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Anselmo Ronchetti

Difficilmente la mia attenzione si sofferma sulla targa di una via, ma, indipendentemente dal fatto che quella strada totalmente priva di negozi, mi fosse totalmente sconosciuta, ciò che mi ha incuriosito è stato il suo nome, che francamente non mi ricordava nulla. Li per lì non ci ho fatto particolare caso, poi ripensandoci la sera, ho voluto andare ad indagare meglio ….. anche perché se la città gli ha dedicato una via, qualche valido motivo, ci deve pur essere!

A quanto mi risulta, i regolamenti comunali per l’intitolazione di strade, vie o piazze, sono piuttosto rigidi e stringenti. Perché venga approvata l’attribuzione di un nome ad una via, è necessario che la richiesta sia corredata da una serie di valide motivazioni storiche, politiche, religiose o altro.

Dov’è questa via?

La via Anselmo Ronchetti è oggi una stradina a senso unico, poco frequentata, che viene a trovarsi dietro l’attuale piazza San Babila: unisce Corso Monforte a via Borgogna, ed è una strada “parallela” fra le attuali vie Cino del Duca, e Visconti di Modrone. E’ uno dei rari, suggestivi esempi di terraggio, cioè di strada di servizio ai palazzi che una volta, si affacciavano sulle acque della fossa interna del Naviglio.

La targa apposta all’angolo della strada, a dire il vero, è fuorviante: riporta infatti, sotto il nome e cognome, la dizione generica di “patriota”. Ad essere onesti, definirlo “patriota” non è del tutto errato: lo storico Giuseppe Rovani, nella sua “Storia dei cent’anni”, parlando di questo Anselmo Ronchetti, lo definisce patriota insigne e, parlando della casa ove questi abitava, dichiara che essa era il “Cenacolo di ogni congiura patriottica”. Tuttavia, patriottismo a parte, la sua vera notorietà deriva da tutt’altro: fra i suoi contemporanei, era conosciuto e celebrato soprattutto come un impareggiabile calzolaio! Cesare Beccaria, che non ha bisogno di presentazioni, lo chiamava “il valoroso calzolaio” e il suo amico Gian Battista Allegri parlando di lui, lo definiva “il calzolaio degli dei”.

Questa è una mappa dell’area nel 1859 (molto diversa da oggi)

E, intendiamoci, il Ronchetti di cui sto parlando, non è un omonimo, è proprio lui, quello di questa targa! Sarebbe davvero strano che anche le date di nascita e di morte coincidessero perfettamente! Ma perché allora tacere la sua vera professione? Forse perché non era un re, un santo, un uomo politico, l’esponente di una famiglia famosa, un condottiero, o un umanista sufficientemente blasonato? A suo onore si può dire che da «schietta anima ambrosiana, tenne alto il decoro del lavoro italiano».

Probabilmente, ma questo è solo il mio pensiero malizioso, non trattandosi del nome altisonante di uno scrittore, di un musicista o di un poeta, era forse “disdicevole” intitolare una via in pieno centro a un calzolaio, ma dovendo proprio farlo, era sicuramente preferibile mascherare la cosa, con un generico e sbrigativo “patriota”.

Quindi questa viuzza è dedicata al più famoso calzolaio di Milano che abitava qui in zona, quasi all’angolo di questa strada (difficile definire il punto esatto visto che tutta la zona ha subito, particolarmente nel Novecento, pesantissime trasformazioni).

Chi era costui?

Ci racconta alcuni tratti della sua biografia, un interessante libretto edito un secolo fa (nel 1930) da Luigi Medici, dal titolo Un calzolaio storico (Anselmo Ronchetti)“- Prefazione di Ettore Verga.

Anselmo era nato il 5 ottobre 1773 a Pogliano Milanese, vicino a Parabiago, da Carlo Ronchetti, falegname, e Lucrezia Gianni, entrambi originari di Busto Arsizio: una famiglia normalissima come tante, ove lui lavorava e lei faceva la casalinga.

