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Alda Merini, la “poetessa dei Navigli”

Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i ricordi dei momenti che hai vissuto e ti hanno fatto felice. La tua ricchezza non è chiusa in una cassaforte, ma nella tua mente. È nelle emozioni che hai provato dentro la tua anima.
(Alda Merini)

Questo è uno degli aforismi più famosi di Alda Merini, sicuramente una delle scrittrici italiane più amate e celebri del XX secolo, poetessa molto prolifica ed originalissima, nota a livello europeo.

Ndr. – Per aforisma s’intende l’uso di breve massima, che riassume, in modo chiaro e suggestivo, il risultato di precedenti ricerche o meditazioni.

Chi era Alda Merini

Alda Giuseppina Angela, questo era il suo nome completo all’anagrafe, era nata il 21 marzo 1931 a Milano, in viale Papiniano 57, all’angolo con via Fabio Mangone, in zona Porta Genova. Suo padre, Nemo Merini (1901 – 1955), originario di Brunate, primogenito di otto figli di un conte comasco, era stato diseredato dal padre per aver sposato una contadina di Codogno, Emilia Painelli (1901 – 1959), casalinga. Per poter tirare avanti la famiglia, aveva trovato lavoro come “assicuratore”, cioè impiegato di concetto presso la società “Il Duomo” affiliata alle assicurazioni “Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza”. Alda era la secondogenita in famiglia, fra Anna di quasi cinque anni più vecchia di lei ed il fratellino Ezio, che, nel 1943, lei stessa (allora dodicenne), aiutò la madre a far nascere.

I suoi primi anni

 Dei suoi primi anni, si hanno solo qualche testimonianza del fratello e un appunto scritto di suo pugno per l’antologia, curata da Giacinto SpagnolettiPoesia italiana contemporanea (1909-1949): «La mia infanzia – scriveva lei – non ha nulla di caratteristico: un’infanzia apparentemente, esteriormente comune ma, data la mia sensibilità acuta e forse già esasperata, ricca di toni a volte angosciosi, melanconici. Sono sempre stata isolata, chiusa in me stessa, pochissimo compresa anche dai miei e, forse per questo, il mio amore per loro non aveva confini, era assoluto. (…..) Ero molto brava ai corsi elementari: (…..) perché lo studio fu sempre una mia parte vitale.

In effetti, mentre il padre sempre affettuoso con lei, tenendola sulle ginocchia, le insegnava a leggere, regalandole persino un piccolo vocabolario perché, da sola, potesse capire il significato delle parole che non conosceva, la madre più fredda, severa e distante, tentava invano di proibirle di leggere i libri della biblioteca paterna perché, essendo pragmatica, non vedeva per lei altro futuro, che quello di moglie e madre.

La crisi mistica

Alda comunque, soggetto un po’ chiuso e sensibilissimo, non era una bambina “facile” da gestire, dimostrando fin da piccola il suo caratterino molto forte. Si definiva lei stessa “una piccola ape furibonda”. Frequentava ancora le elementari, quando venne presa da un’improvvisa crisi mistica, al punto da portare il cilicio e partecipare continuamente alle messe presso la vicina basilica di San Vincenzo in Prato, esprimendo convinta, persino l’intenzione di farsi monaca. La madre, ovviamente sconvolta, scambiando per esteriore il malessere interiore della piccola, la imbottì di vitamine e, per tentare di farle passare l’impeto vocazionale, contattò la maestra per stabilire per la figlia, uno speciale ritiro scolastico. La bimba si ribellò al punto da scappare da casa e mettersi a mendicare per strada vestita di stracci, raccontando in giro persino di essere una povera orfana, cosa questa che, appena ritrovata dalla madre, le costò una punizione e qualche sonoro scapaccione.

Durante la guerra

Finite brillantemente le elementari, nel 1940 era intanto scoppiata la guerra, e il padre la iscrisse alla scuola di avviamento al lavoro (come si usava allora) presso l’Istituto Professionale Femminile  Mantegazza, in via Ariberto.
Nel gennaio del 1943, non riuscendo a trovare un’ostetrica vicino a casa, aiutò la madre, presa improvvisamente dalle doglie, a partorire il fratellino Ezio. L’agosto di quell’anno, dopo un coprifuoco trascorso nel rifugio antiaereo, la famiglia trovò la casa distrutta da un bombardamento. Avevano perso tutto! Mentre il padre restò a Milano con Anna, la figlia maggiore, a cercare gli altri parenti, lei con la madre e il neonato scapparono prendendo il primo carro bestiame diretto a Vercelli, dove viveva una loro parente. Questa, li sistemò in un cascinale, una sorta di stalla, gelido d’inverno, dove vissero per ben tre anni. Scriverà lei stessa in seguito, ricordando quel periodo:

“Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino – scriverà Alda nella sua autobiografia – badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io. Io sono molto cattolica, la mia parrocchia a Milano era San Vincenzo in Prato. Mi sento cattolica e profondamente moralista, nel senso che sono una persona seria allevata da genitori serissimi, pesanti e pedanti in fatto di morale. Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che… (…..)
Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva,
(…..)

Rientro a Milano

Nel 1946, tornati a Milano a piedi, solo con un fagotto, poveri in canna, si impossessarono del primo locale trovato vuoto, precedentemente abitato da uno straccivendolo e lo occuparono. Era in Ripa di Porta Ticinese. Ricongiunta la famiglia, stavano in cinque in una stanza. Alda tentò di essere ammessa al Liceo-Ginnasio Alessandro Manzoni, ma non riuscì a superare la prova d’italiano. Nello stesso periodo si dedicò allo studio del pianoforte, strumento questo, che amava particolarmente.

