nove illegittimi, che lui ebbe sia prima, che durante il matrimonio.

Ndr. – Ludovico, in segno di gratitudine per la nascita di questo figlio, sicuro frutto dell’amore, avrebbe ripagato Cecilia, donandole il feudo di Saronno nel territorio di Varese, oltre a diversi altri beni. Tra questi, il Palazzo Carmagnola di via Broletto, confiscato ai Dal Verme, che divenne luogo di ritrovo per letterati e personaggi dell’alta società.
In particolare, il feudo di Saronno, alla caduta del Moro, nel 1499, le verrà confiscato passando poi al nobile milanese Giovanni Stefano Castiglioni, che sia nel 1508 e sia nel 1513, le dovette devolvere una ingente somma pecuniaria, a titolo di risarcimento.

Quando Ludovico le comunicò alla moglie, con molta delicatezza, la nascita di Cesare, Beatrice se ne mostrò contenta. L’unica scenata di gelosia che gli fece, fu relativa non alla sfera sessuale, bensì a quella degli onori di corte: quando scoprì che il marito aveva fatto confezionare un abito uguale per lei e per l’amante, si adirò tantissimo e pretese che Cecilia non lo indossasse. Ciò avrebbe infatti significato porre entrambe le donne sul medesimo livello, sebbene Ludovico giurasse che la stoffa dell’abito della moglie fosse ben più preziosa rispetto a quella dell’abito donato a Cecilia.

La fine della relazione con il Moro

Quello che per qualsiasi amante rimasta incinta di Ludovico, sarebbe stato un trionfo avendo avuto da lui anche un maschio, per Cecilia segnò invece la fine della storia.
Nemmeno la giovane e bella Beatrice d’Este sarebbe riuscita comunque a strappare a Cecilia, la palma della primadonna, nel cuore di Ludovico! Ed è tutto dire, perché dai suoi coevi a corte, Beatrice era ricordata come la più bella donna del Rinascimento, e pure la più elegante, uscita da quella corte di Ferrara, che annoverava anche Isabella, come l’altra grande signora di quel periodo. La verità è che in Beatrice, c’era una freddezza, una testardaggine, ed un’alterigia, che Cecilia sicuramente non aveva. Probabilmente quest’ultima aveva dimostrato di possedere ciò che a tante altre donne mancava del tutto: l’intuito, per capire quando ci si doveva tirare indietro, avendo ancora il gioco in mano.

Lucrezia Crivelli (la belle ferroniere)

Non è chiaro come si sia effettivamente concluso il rapporto fra Ludovico e l’amante, né se Cecilia, comprendendo che la cosa non sarebbe potuta andare avanti in quel modo, lo abbia fatto di propria volontà o meno.
Certamente comunque, riuscì a uscire da questa relazione onorevolmente, a testa alta, senza scenate di gelosia, ma con notevole grazia, eleganza e soprattutto fermezza.

Una volta liberatasi dalla rivale Cecilia Gallerani, la serenità di Beatrice d’Este, sarebbe comunque durata molto poco, poiché nel giro di qualche anno un’altra bella donna sarebbe finita inopinatamente tra le braccia del suo fedifrago marito e le avrebbe procurato nuovi dolori: Lucrezia Crivelli.

Il matrimonio di Cecilia

La Gallerani, pare, restò con il Moro , a corte, ancora per un anno (dopo il parto): poi , nel 1492, Ludovico, per sistemarla, la diede in sposa al conte Ludovico Carminati de’ Brambilla, anche noto come Ludovico Bergamini, feudatario di San Giovanni in Croce. Questi era figlio del condottiero Giovan Pietro Carminati di Brembilla, detto “il Bergamino“, nei confronti del quale, il Moro, nutriva una profonda fiducia, avendo questi, servito con le armi, gli Sforza e il Ducato, per tutta la sua vita.
Vincenzo  Calmeta, il segretario di Beatrice.  lo descrisse come un “giovane bello e ricco, con tanta dote e con tanti presenti che a qual si voglia gran baronessa sariano bastati”, lodando, in ciò, la generosità del Moro, che aveva voluto, in questo modo, “dar parte di ricompensa a Cecilia, della persa virginità”.