Frequentò i suoi primissimi anni di studio al collegio Rotondi di Gorla Minore. Tutto stava procedendo per il meglio quando, improvvisamente, una disgrazia familiare cambiò per sempre la sua vita: il padre venne a mancare all’improvviso e il giovane Anselmo (ancora bambino) dovette, suo malgrado, abbandonare gli studi ed iniziare a lavorare per far fronte alle difficoltà economiche in cui si trovò improvvisamente la sua famiglia. Il poco tempo che era stato in collegio, aveva comunque fatto nascere in lui l’interesse per lo studio e la cultura, passioni queste che poi lo avrebbero accompagnato per il resto dei suoi giorni.

Al Carrobbio

Trasferitosi a Milano, trovò lavoro, vicino a Porta Ticinese, come garzone di un ciabattino. Era un ragazzino molto sveglio e d’intelligenza decisamente superiore alla media: non ci volle molto perché cominciasse ad imparare il mestiere presso il calzolaio che lo aveva assunto in bottega al Carrobbio. Nelle ore libere, invece di andare a giocare come tutti i ragazzini della sua età, si metteva a leggere gli scritti di Carlo Innocenzo Frugoni (1692 – 1768), uno dei più celebri poeti di quel tempo, e quelli di Paolo Segneri (1624 – 1694), un gesuita, il più grande predicatore del secolo XVII: fu sui libri di questi due autori, che evidentemente aveva già cominciato a leggere al Collegio, che forgiò il suo animo.

A parte che era ancora così giovane, il primo periodo a Milano, fu davvero difficile per lui. Oltre al comprensibilissimo trauma della morte del padre, che dette una svolta definitiva alla sua vita, ci si mise pure anche la madre Lucrezia con la notizia delle sue seconde nozze. Lì per lì non si rese conto del significato della cosa: poi pian piano capì e fu per lui un periodo davvero tristissimo, di profonda amarezza e delusione. Si rese conto che l’affettuosità che la madre fino ad allora aveva nutrito nei suoi confronti, non era più la stessa di prima, ora che si era trovata un nuovo compagno. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” …. dice un proverbio popolare, ed era vero! Il piccolo vide così allentare intorno a sé, l’unico vincolo di affettuosità che gli era rimasto e, come naturalmente succede in tutti i casi di allontanamento ed isolamento, si sentì improvvisamente tremendamente solo e sperduto. Tentò di annegare nel lavoro le proprie tristezze: questo era l’unico toccasana per non scoppiare a piangere, per non fermarsi a riflettere e ad indagare nel profondo dell’io, le ragioni del suo vivere.

Ndr. – All’epoca non esistevano le calzolerie di oggi, e le calzature, scarpe, sandali, stivali ecc, venivano fatti esclusivamente su misura dai calzolai. Altrettanto dicasi per il vestiario: non esisteva il prêt-à-porter, per cui era pure fiorente l’attività di sartoria.

In via Larga

Giusto il tempo di fare le prime esperienze, ed ecco che pochi mesi dopo, col suo bagaglio di delusioni e di rimpianti, cambiò aria. Ebbe l’occasione di farsi assumere da un altro calzolaio più grande ed importante del precedente, nella centralissima via Larga. Era il Ponti, presso cui continuò a fare il lavorante. Questo cambio fece bene al suo morale: lo aiutò a pensare ad altro. Il Ponti aveva sicuramente una clientela più importante del precedente calzolaio, perché essendo vicino all’Arcivescovado, i suoi locali erano frequentati da diversi prelati che lo presero in simpatia. La sua vita allora era ancora senza pretese, per cui, legato al deschetto da mane a sera, in una fatica umiliante per un ragazzino della sua età, riuscì a mettersi da parte, nel giro di qualche anno, un bel gruzzoletto.