Ripa di Porta Ticinese a sinistra del Naviglio Grande, Alzaia sul Naviglio a destra

Aveva appena 15 anni, quando esordì in pubblico, come giovanissima autrice di poesie. Trovò ascolto nel ventisettenne scrittore Angelo Romanò (1920 – 1989), che le era stato presentato da Silvana Rovelli, sua professoressa d’italiano alle medie. Romanò a sua volta, le fece conoscere un suo amico, il poeta, romanziere e critico letterario Giacinto Spagnoletti (1920 – 2003). Da allora (era il 1947), Alda Merini cominciò a frequentare la casa al n. 16 di via del Torchio, dove abitava Spagnoletti, che, da allora, divenne la sua guida, valorizzandone il talento.
Un giorno, Alda tornò a casa con una più che lusinghiera recensione di Spagnoletti, su una poesia che lei aveva composto; emozionatissima, la mostrò al padre, sicura di avere il suo plauso. Rimase profondamente amareggiata e delusa dalla reazione del genitore che, dopo aver letto il giudizio critico, stracciò quel foglio in mille pezzi, dicendole: “Ascoltami cara, la poesia non dà il pane!”.
Indubbiamente, per un soggetto sensibile come lei, in seguito ad un episodio del genere, si chiuse ulteriormente in se stessa.

Il suo primo amore

Fu proprio a casa di Spagnoletti, che conobbe diversi intellettuali che si riunivano in via del Torchio per discutere di letteratura. In quel salotto, ebbe modo di conoscere ad esempio Maria Corti, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Giorgio Manganelli e diversi altri. Fu proprio lì, che s’invaghì perdutamente del Manganelli, giovane e belloccio che, all’epoca, insegnava l’inglese. Fu una relazione destinata a lasciare traccia in lei. Lui ventiseienne, era già sposato con una figlia, mentre Alda era appena sedicenne: i due si innamorarono lasciandosi trascinare in un intenso vortice di passione, ma fu una relazione difficile, come racconterà, in seguito, lei stessa.

Le prime avvisaglie della malattia

Nel 1947, Alda era allora solo diciassettenne, incontrò “le prime ombre della sua mente“. Fu proprio Giorgio Manganelli ad accorgersene, a causa degli improvvisi, ingiustificati sbalzi d’umore che lei manifestava, quando erano insieme. Lui stesso la portò a far visitare dagli psicoanalisti Franco Fornari e Cesare Musatti. Questi si presero cura di lei, facendola ricoverare per un mese, “per esami”, presso la casa di cura milanese Ville Turro (era un manicomio).
Pare che la ragione scatenante delle sue improvvise crisi, andasse collegata al fatto che la pubblicazione del suo primo libro di poesie promessale dall’editore Arturo Schwarz, era stata bloccata per mancanza di fondi, Alda, che non vedeva l’ora di veder stampata la sua prima raccolta di poesie, non essendo in grado naturalmente di sostenere le spese della pubblicazione, cominciò a dare in escandescenze. La cosa venne successivamente risolta grazie all’intervento di una benefattrice, Ida Borletti (figlia di Senatore Borletti fondatore de La Rinascente), alla quale, poi, quella sua raccolta venne dedicata.
Nella clinica di Turro, a conclusione degli esami, le venne diagnosticato un disturbo bipolare, condizione questa, per la quale la società, per il resto della sua vita, l’avrebbe marchiata come la “pazza”.

Ndr. – Il disturbo bipolare rientra fra i disturbi dell’umore e si caratterizza per gravi alterazioni delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti. Chi ne soffre, può essere al settimo cielo in un momento e alla disperazione in un altro, senza alcuna ragione apparente, passando dal paradiso della fase maniacale o ipomaniacale, all’inferno della fase depressiva, anche molto frequentemente.

La sua prima raccolta di poesie, “La presenza di Orfeo”, venne pubblicata dall’editore Schwarz, nel 1953. La giovanissima poetessa diventò il “caso letterario” del momento: di lei si occuparono Mario Luzi, Pierpaolo Pasolini, Giancarlo Vigorelli, Salvatore Quasimodo e altri poeti, giornalisti e critici letterari dell’epoca.

 Ma la gioia per il suo successo letterario, fu offuscata dal comprensibile dolore per la rottura del suo rapporto con Giorgio Manganelli. Questi, spaventato dal disturbo bipolare di Alda, ed anche dalle minacce del padre di lei, che, da sempre, aveva osteggiato la loro unione, decise di abbandonare Milano e trasferirsi a Roma. Continuò comunque a mantenere in seguito con lei, un rapporto di sincera amicizia.

Il matrimonio

In crisi per la fine della difficile relazione con Giorgio Manganelli, decise di andarsene da casa; è lei stessa che ne parla, raccontando la sua vita:

“In questo stanzone stavamo tutti e cinque accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più”, (……) così poi l’ho sposato, nel 1953. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bel uomo.
(…..)
Andavamo a mangiare la minestra da mia madre, perché lui non aveva ancora un lavoro”.

Ndr. – Pierre Carniti, nipote di Ettore, diventerà nel 1979, segretario generale della Cisl.