Dopo il matrimonio, Cecilia andò a vivere con il marito a Palazzo Carmagnola, edificio che in realtà il Moro aveva donato a suo figlio Cesare. Palazzo questo che il Moro aveva confiscato il 17 ottobre 1485, alla morte, senza eredi legittimi, del suo proprietario, Pietro II Dal Verme, che l’aveva in precedenza ereditato dalla madre Luchina Bussone, figlia di Francesco Bussone, detto “il Carmagnola“.
Solo succesivamente, i nuovi sposi si trasferirono nel residenza di San Giovanni in Croce, nel cremonese.

Il Calmeta, nel paragonare Cecilia Gallerani a Giulia Farnese, sostiene che fra le due, sia maggiormente da lodare Cecilia perché, sebbene entrambe fossero state vendute dai parenti ad amanti ricchi e potenti, quest’ultima fu quella che osservò maggiormente la fede matrimoniale, con continenza e serietà.

Il circolo letterario

Palazzo Carmagnola (quattrocentesco)

Cecilia, che si poteva ora fregiare del titolo di contessa, da sempre amante della letteratura, iniziò a frequentare vari poeti ed intellettuali dell’epoca, come Bernardo BellincioniMatteo Bandello e Gian Giorgio Trissino. In particolare, il Bellincioni, poeta fiorentino che, trasferitosi a Milano dal 1485, scrisse per lei vari sonetti celebrativi. 
Cecilia rimase pure sempre amica di Leonardo e continuò a scrivergli per tutta la vita (anche quando lui si traferì in Francia. Fu anche musa del loro amico comune, Matteo Bandello – autore, fra l’altro, di una delle prime versioni della storia di Romeo e Giulietta – il quale le dedicò alcune delle sue novelle.
Fu proprio grazie al contatto con questi eruditi, che la Gallerani iniziò a diventare esperta in latino, e a scrivere in versi dei suoi componimenti, creando anche una sua piccola corte a Palazzo Carmagnola;  quest’ultimo divenne uno dei primi circoli letterari della storia ed è proprio qui che nascerà la moda della conversazione e dei giochi di società.
A Palazzo Carmagnola, il 14 settembre 1496, la Gallerani. accolse anche gli ambasciatori di Venezia a Milano.
Anche nella dimora del marito, nella residenza di San Giovanni in Croce, Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando la villa in un luogo ospitale, aperto a personalità di alta levatura culturale.

Anni dopo

Benché il matrimonio fosse stato di comodo, esso fu ugualmente prodigo di figli. Una lettera di Ludovico Carminati, conservata nell’archivio Gonzaga di Mantova e definita ‘pornografica‘ da Alessandro Luzio (1857-1946 giornalista, storico ed archivista), narra delle imprese erotiche dei due coniugi, tanto imbruttiti dagli stravizi, da non potersi reggere più in piedi [ rif. – Wikipedia ]
A quanto pare, la coppia ebbe tre figli: Giovan Pietro, Girolamo e Francesco.

Nel 1498, Cesare, il figlio che Cecilia aveva avuto da Ludovico Sforza, all’età di sette anni, fu nominato abate della chiesa di San Nazaro Maggiore di Milano; nel 1505, a quattordici, divenne canonico di Milano.

Dopo l’improvvisa morte (nel 1512), di Cesare poco più che ventenne, seguita a breve da quella del marito (nel 1515), Cecilia, ormai quarantaduenne, decise di ritirarsi definitivamente nella residenza del marito, l’attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce, nel territorio di Cremona, della cui contea il marito era feudatario.

Cecilia ed Isabella d’Este, sorella di Beatrice

Cecilia fu anche in buoni rapporti e in contatto epistolare con Isabella d’Este, marchesa consorte di Mantova, sposa di Francesco II Gonzaga.