Apprezzato da tutti per la sua serietà, determinazione e talento, una volta imparato il mestiere, accarezzò l’idea di mettersi in proprio. Grazie anche al prestito che gli accordò l’allora parroco don Gabrio Nava, futuro vescovo di Brescia, riuscì a raggranellare risparmi sufficienti, tanto da riuscire a “spiccare il volo”, prendendo in affitto una botteguccia alle Cinque Vie (zona San Maurilio).

Cinque Vie

Questo era un rione, forse il più antico della città, sorto alla confluenza tra le vie Santa Marta, del Bollo, Santa Maria Fulcorina, Bocchetto e Santa Maria Podone. Lui, aveva trovato lì, pare nel 1794, un locale ove impiantare in proprio il suo piccolo laboratorio. Cortese e simpatico qual era, indubbiamente veloce e davvero abile nel confezionare calzature, soprattutto stivali, seppe conquistarsi rapidamente, col passaparola, un buon numero di clienti, che, visto come lavorava, gli si affezionarono subito. Divenne ben presto famoso per la morbidezza delle pelli usate, per la cura che riponeva nei dettagli, e per l’originalità delle sue calzature.

Nel 1796 ebbe poi la prima grande occasione della sua vita: grazie alla sua notevole intraprendenza, ebbe modo di conoscere Napoleone Bonaparte!

L’incontro con Napoleone

La prima volta che vide Napoleone (1769 – 1821), fu necessariamente “da lontano”: fu quel 15 maggio 1796, quando,  fresco delle vittorie di Mondovì e di Lodi, ottenute rispettivamente sulle truppe sabaude e austriache, l’imperatore francese fece il suo primo trionfale ingresso a Milano. Entrato in città, circondato da nutrita scorta di militari della sua Guardia, il ventisettenne generale stava avanzando a piedi, fra due ali di folla festante.  Anselmo Ronchetti era anche lui, lì, in mezzo a tutta quella gente. Ma mentre tutti, guardando in faccia il generale, lo applaudivano al suo passaggio, lui (allora ventitreenne) volse lo sguardo agli stivali che indossava e gli bastò un colpo d’occhio per memorizzare ogni dettaglio dei piedi di Napoleone. Deformazione professionale, diremmo oggi!

Con quell’immagine “fotografata” in mente, tornò nel suo laboratorio in Cinque Vie e si mise subito al lavoro per realizzare un paio di stivali “alla dragona”, in morbidissima pelle, da regalare al generale. Dopo qualche giorno di lavoro, si presentò all’ingresso di Palazzo Serbelloni (ove risiedeva l’imperatore), con in mano le calzature appena confezionate. Le guardie all’ingresso lo lasciarono passare, e dopo un po’ d’attesa, Napoleone, incuriosito dalla strana visita, gli concedette una breve udienza. Volle provare quegli stivali che non aveva mai ordinato, sicuro che non fossero della sua taglia. Rimase davvero stupefatto quando, calzati e fatti due passi nella sala delle udienze, non solo gli stivali gli calzavano a pennello, ma erano pure comodissimi, confezionati con pelle molto morbida e pure esteticamente curati con stemmi e borchie. Napoleone ringraziato Anselmo Ronchetti per lo splendido regalo, rimase talmente soddisfatto e stupito dalla loro comodità, che volle premiare il ciabattino milanese: non solo gli parve corretto pagare al Ronchetti 40 luigi per il suo lavoro, ma lo nominò suo calzolaio personale, indirizzando alla sua bottega, i più alti dignitari del proprio seguito.

Da quel momento, si instaurò tra i due, un clima d’amicizia e di particolare stima. Anselmo lo conquistò non solo con il suo lavoro, ma anche con la sua cultura, la sua sincerità, l’umiltà che
non sconfinava mai nel servilismo, tanto che Napoleone, un giorno, gli confessò: “vorrei avere intorno a
me tanti uomini che ti somigliassero”
.

Resta il fatto che la soddisfazione espressa da Napoleone per il preciso lavoro eseguito, fece scaturire molte ordinazioni di calzature tra gli ufficiali francesi e addirittura fra alcuni principi.