In realtà Alda dimostrò di amare suo marito, anche se Ettore era molto diverso da lei sia per cultura, che per estrazione sociale. Bisticciavano spesso, ma era normale, avendo entrambi carattere forte. Poi, dopo la tempesta, uno o l’altro cedevano e tornava sempre il sereno …

Le figlie

Emanuela, la prima delle sue quattro figlie, nacque nel 1955, poche settimane dopo l’improvvisa morte (per infarto) del padre della poetessa, Nemo, che avrebbe tanto desiderato conoscere la sua prima nipotina. Nel 1957, sarà poi la volta di Flavia. In seguito a questa seconda gravidanza, Alda ebbe una forte depressione post partum, che durò molto a lungo e dalla quale non riuscì a risollevarsi. “Tu sei Pietro“, pubblicata da Scheiwiller, nel 1961, fu la sua ultima raccolta di poesie di quel periodo.

Perennemente in ristrettezze economiche, per poter mantenere la famiglia, insieme al marito aveva aperto un panificio in via Lipari (probabilmente con i soldi dell’eredità lasciatele dal padre); lui, gran lavoratore, lavorava di notte a fare il pane, lei, di giorno, a venderlo. A parte il perdurare del suo stato di depressione, a causa pure degli stressanti impegni di madre, moglie e di lavoro in negozio (la chiamavano la “fornaretta”), anche la sua spontanea vena poetica si era sopita, e di conseguenza l’attenzione culturale che si era sviluppata attorno alla sua figura, stava scemando. Probabilmente fu questo il motivo per cui, proprio in quel periodo, iniziarono a riacutizzarsi i suoi problemi mentali. Sentendosi totalmente incompresa dal marito (che, non  condivideva appieno l’interesse che lei evidenziava nei confronti dell’arte), la situazione si aggravò ulteriormente. I bisticci in casa diventarono sempre più frequenti: lui amava le allegre compagnie di perditempo e, una notte, dopo aver finito tutti i soldi che aveva in tasca, tornato a casa probabilmente alticcio, trovò Alda ad aspettarlo. Ne scaturì una lite più violenta del solito, con lancio di oggetti, al punto da dover chiamare un’ambulanza.

«Mio padre – racconta Flavia, la secondogenita – sposandosi, si aspettava un altro tipo di donna, non sapeva che sua moglie fosse una poetessa, e non sapeva che cos’è la poesia, così nacquero delle incomprensioni. Quando mia madre ebbe le prime manifestazioni strane, lui non riuscendo a placarla, chiamò i dottori, così lei finì in manicomio e mio padre soffriva, anche perché non aveva strumenti per capire».

L’internamento

Nel suo diario “L’altra verità. Diario di una diversa, evocando i terribili anni passati in manicomio, Alda parla così del suo secondo internamento:

«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina. (…..) Ora avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte. (.…) Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo, credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire».

Cosa erano gli ospedali psichiatrici prima della legge Basaglia

Una breve digressione sulla situazione degli ospedali psichiatrici dell’epoca può far comprendere meglio quale miracolo Alda Merini abbia compiuto nel trasformare il dolore dell’internamento, in una fonte di ispirazione per la sua poesia, che raggiunse il suo apice proprio con La Terra Santa (l’opera che le valse il Premio Librex Montale nel 1993 e che narra proprio della sua sconvolgente permanenza in ospedale psichiatrico), poesia la sua, che non nasceva dalla malattia mentale, bensì era per lei, il posto sicuro in cui rifugiarsi. Come scrisse lei stessa: “La poesia è stato un piano superiore in cui sono andata ad abitare nei momenti di disperazione”.

Riporto, qui di seguito, parte di un articolo sulla situazione degli ospedali psichiatrici di allora, descritta da Federica Focà autrice di un articolo dal titolo – Storia della follia in Italia: Alda Merini, i manicomi e il dolore dell’internamento

(…..)
In Italia, la prima legge ad occuparsi dei malati mentali fu la n. 36 del 1904, emanata sotto il Governo Giolitti. Tale provvedimento normativo definiva “manicomi” gli istituti destinati ad ospitare i pazienti colti da “alienazione mentale”. In tali strutture dovevano essere obbligatoriamente ricoverate le persone che presentassero la «manifesta tendenza a commettere violenza contro se stessi o contro altri». Già da queste parole risulta chiara la considerazione sociale del malato di mente come di un soggetto pericoloso, nei confronti del quale è necessario prendere delle contromisure volte al controllo più che alla cura.

Il ricovero in manicomio poteva essere richiesto dal diretto interessato, dalla famiglia o da chiunque altro, oppure poteva essere ordinato provvisoriamente dall’Autorità locale di Pubblica Sicurezza. In quest’ultimo caso, dopo un mese dall’internamento, se il direttore del manicomio indicava come necessario il ricovero veniva chiesta al Tribunale l’autorizzazione definitiva. Teoricamente l’Autorità Giudiziaria aveva il compito di verificare, nell’ambito di un vero e proprio processo, se il ricovero non costituisse un abuso, ma nella realtà la magistratura dell’epoca rinunciò ad assolvere a questa funzione di controllo, considerandola come un inutile adempimento burocratico.

La situazione dell’alienato, dunque, era a dir poco drammatica, e non solo perché chiunque poteva essere internato in assenza di una reale verifica sulla necessità del ricovero. Infatti, lo stesso stretto coinvolgimento dell’Autorità Giudiziaria nella procedura volta all’internamento in manicomio dei cosiddetti malati di mente è testimonianza del fatto che chi veniva dichiarato alienato era sostanzialmente equiparato a un delinquente comune, tanto che nel 1930 venne addirittura previsto l’obbligo di registrare i ricoverati negli ospedali psichiatrici nel casellario giudiziale.