Il 26 aprile 1498, Isabella d’Este, scrisse a Cecilia una lettera, nella quale le chiedeva di poter vedere personalmente il dipinto realizzatole da Leonardo, per poter fare un confronto stilistico con alcuni quadri di Giovanni Bellini, di sua proprietà. La Gallerani le rispose tre giorni dopo, (il 29 aprile), dicendole che avrebbe provveduto immediatamente, ma avvisandola che quel ritratto non le assomigliava più poiché riferibile alla sua giovinezza (9 anni prima). Dopo la breve trasferta del dipinto a Mantova, questo ritornò nelle mani della Gallerani, come fa presupporre una lettera datata al 18 maggio, e inviata da quest’ultima alla marchesa.

Ma i buoni rapporti tra Cecilia ed Isabella non furono unicamente epistolari e continuarono anche in seguito. Infatti, quando nel 1499, il Moro venne sconfitto e deposto dai Francesi di re Luigi XII, costretti alla fuga da Milano, dopo aver subito anche la confisca dei beni, Cecilia e il marito trovarono protezione e asilo proprio dalla marchesa Isabella. Fu sempre grazie a lei, che i coniugi Carminati riuscirono a tornare in possesso dei propri beni, una volta rientrati in patria.

Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce, residenza di Cecilia Gallerani

Ormai signora di mezza età, la contessa Gallerani, continuò a coltivare la sua passione per i salotti culturali: conversava amabilmente in latino, scriveva poesie e nel suo palazzo di Cremona teneva un cenacolo di artisti.

Thumb image
Chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce, luogo di sepoltura di Cecilia Gallerani

Morte

Non si sa con certezza quando morì Cecilia Gallerani, ma lo storico Felice Calvi riporta nel suo Famiglie notabili milanesi (1874), che visse fino al 1536, quindi si spense ad un’età compresa tra i 62 e i 63 anni.
Fu presumibilmente sepolta nella tomba della famiglia Carminati, nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.

Conclusione

Di Cecilia, oggi, non rimane altro che il magnifico ritratto che Leonardo ha saputo, così sapientemente, immortalare, in quella piccola preziosa tavola lignea.

Ndr. – Viene, a questo proposito, spontanea una considerazione:
Ripercorsa ora la storia della vita di Cecilia, sono convinto che, riguardando questo ritratto, ci si soffermerà ad ammirarlo con occhio diverso, meno asettico di prima, apprezzando maggiormente anche la grandezza di Leonardo, come pittore.

Conoscendo oggi il vissuto della donna, a ripensarci, c’è da restare attoniti, dalla preveggenza dell’artista, cioè dall’intuizione da lui dimostrata nel cogliere, come sarebbe poi effettivamente avvenuto, nel sorriso a fior di labbra di quella sedicenne (così sapientemente riprodotto su tavola), la sicurezza interiore di chi, al contrario di tante altre dame del Rinascimento, non avrebbe certo avuto bisogno di sgomitare per farsi notare, sapendo che sarebbe stata sempre e comunque lei, la protagonista indiscussa della scena, che, grazie al genio dell’artista, tiene ancora oggi.

—————————————

Note

Incredibili intrecci

Fra le varie ricerche effettuate sui Gallerani, questa mi sembra davvero degna di nota:

Il maggiore dei sette fratelli di Cecilia, Sigerio (quello che si era macchiato del delitto Taverna l’amante della sorella Zanetta), una volta passata indenne la bufera giudiziaria conseguente a tale omicidio, impiantando famiglia, era andato tranquillamente a vivere a Carugate, in una delle terre non confiscate a suo padre.
Anni dopo, una sua nipote, tale Beatrice Gallerani, sarebbe diventata l’amante di Antonio de Leyva (uno dei generali spagnoli di Carlo V arrivato in Italia nel 1535, dopo la morte di Francesco II Sforza). Il figlio nato dalla loro unione sarebbe il Diego de Leyva, zio di Virginia, la famosa monaca di Monza.

Mappe personalizzate di Divina Milano

Scopri curiosità, personaggi e luoghi sulla nostra mappa. Cliccando sulle icone leggi un piccolo riassunto e puoi anche leggere tutto l’articolo.

Il centro

Il Castello