Anselmo Ronchetti

Aveva il suo caratterino

Anselmo era un soggetto mite, buono, ma, come tutti, aveva anche lui il suo caratterino. Una volta se la prese (giustamente) con uno dei comandanti francesi di Napoleone. Questi, dopo avergli ordinato un paio di stivali, parlando con lui, continuava ad elogiare la grande, insuperabile capacità dei calzolai parigini. Ronchetti, all’inizio era stato al gioco ma poi, accortosi che la cosa si stava facendo un po’ troppo insistente (quasi a denigrare il suo lavoro), “piccato” per i continui elogi e lodi sulla bravura dei colleghi transalpini, decise di far pagare al comandante questo suo “vizietto”: confezionò per lui uno solo dei due stivali ordinati e andò a consegnarglielo al suo alloggio, appena pronto. Questi, vistosi recapitare un solo stivale, pensando si trattasse di una prova, lo calzò, vide che gli stava a pennello e pregò Anselmo di fargli avere subito anche il secondo. “Fatevelo confezionare dai calzolai parigini, giusto per effettuare un doveroso raffronto sulla lavorazione…”, rispose seccamente il Ronchetti: gli fece un ossequioso inchino e si ritirò.

Non aveva ancora trent’anni ed era già il più apprezzato e noto calzolaio di tutta Milano.

In contrada del Durino

Qualche anno dopo, grazie anche all’aiuto economico di alcuni amici, decise di cambiare zona trasferendosi vicino al Verziere in contrada del Durino (oggi via Durini) aprendo una più ampia bottega, avvicinandosi così alla Cerva (insegna di un’antica osteria) che sarebbe diventata per merito suo, una delle contrade storiche di Milano. Nel trasferimento da Cinque Vie, non perse i suoi vecchi clienti: questi preferivano fare due passi di più pur di continuare a servirsi da lui, che non optare per qualche nuovo calzolaio. In compenso, acquisì diversi nuovi clienti.

Il saccheggio del suo laboratorio

Al solito, qualcuno troppo invidioso dei suoi eclatanti successi e soprattutto della tipologia di clientela “colta” che aveva iniziato a conoscerlo e a frequentare il suo laboratorio, disertando altri, tramò alle sue spalle facendogli letteralmente “saccheggiare” il nuovo negozio, in modo da non poter più nuocere alla concorrenza. Era evidente che coloro che avevano ordito alle sue spalle, già lo conoscevano di fama e la sua presenza in loco, avrebbe loro rovinato la piazza. Non si trattò di un normale furto, ma proprio di un devastante e meticoloso saccheggio! Anselmo vide andare in fumo in una sola notte, anni di sacrifici e di duro lavoro: la sua carriera rischiò davvero di finire malamente. Gli rubarono proprio tutto: dalle calzature già pronte per la vendita, ai pellami; gli fecero sparire persino gli attrezzi del mestiere, indispensabili strumenti per la sua attività. Lavoro scientifico, che ottenne pure gli onori della cronaca, facendo fra l’altro molto scalpore in città, sia per la notorietà del derubato, sia per la minuziosità del saccheggio eseguito. Lo lasciarono praticamente sul lastrico!

In contrada della Cerva

Ripresosi dal naturale momento di sconforto, costretto a ricominciare daccapo, lo fece con determinazione trovando proprio una botteguccia lì vicino, nella strada subito dietro, in contrada della Cerva, una strada praticamente parallela a contrada del Durino, ma leggermente più esterna, nella casa annessa alla chiesetta sconsacrata di Santo Stefano in Borgogna (poi abbattuta).