Inoltre, anche se in teoria le dimissioni dal manicomio erano previste ad avvenuta guarigione del paziente, all’interno dei manicomi non solo mancavano totalmente strumenti di terapia risolutivi, ma proprio a causa dell’associazione tra malattia mentale e pericolosità venivano adottate, ai danni dell’alienato, delle procedure degradanti, che sfociavano in vere e proprie torture. Tra queste si segnalano, al momento dell’ammissione, il ritiro degli effetti personali, l’assegnazione di un numero e l’obbligo di portare un’uniforme; in seguito, ogni atto valutato come eversivo era suscettibile di essere punito con vere e proprie torture.
Questi trattamenti avevano l’effetto di annullare, fino ad azzerare, l’identità di una persona. Per di più, si consideri che molte donne ricoverate in manicomio erano perfettamente sane di mente. Infatti, durante la Prima Guerra Mondiale finivano in manicomio soprattutto le donne che manifestavano gravi sintomi depressivi strettamente correlati agli eventi bellici, e che per questo venivano inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, nei confronti della quale era considerato un bene adottare delle misure di risanamento. (…..)


Nel secondo Dopoguerra la situazione non migliorò: in manicomio finivano donne sane, ma che avevano manifestato un temperamento ribelle, in quanto magari si erano rese protagoniste di litigi in famiglia o con vicini di casa, oppure si erano mostrate recalcitranti rispetto alla disciplina familiare o, peggio, si erano abbandonate a disdicevoli avventure amorose con uno o più giovanotti. Fu solo nel 1968, con la legge Mariotti, che vide la luce il primo provvedimento normativo che rese meno inaccettabili le condizioni dei ricoverati in ospedale psichiatrico. Infine, la cosiddetta legge Basaglia del 1978 abolì i manicomi, eliminò il concetto di pericolosità per sé e per gli altri del malato di mente e collocò l’assistenza psichiatrica nel contesto dei normali servizi ospedalieri e ambulatoriali.

[ rif. – https://www.tuobiografo.it/

Alda Merini, la “pazza”

Madre, moglie, letterata e poetessa, Alda Merini venne considerata semplicemente una “pazza”, per via della sua malattia, e, in quanto tale, incapace di crescere le sue figlie. Sicuramente oggi, con un’assistenza adeguata e la somministrazione di corretti farmaci, lei avrebbe potuto “controllare” il suo disturbo, ma sessant’anni fa, purtroppo, la cultura scientifica in materia, era ancora molto indietro.

Il suo ricovero in manicomio, ebbe come conseguenza anche la disgregazione della sua famiglia. Le sue due figlie, Eleonora e Flavia, essendo ancora minorenni, vennero affidate ad altre famiglie, e finirono a Torino.

Gli orrori del manicomio

Furono per Alda otto anni davvero infernali, quelli passati al Paolo Pini dal 1964 al 1972. Aveva trentatré anni, quando sperimentò sulla propria pelle, le orribili torture (da lager), che usavano praticare ai malati in quei posti, metodi disumani, tesi all’annullamento della personalità dei pazienti:

  • la legarono mani e piedi alle sponde del letto, quale punizione perché, avendo l’insonnia, o non riuscendo a dormire a causa di altri pazienti che urlavano, si era permessa di alzarsi dal letto, non autorizzata;
  • subì più di un elettroshock senza anestesia, per aver risposto male ad un’infermiera o per altri futili motivi; riferisce lei stessa che il locale nel quale questa pratica veniva messa in atto, era un luogo buio e putrido;
  • visse l’umiliazione, lei che era così pudica, di doversi spogliare nuda davanti a tutti per essere lavata con la pompa e l’acqua fredda.

La privazione di ogni libertà, la disumanizzazione dei pazienti psichiatrici, quel senso di emarginazione, di totale distacco dal proprio corpo, che ormai non sentiva più suo, furono esperienze davvero scioccanti, che la segnarono per sempre. Riuscì a superare quelle tragiche pratiche, imparando a godere della libertà del suo spirito, per cui non esistevano catene che potessero tenerlo imprigionato, e ad amare, in tal modo, ancora la vita.

Nel frattempo, nelle rare occasioni in cui le permettevano il rientro a casa per qualche giorno, riuscì a dare alla luce, prima Barbara, ed infine, nel 1967, l’ultima figlia Simona. Ma, a causa della sua instabilità psichica, pure loro furono allontanate da lei e date in affidamento ad altre famiglie.

Scriverà Alda Merini nella sua biografia:

«Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini, quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono».

Mi hanno sempre giudicata come “strana”, o “diversa”, ma la sai una cosa? Mi è sempre piaciuto da morire; non sopporterei essere vista come il resto del mondo.

Andare in manicomio è una sorta di educazione alla morte.

Ripresa dell’attività letteraria

Uscita dal manicomio e completato il ciclo dei frequenti controlli medici previsti dal protocollo per il suo tipo di malattia, nel 1978, dopo quasi un ventennio di silenzio (l’ultima raccolta di poesie, “Tu sei Pietro“, era stata pubblicata nel 1961), riprese nuovamente a comporre nuovi versi, dando il via ai suoi scritti più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza vissuta in prima persona, nell’ospedale psichiatrico: il suo capolavoro in versi, “La Terra Santa” (che le farà vincere nel 1993 il Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale per la poesia e nel 1997, il Premio Procida-Elsa Morante) e il suo primo libro di prosa “L’altra verità. Diario di una diversa”, edito da Scheiwiller, con il patrocinio della Provincia di Milano.