Ma, visto che quel primo avvertimento a smettere quell’attività, non aveva avuto esito … la “mafia locale” aveva deciso di alzare il tiro per scoraggiarlo definitivamente a proseguire (qualora ancora non lo avesse capito), … dapprima con un incendio doloso di “avvertimento” e poi, dopo questo, col passaggio alle vie di fatto …. un attentato in piena regola alla sua stessa vita, cui fortunosamente Anselmo riuscì a uscire illeso; tutto questo perché, naturalmente, la sua figura di artigiano onesto e laborioso, dava decisamente fastidio! Fu la provvidenza di Dio a salvarlo e a renderne sempre fecondo il lavoro, così da farlo diventare il calzolaio più famoso di Milano. 

Chiesa di S. Stefano in Borgogna in contrada della Cerva (demolita nel 1930)

Il matrimonio

L’unico lato positivo fra tanti dispiaceri fu che, andando ad abitare in contrada della Cerva, conobbe Teresa Gamberelli, la figlia di un suo vicino di casa, impiegato alla Zecca. Lui s’innamorò perdutamente di lei e dopo un po’, i due si sposarono. Continuarono ad abitare lì: lui volle mantenere la sua casa e la sua bottega fino alla fine dei suoi giorni, con i figli che nascevano uno dopo l’altro (ne ebbero ben venticinque!), coltivando l’orto sul retro nei momenti liberi dal lavoro e dallo studio e continuando la sua attività con successo sempre crescente e clienti sempre più importanti.

Anselmo Ronchetti, soggetto orgoglioso per sua natura, era in realtà un artigiano decisamente particolare e fuori dal comune: dedicava ogni momento libero della sua giornata, a studiare da autodidatta sforzandosi di apprendere il più possibile, per non sfigurare quando aveva occasione d’intrattenere due chiacchiere con i suoi illustri clienti.

I suoi clienti lo salutavano come ”scior professore”: quel ciabattino “letterato” destava decisamente simpatia. Tutti rimanevano ammirati ad ascoltarlo. Costanza a parte, doveva avere una capacità di apprendimento fuori dal comune, ed una memoria davvero incredibile. La sua non era una cultura superficiale (di facciata), ma incredibilmente parlava da “esperto”, lasciando a volte meravigliati i suoi stessi “illustri” amici. Diventò così non solo rinomatissimo, anzi, davvero unico nella sua arte, come scriveva di lui il poeta milanese Carlo Porta, ma anche un artigiano colto, con cui non pesava assolutamente il fermarsi in bottega più del dovuto, unicamente per scambiare due chiacchiere “tra amici”.

Carlo Porta era certamente uno dei suoi ammiratori più appassionati e simpatici. Sofferente di gotta, apprezzava particolarmente la comodità delle calzature del Ronchetti, tanto che nel 1817, gli dedicava così un’edizione delle sue opere:

L’autore all’amico Ronchetti, in segno di amicizia e di vera gratitudine universalmente da esso sentita dalla testa fino ai piedi:

”Se il mio capo sul busto torreggia,
E s’atteggia – al cangiar degli oggetti,
Sol lo ebbe alla forza del piè;
Ma se il piè regge franco e passeggia
A chi deggia non v’è, mio Ronchetti,
Che alle scarpe e a stivali di te.”

Il Ronchetti era naturalmente onoratissimo di accogliere personaggi illustri nel suo piccolo laboratorio. Alla fin fine, col passaparola, tutto il fior fiore del mondo artistico e letterario milanese andava a farsi confezionare scarpe, pantofole e stivali, da lui. Aveva fatto amicizia proprio con tutti, grazie anche al suo modo di fare sempre gentile e garbato. Passavano nel suo laboratorio non solo per ordinare le sue comode calzature, ma tantissime volte, trattandolo da vecchio amico, andavano unicamente a salutarlo scambiando due chiacchiere. Usavano quel suo laboratorio quasi come un salotto, quale punto d’incontro anche con altri amici. “Ci vediamo dal Ronchetti” …. e lì, si davano appuntamento anche gli intellettuali dell’epoca, conquistati non solo da pantofole, calzature e «ghettini» dell’artigiano (a cominciare dai celebri ronchettin di sua invenzione), ma anche dal suo gusto raffinato per le lettere, oltre che dalla sua natura gentile. Il suo umile laboratorio era diventato così il ritrovo di scienziati, poeti, artisti, che amavano intrattenersi come in un gabinetto di lettura, in una specie di piccolo club. E naturalmente Anselmo felicissimo di questi incontri, ne approfittava per arricchire il proprio bagaglio culturale da dotto autodidatta qual era, nei campi più svariati. Andavano da lui personaggi come Ugo Foscolo, Pietro Verri, Tommaso Grossi, Massimo D’Azeglio, Vincenzo Alfieri, Carlo Porta, Giuseppe Parini, Andrea Appiani. Persino Giacomo Leopardi nella sua breve visita alla città non poter fare a meno di farsi fare un paio di stivaletti su misura, a chiusura elastica. Si chiamavano “ronchettin” che era stato Anselmo stesso ad ideare e a proporli ai suoi illustri clienti, con i quali finiva per instaurare rapporti di sincera amicizia.

Si narra, ad esempio, che quando il vecchio poeta Vincenzo Monti (1754 – 1828), altro suo affezionato cliente, cadeva in preda ai suoi attacchi di ictus cerebrale, a sua insaputa, il Ronchetti gli confezionava subito un paio di comode pantofole rosa che gli omaggiava con l’augurio di pronta guarigione.

Faceva tutto su misura per tutti i piedi e per tutti i gusti. Non stupisce quindi se pure lì, in quel laboratorio avessero luogo nel 1820-21 gli incontri clandestini della Società dei Federati, l’associazione segreta guidata dal conte Federico Confalonieri, cui sopra accennava il Rovani.

La bottega di Ronchetti, allora si trovava a metà di contrada della Cerva, quasi di fronte a via Borgogna, di fianco alla seicentesca chiesetta di Santo Stefano, (demolita al pari della stessa bottega, dopo il 1923).

Dopo il tramonto dell’era napoleonica, Anselmo Ronchetti trasmise tutte le sue conoscenze calzaturiere ai propri fidati collaboratori, per poi ritagliarsi spazi culturali sempre più ampi. Riuscì addirittura a fondare presso la sua abitazione un vero e proprio salotto culturale, ove intervennero numerosi letterati e anche patrioti.

Il Congresso di Verona

Morto Napoleone a Sant’Elena il 5 maggio 1821, dal 9 al 14 ottobre dell’anno successivo, si aprì il Congresso di Verona, o Congresso dei Grandi, con la partecipazione di tutti i principi europei. Presenti fra questi, l’Imperatore Francesco II d’Austria con la consorte, l’Imperatore di tutte le Russie Alessandro I, il re di Prussia, il Granduca di Toscana con la Granduchessa, il Duca di Modena, i reali di Sardegna, il Re delle Due Sicilie, i ministri Metternich e Wellington, con gli astri maggiori della diplomazia e con il seguito di generali, ecc. divenendo così uno dei congressi più solenni che la storia ricordi.

«Non erasi mai veduto in Europa un’egual fitta di corone e di intelligenze congiurate contro il diritto dei popoli. Le cose in quel congresso, pubblicamente trattate, furono: la tratta dei negri, la rivoluzione di Grecia, la rivoluzione di Spagna; ma in sostanza lo scopo era di afforzare i vincoli della Santa Alleanza, e di prendere arcani concerti contro tutti i futuri movimenti possibili.»

Ronchetti, essendo già stato il calzolaio personale di Napoleone, contava in quei giorni, di poter diventare altrettanto, per la maggior parte delle Altezze presenti al Congresso. Come fare?

Intelligentemente, aveva fatto giungere all’Imperatore Alessandro di Russia un saggio dei suoi lavori particolari. Questi, poco dopo, a mezzo del suo luogotenente generale Guarniechest, lo invitò a presentarsi a Verona. Anselmo Ronchetti vi andò e fu naturalmente ricevuto, lodato, apprezzato e richiesto da tutti come loro calzolaio personale. Pare che addirittura alcuni Grandi lo ospitarono a colazione in un Caffè di Verona.