Alla ripresa del suo lavoro di scrittrice

Ma le pene della scrittrice non erano ancora finite: il 7 luglio 1983, venne a mancare suo marito Ettore dopo una lunga malattia; lei, rimasta vedova all’età di soli 52 anni, ancora giovane e piacente, si ritrovò improvvisamente sola, anche perché le figlie erano altrove: fra l’altro, la maggiore, Emanuela, si era sposata già nel 1970, all’età di quindici anni, quando lei era ancora internata. Le altre tre, avevano la loro vita presso le famiglie cui erano state affidate dal tribunale.

Rimasta a corto di risorse economiche, per poter sbarcare il lunario, non le restò che affittare una camera della propria abitazione ad un pittore, tale Charles, al quale dedicò anche una serie di poesie che, poi, sarebbero state incluse nella sua raccolta “Vuoto d’amore“. Cercò, nel contempo, di trovare qualche editore che le pubblicasse le sue più recenti poesie, ma venne quasi del tutto ignorata dal mondo letterario.

Il secondo matrimonio

In uno dei momenti più bui della sua esistenza, quando gli stessi editori che un giorno si sarebbero contesi le sue opere, ignoravano le sue proposte, ebbe la felice idea di chiamare al telefono un vecchio collega di Taranto, (poeta pure lui, conosciuto a Milano ancora ai tempi degli incontri letterari in via del Torchio), il quale aveva dimostrato apprezzamento per le sue più recenti poesie. Era Michele Pierri (1899 – 1988), un anziano medico chirurgo, che aveva perso da poco l’amatissima moglie Aminta e che ora, era accudito da un affettuoso stuolo di dieci figli.

Fra lui che viveva a Taranto e Alda che abitava a Milano, le telefonate si infittirono al punto che fra loro sbocciò un’intesa basata sulla poesia e sulla solidarietà. Convergenza d’interessi, che presto si trasformò in sentimento d’amore, anche se a distanza. Forse, a favorire la felice conclusione di questo rapporto fu proprio Giacinto Spagnoletti (il padrone di casa del salotto di via del Torchio), amico di entrambi e al corrente della loro situazione. Con tutta probabilità, fu lui a vincere la reticenza del medico-poeta ad accogliere nella sua casa un’altra donna, convincendolo a considerare Alda non come una donna “vera” che potesse in qualche modo sostituire Aminta, l’amata compagna scomparsa, ma piuttosto come una “sorella minore” – tra i due c’erano ben trentadue anni di differenza – oppure, come una sua “paziente” nullatenente, estremamente sensibile, bisognosa di assistenza e compagnia.
La forte complicità fra loro e l’affinità di vedute e di pensiero, spinsero Alda, dapprima a trasferirsi in Puglia, da lui (che lei ammirava come suo maestro) e successivamente, il 6 ottobre 1984, a sposarlo nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto. Stando con lui, nonostante la forte differenza d’età, lei si sentiva curata, compresa e protetta: lui, prima di andare in pensione, era stato anche primario di Cardiologia all’Ospedale SS. Annunziata della città dei due mari. Conoscendo i difficili trascorsi della nuova compagna, allo scopo di evitarle possibili ricadute, volle farla visitare dai colleghi medici psicanalisti in modo che potesse fare all’occorrenza, qualche cura preventiva. Non ce ne fu bisogno, poiché i medici non rilevarono motivi di allarme per lo stato di salute mentale della poetessa.

Tale sodalizio sentimentale e poetico segnò il ritorno di Alda ai fasti letterari dei suoi esordi, quando, con il suo innato talento, incantava Spagnoletti, Montale, Quasimodo, Manganelli e gli altri. Già nel 1983, appena riallacciati i rapporti, aveva dedicato all’amico ritrovato, tre raccolte di versi: “Rime Petrose“, “Per Michele Pierri” e “Le satire delle ripe“.

Insieme vissero anni felici, pochi, per via dell’avanzata età di Michele, ma molto intensi. Il loro amore, che a molti sembrava una bizzarria, era un legame sublime, assoluto. Legame che consentì ad Alda di ritrovare se stessa e la serenità. A Taranto, sotto il segno di quell’amore, nacquero alcune delle sue opere più importanti, che la imporranno al pubblico. La serenità del loro rapporto, fu una evidente testimonianza di come il genio della poesia abbia avuto la meglio sul mostro della follia, permettendo alla poetessa di riprodurre, in versi, sentimenti sopiti col tempo.

Alda Merini e Michele Pierri

Mai lei, la “barbona”, la “disturbata”, avrebbe immaginato di riuscire a superare di gran lunga  il  suo “maestro”, al punto che Michele Pierri sarebbe stato ricordato non tanto per le sue opere (belle, ma pochissime, se confrontate con quelle della Merini), quanto per aver dato ospitalità a lei, ritenuta dai più, una demente, un’isterica con il pallino della poesia, (tutta “roba” per gente originale, pazza, complessata, poiché nessuno che sia “normale”, si metterebbe a perdere tempo e a rendersi ridicolo con i versi).

Fu proprio a Taranto che Alda, nella serena tranquillità del suo spirito, riuscì ad ultimare la stesura di “L’altra verità. Diario di una diversa“, cui si è già accennato precedentemente, scritto questo, che venne infatti pubblicato per la prima volta, nel 1986, dall’editore Scheiwiller.

Terzo internamento

Data l’età avanzata di lui, la convivenza di Alda col suo secondo marito fu bella, intensa ma breve, qualche anno appena, e finì pure in modo drammatico. Lui, ad un controllo, scoperto di essere malato terminale, fu ricoverato a lungo in Ospedale. Lei, paventando lo spettro della fine di quell’idillio e temendo fortemente la solitudine, da soggetto psicologicamente instabile qual era, ripiombò nel baratro della follia, con una spirale di crisi violente, allucinazioni e delirî paranoici. I figli di Michele Pierri, assecondando le richieste del padre (che naturalmente, stando male, non poteva aiutarla), provvidero a farla ricoverare nella clinica psichiatrica di Taranto ove era già stata visitata tempo addietro dai colleghi del loro padre. Il ricovero fu breve, ma per lei traumatico sia perché la presenza di tanti malati in un posto angusto come quello, obbligava i pazienti a stare relegati a letto, tutto il giorno, senza possibilità di alzarsi, sia per il terrore di rivivere sul suo corpo martoriato, le pratiche invasive già dolorosamente sperimentate al Paolo Pini di Milano, anni prima. Dopo pochi mesi d’internamento, nel 1987, venne rispedita a Milano, e seguirono, per lei, due anni psicologicamente durissimi. Pierri, morì infatti l’anno successivo (il 24 gennaio 1988). lontano da lei, a Taranto.

Il caffè libreria Chimera

Rimasta nuovamente sola, nella sua abitazione di Ripa di Porta Ticinese 47 (sul Naviglio), e con una metà della pensione del primo marito, la Merini fu di nuovo assillata dal problema della sopravvivenza. In quel periodo scoprì il bar libreria Chimera di via Cicco Simonetta, (ora purtroppo scomparso) nella zona di Porta Genova, gestito da Laura Alunno (una critica d’arte). In quegli anni, il Chimera restava aperto fino alle due di notte. Poiché il locale era prevalentemente frequentato da intellettuali, lì, oltre a prendere le solite consumazioni e scambiare quattro chiacchiere, gli scrittori usavano presentare le loro nuove pubblicazioni e si tenevano spesso delle letture. Quel caffè-libreria diventò per la Merini una sorta di seconda casa, e poiché conosceva praticamente tutti gli habitué del locale, essi rappresentarono per lei, quasi una seconda famiglia. Quando andava lì, si trovava sempre, un cappuccino e una fetta di torta generosamente offerti dalla titolare del locale. Seduta a uno di quei tavolini, si divertiva a mettere nero su bianco, i versi che le passavano per la mente: portava sempre con sé la sua macchina da scrivere e la carta carbone, per sopperire all’assenza del nastro inchiostrato. Una parte dell’intensa e prolifica produzione di poesie e scritti di Alda Merini, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, come “Delirio amoroso” del 1989, a cura di Ambrogio Borsani, nacque proprio lì, fra quei tavoli del Chimera.

Sul fronte della poesia, le venne comunque in aiuto il poeta-giornalista Giovanni Raboni (1932 – 2004) dapprima nel 1988, curando il “Testamento“, un’importante antologia per l’editore Crocetti, quindi scrivendo sul Corriere della sera il primo grande articolo sul ‘caso Merini, che segnò il principio della sua rinascita. Altri giornali nazionali si interessarono a lei, poi arrivò una televisione, Telemontecarlo, cui ne seguirono altre in un crescendo mediatico (es. Canale 5 con Maurizio Costanzo Show) che continuò fino a raggiungere eccessi incontrollabili, ai quali la poetessa non riusciva e non voleva sottrarsi, dopo un’intera vita trascorsa nell’oscurità dell’anonimato.

Il cambiamento generò anche un rilancio editoriale. Entrò in campo Einaudi, e nel 1991, uscì per l’editore torinese “Vuoto d’amore“, raccolta in parte antologica, in parte composta da inediti, curata dalla critica letteraria Maria Corti.

La sua casa

La sua casa di Ripa di Porta Ticinese 47, che prima dei ricoveri in manicomio, appariva sempre pulita e ordinata, si trasformò dopo l’ultimo internamento a Taranto, in un autentico deposito di oggetti più disparati.

Uno scorcio della sua casa

Amava vivere nella confusione e nel disordine più totale, dove nulla più veniva rimesso a posto e la polvere regnava sovrana ovunque. Tre stufette elettriche impilate di qua, quattro ventilatori accatastati di là, antine di mobili staccate e abbandonate casualmente per terra, per non parlare del “muro degli angeli” (come usava chiamarlo lei stessa e di cui andava orgogliosissima), nella sua camera da letto. Questo muro non era una semplice parete. Era stato, a lungo, lo sfogo della sua anima e lo specchio dei suoi pensieri, dei suoi desideri e di ciò che le balenava per la mente nelle sue notti insonni. Lo usava come blocco notes, per prendere appunti, per fare disegni, per annotare versi delle sue poesie, mentre li stava dettando al telefono, o addirittura lo utilizzava come rubrica, divenuta celebre, con decine di numeri di telefono (rigorosamente senza nome), alcuni “molto personali”, scritti a casaccio sul muro, a penna, a matita o col rossetto.

Alda Merini e il muro degli angeli

Nei primi anni Novanta, stanca di restare in solitudine, Alda si portò in casa persino un clochard, che aveva incontrato casualmente per strada, ribattezzandolo Titano e dedicandogli numerose poesie. Titano rimase con lei fino a quando, dopo qualche anno di convivenza, un male incurabile se lo portò via.

Oramai il caso Merini, per notorietà, aveva acquistato una dimensione nazionale. Le arrivarono alcuni riconoscimenti importanti e, nel 1993, come già detto, fu insignita con il premio Librex Montale, che le fruttò un assegno di 35 milioni di lire (oltre 18.000 € di oggi), una cifra notevole, per lei, allora.