Interrogato dall’Imperatore d’Austria Francesco II, se si sentiva davvero contento di essere stato assunto a calzolaio di tanti Grandi, da soggetto pronto, spiritoso e per nulla intimorito di parlare davanti all’Imperatore, rispose: “Sì Maestà, giacché il Congresso non avrebbe camminato bene se non vi fosse intervenuto lo “stivale d’Italia”.

L’archivio

Il suo, quindi, era molto più di un laboratorio artigianale, era un vero e proprio archivio “storico”. In uno dei suoi armadietti di lavoro, Anselmo conservava il “Pantheon degli imperatori“, una raccolta di tutte le forme delle sagome dei piedi e delle gambe dei suoi più celebri clienti: da quelle nello zar di Russia a quelle dell’imperatore d’Austria, fino a quelle piuttosto piccole ma non meno imperiali, di Napoleone Bonaparte.

L’ultimo periodo

Anselmo Ronchetti, o Sant’Anselmo come lo chiamava scherzosamente Carlo Porta, da un po di tempo non stava più bene. Recatosi, su consiglio di medici e di amici, per un certo tempo in campagna a Pogliano, suo paese nativo, per riprendersi dopo una grave malattia che lo aveva tenuto a letto per un periodo, sembrava, al suo rientro a Milano, essersi ripreso, sia nel corpo che nello spirito. Purtroppo fu una cosa di breve durata. Ormai, perduta la sua giovialità proverbiale, sentendo la propria fine ormai vicina, si era rassegnato a trovar conforto unicamente nella fede e nelle pratiche religiose che non aveva mai abbandonato.
Si spense il 19 agosto 1833, non ancora sessantenne, di apoplessia fulminante, nella sua casa di contrada della Cerva. Venne sepolto nel Camposanto di Porta Tosa (Porta Vittoria). Quando, nel 1896, quest’ultimo fu soppresso, per lasciare spazio allo sviluppo della città, i resti di tutte le spoglie esumate da quel cimitero, furono raccolti nei sotterranei della chiesa di Santa Maria del Suffragio, sorta proprio lì, dov’era il vecchio camposanto.

I ronchettini

Dopo la morte del Ronchetti, furono solo i “ronchettini” l’unica fra le sue creazioni, a non aver conosciuto l’oblio”. L’invenzione risaliva circa all’epoca della già citata dedica che gli aveva fatto Carlo Porta (1817).

Fu uno dei suoi clienti austriaci, Franz Josef Saurau, governatore di Milano e poi della Lombardia, fra il 1814 e l’inizio del 1818, ad ispirare quest’idea al Ronchetti. Parlando del più e del meno con lui, Saurau lamentava i problemi di gelo invernale agli arti inferiori dei dignitari di corte, costretti, come da etichetta, ad indossare solo calze e scarpe. Da qui l’idea di creare uno stivale/calza, indossabile anche con l’abbigliamento formale. 

Anche per i Ronchettini, grandissimi gli elogi dei contemporanei:  pare che fossero il massimo in termini di comfort. Magari, a volte, erano fin troppo aderenti… ce ne accenna involontariamente il povero Vincenzo Monti, ormai settantenne, malamente acciaccato, vittima di un banale incidente domestico, che nel 1824, ne accennava in una lettera all’amica Madame Cattina Zajotti,

“Nel cavarmi ieri sera i ronchettini, il mio servitore l’ha fatto con tanta grazia, che m’ha scorticato fieramente il garretto, sì che m’è tolto il poter calzare, non che gli stivali, le scarpe”.

A ripensarci, è davvero un peccato che la sua casa, come il resto del laboratorio, oggi non esistano più. Con loro è sparito anche un patrimonio “ortopedico culturale”, certamente unico al mondo!

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