Curata da Laura Alunno (la titolare del caffè Chimera), apparve per Einaudi, nel 1995, “Ballate non pagate “, una raccolta di poesie composte tra il 1989 e il 1994. Sempre nel 1995, dopo molte lungaggini burocratiche, e grazie principalmente all’intercessione del poeta, senatore Paolo Volponi, le vennero finalmente riconosciuti i benefici della legge Bacchelli.

Ndr. – La legge Bacchelli (legge 8 agosto 1985, n. 440) è una legge della Repubblica Italiana, promulgata durante il Governo Craxi I. La norma ha istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità, i quali possono così usufruire di contributi vitalizi utili al loro sostentamento. Deve il nome al suo primo, previsto, beneficiario, lo scrittore italiano Riccardo Bacchelli.

Nel 1996, vinse il premio Viareggio. Ormai era invitata ovunque a tenere serate, presentazioni, a ritirare premi. Non si negava a nessuno, spesso tuttavia disertava gli appuntamenti all’ultimo momento. La storia della poetessa che era stata in manicomio faceva indubbiamente audience, raccogliendo consensi ovunque. I presentatori televisivi cavalcavano spesso con cinismo più le sue stranezze, che il suo talento. Nel 1998, uscì, ancora per Einaudi, una bella antologia poetica, “Fiore di Poesia“, curata da Maria Corti e nel 2000, sempre dallo stesso editore, “Superba è la notte“.

Candidata al Premio Nobel

Nel 2001, Alda Merini venne ufficialmente candidata dal Pen Club Italia per il premio Nobel.

Ndr. – Pen (o P.E.N.) sta per (Poets, Essayists, Novelists) ed è una libera associazione di scrittori, poeti e narratori italiani Il Pen Club difende il principio della libera circolazione delle idee fra tutte le nazioni.

Il Pen Club Italia, presieduto dallo scrittore Ferdinando Camon, inviò in Svezia un dossier accompagnato dalla seguente motivazione:

La poetessa si e’ distinta nel panorama italiano ‘per la scrittura eminentemente lirica, che interpreta il dramma della vita, il canto rotto di una donna toccata nel profondo dal dolore, ma mai vinta.

Divenne un simbolo nazionale, l’immagine del talento soffocato e riemerso dalle “latenze del sottosuolo”: icona della donna liberata, di una vita che aveva rischiato tutto, per gettarsi negli abissi della poesia e per riemergerne vincente, dopo una lunga lotta.

Subito dopo la notizia della candidatura della poetessa al premio NobelPapa Benedetto XVI  invitò la Merini, oltre a un centinaio di altri artisti ad un incontro con lui, nella Cappella Sistina. Qualche mese prima dell’incontro col Pontefice, la poetessa aveva ricevuto in regalo dal cardinale monsignor Gianfranco Ravasi un bellissimo abito, da usare per l’occasione

L’ultima produzione

Con “L’anima innamorata” incominciò nel 2000 una produzione di poemi a soggetto religioso. Quindi fu la volta, nel 2001, di “Corpo d’amore“. “Un incontro con Gesù“, cui seguirono altri cinque libri sugli stessi temi. Nel 2003 uscì la “Clinica dell’abbandono“, oltre a diversi altri libri. La sua produzione oramai era diventata incontrollabile.

Dalla fine degli anni Novanta, il suo stato di salute cominciò a vacillare, conseguenza di una vita piena di sbalzi violenti, di tensioni, di cure invasive patite. Subì tre interventi chirurgici nell’arco di pochi anni. Le sue condizioni fisiche andarono gradualmente peggiorando, soprattutto dal punto di vista della mobilità. I ricoveri in ospedale divennero sempre più frequenti.

Nel 2005 Nicola Crocetti pubblicò “Nel cerchio di un pensiero. (Teatro per voce sola)“. Uscì nel 2009, poco prima della sua scomparsa, “Il carnevale della croce“, raccolta di poesie amorose inedite accostate a una selezione di poesie religiose.

Nel 2007, ottenne la laurea honoris causa dall’Università di Messina, in Teoria della comunicazione e dei linguaggi.

La sua morte

Alda Merini si spense il 1° novembre 2009, all’età di 78 anni, all’Ospedale San Paolo di Milano ove era stata ricoverata a causa di un sarcoma (cioè un tumore osseo). Le vennero tributati i funerali di Stato. L’ultimo saluto alla poetessa avvenne in Duomo, cuore della città che aveva sempre amato.

Le sue spoglie riposano fra i “Grandi” di Milano, nella cripta del Famedio del Cimitero Monumentale, riservato alle persone che hanno dato lustro alla città. La sua tomba è vicino a quella di Giorgio Gaber. Sulla sua lapide, una foto e una semplice scritta, “poetessa”, ricordano l’artista che rese poesia pure la follia perché: “Anche la follia, merita i suoi applausi”.

Nel 2010 venne pubblicato postumo, l’album “Una piccola ape furibonda“, un’ape regina che gironzola allegra e spensierata tra le stelle.

Dopo la morte della poetessa, il suo appartamento di Ripa di Porta Ticinese è stato smantellato, ma la sua abitazione non è scomparsa ….. ha solo cambiato indirizzo ….. traslocando a due passi da lì: il nuovo riferimento, oggi, è il secondo piano di via Magolfa 32, dove, una volta, c’era la tabaccheria comunale, ove lei prendeva sempre le sue immancabili sigarette.

Lo spazio, gestito attualmente dall’associazione culturale La Casa delle Artiste, è una ricostruzione dell’universo di Alda e della sua camera da letto. Una caotica distesa di oggetti, ricchi di significato e di storia: l’amata macchina da scrivere, il pianoforte dove suonava al telefono le romanze d’amore a Pierri, le pareti dove la poetessa, con il rossetto, appuntava i numeri di telefono degli amici o abbozzava scarabocchi. A narrare la vita di Alda Merini, oltre ai mobili e ai tanti oggetti autentici, sono le belle immagini di Giuliano Grittini, fotografo personale della scrittrice. [ rif. – www.famelico.it ]

In occasione del decimo anniversario della scomparsa di Alda Merini, Milano, che lei ha così profondamente amato, ha voluto ricordare la “poetessa dei Navigli” intitolando a suo nome il ponte di pietra sul Naviglio Grande, (quello dei lucchetti dell’amore), a due passi dalla sua abitazione di Ripa di Porta Ticinese 47, dove oggi campeggia una targa in sua memoria.

Il ponte intitolato ad Alda Merini

OPERE

La prolificità delle sue pubblicazioni è tale, che è davvero impossibile elencarle tutte in un articolo. Nonostante il ventennio di quasi totale inattività dovuto ai problemi di salute, negli ultimi trent’anni ha scritto innumerevoli opere in prosa e poesia. Qui di seguito, solo alcune delle tante:

  • Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove (1980)
  • La Terra Santa (1984)
  • L’altra verità. Diario di una diversa (1986)
  • Fogli bianchi. 23 inediti (1987)
  • Il tormento delle figure (1990)
  • Le parole di Alda Merini (1991)
  • La vita facile. Aforismi, a cura e con disegni di A. Casiraghi (1992)
  • Lettera ai figli, a cura di M. Camilliti (1994)
  • 25 poesie autografe (1994)
  • Delirio amoroso. Monologo di Licia Maglietta (1995)
  • Aforismi e magie (1999)
  • Il ladro Giuseppe. Racconti degli anni Sessanta (1999)
  • Superba è la notte (2000)
  • Folle, folle, folle di amore per te a cura di Daniela Gamba (2002)
  • Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie, a cura di P. Manni (2005)
  • Amleto di carta (2005)
  • Il diavolo è rosso (2005)
  • Un segreto andare (2006)
  • Un’anima indocile. Parole e poesie (2006)
  • Elettroshock: parole, poesie, racconti, aforismi, foto (2010)
  • Nuove magie: aforismi inediti 2007-2009 (2010)

Alcune recensioni

Ecco, qui di seguito, la recensione di alcuni dei libri più belli scritti dall’autrice:

L’altra verità. Diario di una diversa

E’ un libro decisamente crudo, che fa riflettere. L’infelice esperienza della scrittrice internata in manicomio, viene descritta sotto forma di diario e racchiude lettere e alcuni suoi versi. In una prosa lucida ma evocativa, traspare evidente, fra le righe, il dolore e la sofferenza vissuti dalla donna in quell’inferno, tra elettroshock ed altre autentiche, gratuite torture. Non parla solo di sé. ma pure degli sventurati ospiti che condividono con lei il medesimo triste destino. Il suo sguardo è attento e lucido, sincero ma allo stesso tempo schietto e disilluso. Nonostante emerga tanta solitudine e orrore, questo suo scritto mette anche in risalto il suo inno alla vita, la sicurezza di sé e delle proprie sensazioni.

Furibonda cresce la notte

Questo libro costituisce senz’altro una delle raccolte di poesie più riuscite dell’autrice, scritte in uno dei periodi più fecondi e creativi della sua produzione artistica. Il testo racchiude un lungo carteggio con Michele Pierri, oltre a poesie dedicate ai figli del medico tarantino e agli amici pugliesi, durante il suo soggiorno in Salento. Sono poesie struggenti, emozionanti, a volte drammatiche, appassionate che fanno luce sulla grande storia d’amore sbocciata tra lei e quello che sarà il suo secondo marito. Chiudono il libro nove componimenti in dialetto milanese, unici nell’intera produzione della Merini, ironici e dissacranti, tradotti in italiano da Alberto Casiraghi, eterno amico di Alda

Folle, folle, folle di amore per te

Dedicato agli innamorati senza età, questo testo è una raccolta di quaranta poesie, alcune già pubblicate altrove, altre inedite, in cui l’autrice non si rivolge a qualcuno in particolare. Sono poesie sull’amore da leggere, dedicare, recitare: grazie alle parole dell’autrice il lettore può esprimere i propri sentimenti più nascosti: dolore, passione, struggimento, angoscia. Naturalmente l’amore è una delle colonne portanti della vita dell’autrice, è un grande protagonista, una forza inspiegabile e inscalfibile: è per questo che nelle sue poesie è racchiuso molto della sua persona.

Una delle sue più belle poesie d’amore

Mi piace il verbo sentire…
Sentire il rumore del mare,
sentirne l’odore.
Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra,
sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco.
Sentire l’odore di chi ami,
sentirne la voce
e sentirlo col cuore.
Sentire è il verbo delle emozioni,
ci si sdraia sulla schiena del mondo
e si sente…

Curiosità

Alda Merini, come sappiamo, è nata a Milano il 21 marzo del 1931: a partire dal 2000, quello stesso giorno (inizio della Primavera), si celebra ogni anno la Giornata Mondiale della Poesia, una ricorrenza istituita dall’UNESCO e volta a celebrare una delle forme espressive più belle e antiche utilizzate dall’uomo.

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